Non sono particolarmente felici gli appellativi che la società del ventunesimo secolo raccoglie tra sociologi, filosofi e antropologi. C’è chi la chiama società della stanchezza, chi liquida, qualcun altro società del consumo; una necrologica lista della spesa. Uno sviluppo sempre maggiore della tecnologia e della tecnica, direbbe un Alexandre Koyré che sarebbe alquanto anacronistico citare, nato per sfoltire i problemi dell’essere umano pare averli moltiplicati, aver creato un morbo che si è espanso tra parti dell’essere umano di cui si è trascurata l’importanza: la soggettività, la vitalità, la felicità.

Singolare come il mondo filosofico condivida la definizione di un’era post-moderna, piuttosto che contemporanea. Siamo fermi ancora lì, alla crisi dei valori focalizzata da Hobbes, che sanciva l’inizio della modernità e la considerazione dell’uomo nella sua nucleareità, per arrivare a Nietzsche, alla caduta abissale nella non verità del tutto, nell’artificialità della ragione e dei valori che ne derivano. Premessa la situazione alquanto tragica davanti alla quale si trova l’essere umano, un dato di fatto incontrovertibile è che la nostra società è saldata fortemente alla comunicazione, o almeno pare esserlo. Negli ultimi 15 anni le possibilità di comunicare si sono moltiplicatein modo burrascoso e la prima grande conseguenza è stato un radicale cambiamento della prassi comunicativa. Ne hanno risentito il lavoro e il mondo della produzione, la politica, la scuola e i rapporti tra le persone.

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La rapidità con cui si risponde a un messaggio, ad una email o ad una videochiamata è l’efficienza che ognuno di noi ha all’interno dei rapporti comunicativi, destabilizza e non poco l’idea che gli altri si fanno di noi e del nostro interesse. La possibilità di parlare con chiunque e dovunque, di studiare e lavorare telematicamente sono opportunità di cui si può usufruire e difficilmente si trova giusto, con tutte le possibili e pericolose sfaccettature che ne derivino, ritenerle essenzialmente negative. Più che puntare il dito rabbiosamente verso la tecnologia e proporre un improbabile ritorno al passato, dello stesso peso di un ritorno alla vita nei campi, un importante passo avanti consisterebbe in una presa di coscienza individuale, unita e costante. Prendere consapevolezza che questa nuova e inarrestabile possibilità di comunicare arreca con sé dei pericolosi effetti collaterali. Proseguendo le linee guida tracciate da Umberto Eco, secondo cui internet ha dato diritto di parola agli imbecilli, si potrebbe radicalizzare dicendo che internet ha imbecillizzato la parola.

La condizione di poter dire la nostra si è trasformata in un obbligo di dover dire necessariamente qualcosa. La necessità di parlare anticipa la finalità stessa di ciò che si dice, anticipa il concetto, anticipa il pensiero stesso riducendolo a oggetto e mero succube. Il parlare è diventato per l’uomo del ventesimo secolo una schiavitù come l’alcool dice Susan Sontag in “Io, eccetera”, un parlare monologico, rabbioso e soprattutto nichilista. La terza guerra mondiale che si combatte giornalmente sotto i commenti di Facebook è diventata insostenibile, ciò che stupisce è la dedizione, il tempo e la tenacia che si dedica a tale milizia. E poi cos’è? Impegno politico? Ribellione? Rivoluzione? Espressione proporzionata dei nostri diritti democratici? L’attenzione che si dedica alla lettura dei commenti è ormai uguale o maggiore a quella che si dedica alla lettura del post, e dell’articolo in questione. Cambiando il modo di parlare, cambia anche il modo di leggere, di ascoltare. Figure come quella del giornalista e del filosofo si stanno via via sbiadendo (anche) perché si è ormai diffusa nell’aria un’innata convinzione da parte del commentatore seriale di poter rivestire lui stesso tale vesti, uno scambio di parti tra pensatori e opinionisti, la cui differenza è sempre più mascherata. Man mano che diminuisce il prestigio del linguaggio, citando ancora la perspicace Sontag, aumenta quella del silenzio.

