Sulla dottrina marxista dello Stato. Una nota nel centenario della Rivoluzione d’ottobre (1a parte)
di COSTITUZIONALISMO (Massimo Pivetti)
Estratto. La nota discute criticamente la dottrina marxista dello Stato quale venne sviluppata da Lenin alla vigilia dello scoppio della Rivoluzione d’ottobre sulla base delle idee principali di Marx ed Engels sulla questione. Si argomenta che questa dottrina, a partire dalla sua tesi centrale di un’incompatibilità tra la nozione di Stato e quella di libertà, non ha reso nel complesso un buon servizio alla causa della classe lavoratrice nel capitalismo.
Sommario: 1. Due compiti della sinistra; 2. Una cultura borghese illuminata e la sua estinzione; 3. Sulle basi culturali dell’azione politica della sinistra; 4. La tesi dell’incompatibilità tra “Stato” e “libertà”; 5. Dottrina marxista dello Stato ed esperienza storica; 6. Influenza negativa della dottrina.
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1. Due compiti della sinistra
Fino a una quarantina di anni fa, all’interno del capitalismo industrialmente avanzato, nella sinistra era ancora diffusa la consapevolezza che ciò che poteva indurre i capitalisti e i loro rappresentanti a fare delle concessioni importanti sul terreno economico era solo il timore di perdite maggiori, o addirittura il timore di perdere tutto. In generale, dunque, che
i suoi compiti avrebbero dovuto essere sostanzialmente due: riuscire a tenere sempre vivo questo timore; sapere di volta in volta come sfruttarlo, ossia avere chiari i programmi e le misure necessarie a migliorare, attraverso l’intervento dello Stato, le condizioni di vita e di lavoro dei salariati e delle masse popolari – in pratica, le misure necessarie a migliorare il funzionamento stesso del capitalismo. Veniva al riguardo tenuto presente, da un lato, che a fronte di livelli di attività stabilmente elevati, quindi anche di una massa di profitti stabilmente elevata, i capitalisti e i loro rappresentanti avrebbero potuto col tempo abituarsi a considerare come normale un minor saggio di rendimento del capitale, finendo per accettare margini di profitto più contenuti e una minore quota dei redditi da capitale e impresa nel prodotto; dall’altro, che una parte della borghesia, la parte più istruita e socialmente sensibile, avrebbe anch’essa ricavato senso di tranquillità e di benessere da un contesto culturale e sociale non eccessivamente degradato e sufficientemente coeso; quindi, che avrebbe potuto essere indotta a sostenere, piuttosto che a contrastare, misure di riformismo socialdemocratico.
Ma anche se nel corso degli ultimi 40 anni la sinistra europea non avesse perso completamente la bussola, i due compiti appena indicati sarebbero oggi decisamente più ardui che alla fine della seconda guerra mondiale; questo, nonostante il cattivo andamento del capitalismo avanzato e l’esplosione delle disuguaglianze al suo interno abbiano finito per fornire elementi oggettivi di affermazione di istanze di rinnovamento in senso socialista della società. L’esistenza dell’URSS e le sue realizzazioni furono infatti nel primo trentennio postbellico i principali elementi fondanti della forza della sinistra – in particolare della forza sia del PCF che del PCI – in quanto prove solide della possibilità per i lavoratori di sottrarre con successo alla borghesia il controllo esclusivo della macchina dello Stato e dunque basi reali della minaccia del sovvertimento dell’ordine sociale in Europa. Con il peggiorato funzionamento e l’indebolimento dell’URSS dalla fine degli anni ’60, l’appannarsi progressivo della sua immagine e proiezione internazionale e infine la sua implosione, il comunismo europeo rapidamente si indebolì per poi sparire anch’esso del tutto.
2. Una cultura borghese illuminata e la sua estinzione
Essenzialmente alla minaccia della sovversione comunista si dovette dopo la guerra lo stesso prevalere in Europa di classi politiche e dirigenze statali progressiste, spesso capaci di fare buon uso di una cultura borghese illuminata di cui il keynesismo costituì una componente importante ma non l’unica. In Francia, ad esempio, era presente da tempo una solida tradizione culturale progressista, specialmente in campo storiografico e giuridico, ben espressa dalle idee e dai programmi governativi di vecchi esponenti importanti della
sinistra non comunista come Jean Jaurés e Leon Blum. Nella stessa Inghilterra, nell’immediato dopoguerra, idee e programmi governativi di personaggi come William Beveridge e Clement Attlee furono da essi sviluppati abbastanza indipendentemente dalle concezioni keynesiane. Anche la sinistra comunista con responsabilità di governo andò allora sostanzialmente a rimorchio della cultura sociale della borghesia illuminata, contribuendo alla sua traduzione in impianti concreti di politica economica: il comunista francese Ambroise Croizat, ministro del lavoro dal 1945 al 1947, istituì in Francia la “Securité social” chiaramente ispirandosi al piano Beveridge.