Joaquin Phoenix in "Her" (2013)

Joaquin Phoenix in “Her” (2013)

Dopo una premessa quanto mai pindarica e necessaria, siamo giunti al soggetto della nostra discussione. Più che tentare un improbabile percorso di riabilitazione della parola, cercando di disintossicarla dalla politica, dagli slogan e dalle falsificazioni, probabilmente conviene chiedere soccorso all’altro grande protagonista del nostro complesso e stratificato linguaggio, il silenzio. Massimo Baldini in Elogio del silenzio e della parola afferma che la causa principale del nostro malessere e della confusione sociale e linguistica di cui siamo preda è l’aver disimparato il silenzio. Inquinamento ambientale, inquinamento acustico, ma anche e soprattutto inquinamento linguistico.

Baldini designa magistralmente un secondo millennio fatto di uomini che vivono con la paura del silenzio e, nel contempo, con la nostalgia del silenzio, hanno nostalgia del silenzio perché vivono immersi nel rumore, perché il loro e l’altrui parlare è sovente un parlare degradato, vanamente loquace, perennemente distratto. Chiacchiere, semplici chiacchiere, parole improduttive e inconsistenti, che hanno nostalgia delle parole nate dal silenzio, cioè di parole parlanti che non scivolino sull’uomo affaccendato, un linguaggio che non sia un parlare puramente palatale.

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Secondo Baldini in realtà il problema della parola è molto più grave di quanto detto in precedenza, la parola si è interamente sostituita con la chiacchiera, la chiacchera del teologo non è diversa da quella del politico o del barbiere, tutto è livellato, tutto è ridotto a turpiloquio. In questo contesto catastrofico si delinea l’importanza potenziale del silenzio. Una condizione, una posizione, non una fase di passaggio ma forse un punto di arrivo, necessario per la purificazione delle relazioni umane, e delle interazioni con il nostro Io. Bisogna necessariamente premettere che è di fondamentale importanza porre una netta distinzione tra silenzio e mutismo. Chiariamo fin da subito che il silenzio è; è comunicazione, è parte integrante del linguaggio, è significante direbbe Lacan, il che è testimoniato dal fatto che il silenzio viene sempre interpretato in un determinato modo. Il silenzio è silenziare noi stessi, ma non annullarsi. Da qui nascono le numerose accezioni del silenzio e le sue diversificazioni: il silenzio del medico non è quello del paziente, il silenzio del musicista non è quello dello spettatore. Per produrre silenzio non bisogna semplicemente non parlarlo, non dirlo, bisogna viverlo, interamente.

Ma perché scegliere il silenzio? Per odio verso la parola? Baldini stesso risponde a questo quesito: non si deve scegliere il silenzio per rabbia verso la parola, ma per disprezzo per la parola anonima, irresponsabile, impersonale, inautentica e per amore per la parola originaria, per quella parola che è rimasta fedele al silenzio che la sorregge. Ma tendere verso il silenzio non è cosa facile, soprattutto oggi giorno. Siamo portati a considerare il silenzio come assenza, come mancanza di rumore, come nulla, soprattutto siamo spaventati dal silenzio. L’uomo moderno, dice Panikkar nel “Il silenzio di Dio”, non sa più stare solo, né sopporta il silenzio. Nell’immensa solitudine a cui la vita frenetica, il progresso e anche l’architettura contemporanea lo costringono, egli cerca nervosamente la folla e tenta di affogare il proprio sgomento immergendosi in rumori di ogni sorta. Più che chiaro: il silenzio ci fa paura, lo rendiamo sinonimo e risultato della nostra solitudine, per colmarlo accendiamo la televisione quando siamo a casa e la radio quando siamo in macchina, abbiamo il terrore di consapevolizzarci di star trascorrendo anche solo un minuto in silenzio, il ché è assurdo.