All’estinguersi della minaccia della sovversione comunista si “estinse” in Europa anche la borghesia illuminata, insieme alla sua cultura economica e sociale progressista. E non appena quella cultura finì definitivamente in soffitta all’inizio degli anni ‘80, iniziò a sparire anche la sinistra: il neoliberismo della borghesia divenne rapidamente anche la sua cultura[1].
3. Sulle basi culturali dell’azione politica della sinistra
Merita a questo punto rilevare che le basi culturali dell’azione politica di tutta la sinistra europea dalla fine della seconda guerra fino alla grande svolta di politica economica dei primi anni ’80 furono contrassegnate da un’importante assenza: l’analisi economica di Marx. Due circostanze possono contribuire a spiegare il fenomeno. La prima è la scarsa conoscenza effettiva di quell’analisi da parte della sinistra politica, comunisti inclusi: un’assenza di dimestichezza con la critica dell’economia politica e con l’analisi marxiana dei limiti del modo di produzione capitalistico, paradossalmente diffusa tra gli stessi marxisti (fino a Bad Godesberg questo fu un po’ meno vero per la sinistra tedesca, grazie soprattutto alla diffusa conoscenza tra le sue fila degli scritti della Luxemburg [2]).
Naturalmente, la scarsa conoscenza scientifica dei limiti del capitalismo ha ostacolato seriamente la capacità della sinistra di prefigurare dei rimedi per poi cercare di imporne l’adozione. La seconda circostanza ha invece a che vedere con la prospettiva rivoluzionaria del superamento del capitalismo, che non ha favorito l’elaborazione di una concezione dell’azione politica come sforzo diretto al miglioramento del suo funzionamento attraverso l’intervento dello Stato. In una prospettiva rivoluzionaria, la natura di classe dello Stato, concepito come mera sovrastruttura giuridica dei rapporti di produzione e sfruttamento capitalistici, porta a vederlo come il nemico numero uno del proletariato: fortezza da abbattere piuttosto che strumento utilizzabile anche per la difesa dei suoi interessi e il miglioramento delle condizioni materiali di vita delle masse.
Sarebbe difficile negare che le premesse di questa visione si trovino effettivamente in Marx. Nel Capitale il potere dello Stato è per lo più descritto in termini di violenza concentrata e organizzata della società – di potere utilizzato dalla borghesia per la gestione del conflitto di classe, per l’indispensabile lavoro di sorveglianza e più in generale per l’esercizio delle funzioni specifiche connesse, nel modo di produzione capitalistico, con “l’antagonismo tra il governo e la massa del popolo”. I servitori dello Stato vengono poi inclusi tra i “lavoratori improduttivi” e qualora lo Stato impieghi anche lavoratori salariati in miniere, ferrovie etc., esso opererebbe semplicemente come “capitalista industriale”, il carattere privato o statale del processo di produzione venendo considerato sostanzialmente indifferente.
Quanto al debito pubblico e al sistema fiscale ad esso corrispondente (le entrate dello Stato servendo nell’analisi marxiana soprattutto a coprire il pagamento degli interessi sul debito), non si tratterebbe che di aspetti del più generale processo di “capitalizzazione della ricchezza e di espropriazione delle masse”. Naturalmente lo Stato spesso interviene con le sue leggi anche nelle fabbriche, per regolare il salario, del lavoro a cottimo o a giornata, la lunghezza della giornata lavorativa, il lavoro dei minori e delle donne etc. Marx sembra ritenere che sia appunto solo in questa sfera – una sfera prettamente sindacale – che la classe lavoratrice possa riuscire a strappare delle conquiste importanti. Nel suo discorso inaugurale all’Industrial Working Man’s Association (Prima Internazionale, 1864-1876), fondata dieci anni dopo l’estinzione del Cartismo, Marx così descrisse l’eredità di quel movimento di classe: “Dopo aver combattuto per trent’anni con la più ammirevole perseveranza, i lavoratori inglesi sono riusciti a conquistare le Dieci Ore.[…]
La legge sulle Dieci Ore non è stata soltanto un’importante provvedimento pratico; è stata la vittoria di un principio; per la prima volta, in piena luce del sole, l’economia politica della borghesia ha dovuto cedere all’economia politica della classe lavoratrice”[3]. Egli appare nel complesso poco propenso a riconoscere che “l’economia politica della classe lavoratrice” possa riguardare anche la politica economica generale dei governi, che possa cioè puntare a sottrarre in parte alla borghesia l’utilizzo del potere dello Stato in funzione del miglioramento persistente delle condizioni generali di vita della massa del popolo.
NOTE
[1] Sulla subalternità della sinistra nei confronti della cultura economica dominante, si veda A. Barba, M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016.
[2] In particolare della sua Accumulazione del capitale del 1913 e dell’Anticritica pubblicata postuma nel 1921 (entrambe le opere sono state pubblicate in Italia da Einaudi nel 1960 con una introduzione di P.M. Sweezy).