Automat - Edward Hopper (1927)

Automat – Edward Hopper (1927)

Bisognerebbe rieducare al silenzio, che non vuol dire sottomissione e mancanza dialogo, e neppure accettazione incondizionata di ciò che ci accade. Bisogna rieducare al silenzio poiché, dice Sertillanges, la parola ha peso solo quando si sente in essa il silenzio. Il silenzio come misura, come un’autocensura felice, come maestro di vita. Il silenzio rappresenta l’unica isola linguistica a cui attraccare nei momenti del bisogno, quando si è giunti al confine del dicibile, quando non c’è davvero nient’altro da dire, quando comprendiamo che non si tratta semplicemente di “limiti del linguaggio” ma di linguaggio come limite. Un limite che è assiomaticamente delineato dal celebre aforisma numero 7 del “Tractatus logico-philosophicus” di Ludwig Wittgenstein: su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere. Pensare è pensare in parole, ciò che non può essere pensato a parole non può essere detto. Il linguaggio tenta di esprimere se stesso ed è qui che trova un muro insormontabile, il linguaggio non può dirsi. Il limite del linguaggio è l’impotenza di descrivere un qualcosa se non avvalendosi della sua proposizione (la sua traduzione).

Come posso dire una mela se non chiamandola mela? Se dicessi che è un frutto talvolta verde e talvolta rosso ci si potrebbe, prima o poi, arrivare, ma non esistono strade sicure con cui si possa definire la mela nella sua totalità, nella sua essenza. Per Wittgenstein, scrive Hadot in “Wittgenstein e i limiti del linguaggio”, il mondo coincide con il linguaggio, e ciò è una struttura insormontabile […] il linguaggio è in qualche modo limite di se stesso e la conclusione del Tractatus è senza dubbio un appello al silenzio. La posizione del primo Wittgenstein viene chiamata non a caso da Hadot “la strategia del silenzio”, nelle “Ricerche filosofiche” il filosofo tedesco chiarisce che “tutto ciò su cui molti oggi parlano a vanvera, io nel mio libro l’ho messo saldamento al suo posto, semplicemente col tacerne”. Quello descritto da Wittgenstein è un silenzio marmoreo, invalicabile. In una lettera a Ludwig von Ficker, Wittgenstein, scrivendo riguardo la complessità del “Tractatus” (che egli stesso riteneva un’opera difficile e a tratti incomprensibile) dice che il lavoro per la sua realizzazione consistette in due parti: il lavoro di quello che ho scritto e il lavoro di tutto quello che non ho scritto. Risuona stupendamente la Lettera VII di Platone:

non ho mai scritto nulla sull’oggetto a cui mi dedico.

Ludwig Wittgenstein

Ludwig Wittgenstein

Il silenzio può facilmente apparire come una forma di impotenza, di inazione, allo stesso tempo vi sono scrittori e poeti che tendono ad esso. Il silenzio dal punto di vista artistico e umano rappresenta sorprendentemente una finalità, non una sosta ma un arresto atemporale. Il suicidio linguistico fu per certi versi intrapreso da Verlaine, che nella raccolta poetica “Sagesse” chiede disperatamente “Datemi il silenzio!”, e del tutto ottenuto dal suo celebre compagno Rimbaud, che terminò di scrivere ai soli 18 anni. Cercando di scalfire il più possibile l’idea di un blocco da scrittore, bisogna comprendere che quest’ultimo è a contatto con il silenzio quanto un pediatra con i bambini, lotta quotidianamente con il silenzio e talvolta, come nel caso del genio di Rimbaud e Hölderlin, ci si casca dentro, irrimediabilmente, volontariamente. Nel silenzio vive il personaggio/autore del romanzo Otto-Novecentesco. Alfonso Nitti, Moscarda, il turbato giovane Törless e il principe Myskin sono personaggi che, succubi del moderno, vivono all’interno di se stessi, del proprio silenzio, vi ci trovano riparo e opportunità di ascoltarsi, dando vita a romanzi che altro non sono che la dettatura di tali silenzi. Per lo scrittore il silenzio è una mela che si è sempre invaghiti di azzuffare, una strada sbagliata che si è sempre voluta percorrere. La poesia, dice Picard, nasce dal silenzio e ha nostalgia del silenzio.

 Se c’è una cosa che continuamente mi infastidisce, rispetto alla scrittura, è che davvero non mi sembra di raccapezzarmi dentro il linguaggio: non mi sembra mai di raggiungere la chiarezza e la concisione che desidero
(I’intervista estesa a David Foster Wallace, di Larry McCaffery nel 1993)

Risuona tra il niente e la parola Lo steddazzu di Cesare Pavese, le descrizione del sentimento che si prova guardando il mare, la richiesta di senso, di sussistenza, di risposte, di garanzie e come unica risposta ricevere un silenzioso, quanto pacatamente ciclico, scontrarsi delle onde. Non si va oltre la consapevolezza, la coscienza che

non c’è cosa più amara che l’alba di un giorno in cui nulla / accadrà, non c’è cosa più amara / che l’inutilità […] La lentezza dell’ora / è spietata, per chi non aspetta più nulla. / Val la pena che il sole si levi dal mare / e la lunga giornata cominci? Domani / tornerà l’alba tiepida con la diafana luce / e sarà come ieri e mai nulla accadrà. / L’uomo solo vorrebbe soltanto dormire.

Needleshaped Silence – øjeRum (2017)

Needleshaped Silence – øjeRum (2017)

La figura di Pavese è facilmente accostabile a quella dell’esistenzialismo, non a caso nel ’60 Diego Fabbri pubblicò un’opera dedicata a Pavese, “Il vizio assurdo”, il vizio assurdo che è quello del suicidio, pensiero costantemente presente nella mente di Pavese, costantemente rimandato e tenuto in un cassetto come un pacco di sigarette, un vizio a cui Pavese non riuscirà a dire di no. Da notare l’aggettivo assurdo, in onore di Camus e del lavoro filosofico affrontato dall’algerino riguardo il tema del suicidio. Il suicidio metafisico, come quello fisico, è una causa del silenzio, di un silenzio che diventa insostenibilmente leggero, di un silenzio che risulta essere l’unica risposta alle domande, o meglio, alla domanda. L’assurdo nasce dal confronto fra la necessità e il silenzio del mondo nel leggendario “Mito di Sisifo, ma non diversa è la strada tracciata da Sartre in “Essere e nulla”, l’uomo si trova solo, girovagando per questo silenzio mostruoso […] condannato per sempre a essere libero.

Il silenzio per l’esistenzialista è un momento fondamentale per il procedimento filosofico, forse il più importante. I due momenti cardini sono la consapevolezza dell’inutilità del tutto e l’accettazione di questa, potremmo dire quasi incondizionata, ma non sarebbe del tutto opportuno. Nonostante tale movimento sarà lapidato da critica e analitici, l’esistenzialismo, e lo spiega molto bene Sartre in “L’esistenzialismo è un umanismo”, non è vero che non usufruisce a pieno della ragione, è semplicemente consapevole dei forti limiti che la ragione umana ha di cogliere le cose, c’è un punto, il muro, davanti al quale poco si può fare, anzi nulla si può fare, se non accettare la sua imponenza, la sua enorme grandezza inconfrontabile con la nostra nullità. Tale è il momento del silenzio, il momento dell’accettazione, il momento in cui Sisifo diventa Sisifo.

Jean-Paul Sartre

Jean-Paul Sartre

Il silenzio come accettazione, come patto, come compromesso tra sé e sé, tra sé e l’inesistente. Spogliato degli attributi di passività e di mollezza con cui la società dell’utile lo ha travestito in questi anni, riscopriamone l’abisso, addentriamoci dentro, perché non c’è più alta forma di ribellione che la rassegnazione, spesso non c’è modo migliore per cambiare le cose se non cambiando se stesso, rivendicando un principio tipicamente stoico.

Non dico di ridare importanza alla Parola, ma almeno alle parole!

direbbe Carmelo Bene, ricominciare a dosarle, a limare questa propensione che ci è stata iniettata di abusarne, di drogarla. Una restaurazione del silenzio, e poi il silenzio potrà essere interrotto.