[3] Cit. in M. Beer, The Life and Teaching of Karl Marx, International Publishers, New York, 1929, p. 183. La maggior parte dei membri inglesi del comitato direttivo della Prima Internazionale provenivano dalla Universal League for the Material Elevation of the Industrious Classes: erano noti capi sindacali, ex seguaci di Owen e del movimento cartista, movimento il cui carattere può considerarsi particolarmente ben illustrato dalle parole pronunciate nel 1838 a Manchester da un oratore cartista di fronte a 200.000 lavoratori: «Il Cartismo, amici miei, non è un movimento politico che punti a strappare dei successi elettorali. Il Cartismo è una questione di coltello e forchetta: la Carta significa un alloggio decente, cibo e bevande di buona qualità, prosperità e una giornata lavorativa più corta» (cit. in F. Engels , The Conditions of the Working Class in England in 1844 (1845) , Oxford University Press, Oxford, 1993, p. 237).
[4] Si farà riferimento all’edizione inglese di Stato e rivoluzione, corredata di numerose e utili note redazionali, contenuta nel secondo volume di The Essentials of Lenin in Two Volumes, Lawrence & Wishart, Londra, 1947. Gli scritti di Marx e di Engels in base ai quali Lenin illustra e sviluppa in Stato e rivoluzione la dottrina marxista dello Stato sono, del primo: Miseria della filosofia (1847), Manifesto del Partito comunista (con Engels, 1848), Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte (1852), Lettera a Weydemeyer (5 marzo 1852), Critica del programma di Gotha (1875), Lettera a Kugelmann (12 aprile 1871) e La guerra civile in Francia (1891); del secondo: La questione delle abitazioni (1872), Dell’autorità (1874), Lettera a Bebel (18/28 marzo 1875), Anti-Dühring (1878), L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Per la critica del progetto di programma di Erfurt (1891), Prefazione alla Guerra civile in Francia di Marx (1891), Introduzione a Cose internazionali estratte dal Volksstaat 1871-75 (1894).
[5] Lenin, The State and Revolution, cit., p. 206.
[6] I brani di quel rapporto che riguardano la dottrina di Marx e Engels sullo Stato sono riportati in una nota redazionale alle pp. 211 e 212 di The State and Revolution, cit., e sono tratti da J. Stalin, Problems of Leninism, ed ingl. 1943, pp. 656-7 e 662. Ampi brani del rapporto di Stalin al 18° Congresso sono riportati anche in Kelsen [1948], La teoria politica del Bolscevismo e altri saggi di teoria del diritto e dello Stato, a cura di R. Guastini, il Saggiatore, Milano, 1981, pp. 62-5.
[7] Cfr. L. Trotzkij, Il “socialismo in un paese solo” (1936), in La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1967.
[8] Kelsen osserva che la posizione sostenuta da Stalin al 18° Congresso rappresenta «davvero un mutamento radicale della dottrina sviluppata da Marx ed Engels, che evidentemente non previdero, o non presero in considerazione, la situazione che sarebbe esistita nel caso che il socialismo fosse stato realizzato solo in uno Stato circondato da Stati capitalistici» e aggiunge che «Ciò che Stalin disse dello Stato sovietico è vero pure rispetto al diritto sovietico, poiché lo Stato non può venire separato dal diritto. Quando lo Stato, e quindi il diritto, viene riconosciuto come un’istituzione essenziale, allora non c’è
alcuna ragione politica per negarne il carattere normativo» (H. Kelsen [1955], La teoria comunista del Diritto, Edizioni di Comunità, Milano, 1956, pp. 171-2). Qualche anno prima Kelsen aveva indicato «questa ‘lacuna’ della teoria marxista dello Stato: i fondamenti del socialismo scientifico ignorano la necessità di conservare la macchina coercitiva dello Stato anche dopo l’instaurazione del socialismo, laddove tale obiettivo sia raggiunto solo entro un singolo Stato. Tale lacuna non fu colmata da Lenin. … Di conseguenza, Stalin deve correggere non solo Marx ed Engels, ma anche – compito alquanto delicato per un bolscevico – Lenin» (Kelsen, La teoria politica del Bolscevismo e altri saggi, cit., p. 63).
[9] The State and Revolution, cit., p. 174. [10] Ibid., p. 202.
[11] Cfr. ibid., pp. 182, 210-11 e 222-23. [12] Si veda ibid., pp. 182-3 e 218-223.
[13] Lenin critica come opportuniste specialmente le tesi sostenute da Kautsky nel 1912 sulla Neue Zeit in polemica con Antonie Pannekoek (cfr. Lenin, The State and Revolution, cit., pp. 218-23).
[14] L. Althusser, Marx nei suoi limiti (1978), Mimesis althusseriana, Milano, 2004, p. 133.
Fonte:mo.it/articoli/649/
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