Complessità, società adattativa e sistemi di pensiero
di PIERLUIGI FAGAN
Questo articolo non affronta nessuna questione d’attualità stretta, ma questioni di ciclo storico che si misurano col metro della lunga durata.
Consapevoli o meno, noi pensiamo entro i limiti di un determinato sistema di pensiero[1]. I sistemi di pensiero hanno diversi obblighi, quattro principali: 1) debbono tener fissi una serie di presupposti ed al limite muovere tutto il resto che li compone; 2) debbono mantenere una coerenza interna anche approssimata, di modo da non produrre troppe contraddizioni o troppo gravi o troppo a lungo; 3) sebbene ognuno di noi abbia il suo sistema di pensiero, questo è in genere una variante o un personale assemblaggio di sistemi impersonali condivisi da più individui. Credenze, religioni, ideologie, culture sono appunto sistemi impersonali condivisi; 4) i sistemi di pensiero debbono in qualche modo riferirsi al “fuori di noi”, realtà o mondo che dir si voglia. Riferirsi significa che il sistema di pensiero aiuta a categorizzare, giudicare, collegare, archiviare fatti, nella sua funzione passiva, significa pensare, progettare ed ordinare l’azione nel mondo, nella sua funzione attiva. Al decisivo cambiamento dei tempi, della realtà e del mondo umano, consegue un radicale cambiamento nei sistemi di pensiero. Il termine “radicale” qui significa che cambiano i presupposti ed a cascata l’intero sistema.
Quelli che abbiamo chiamato “presupposti” possiamo anche dirli “principi”. Qual è il principio che ha ordinato il sistema di pensiero moderno, sin dalla sua prima formazione cinque secoli fa[2]? Non sembra esserci un termine-sintesi efficace da poter opporre in risposta alla domanda. Il più accettato nel mondo dello studio è il termine “disincanto” proposto da M. Weber[3]. Disincanto però non è un vero principio, è un termine che descrive un atteggiamento, una emancipazione da un sistema di pensiero precedente, definito “incantato” e sostituito da un atteggiamento di razionalità calcolante, finalizzata a compiere azioni. Che tipo di azioni? Quello che sembra sia accaduto nel secolo successivo al 1350, fu un crescente “darsi da fare”, quelli che altri hanno poi chiamato “rivoluzione industriosa” (De Vries, 1994)[4] sebbene l’abbiano riferita al più stretto ambito della storia economica e ne abbiamo datato la comparsa al XVII secolo inglese. In termini di sociologia generale, quella sviluppata a partire dal XV secolo, secolo in cui inizia la transizione al moderno, fu una vera e propria rivoluzione industriosa, una esplosione artigiana e mercantile guidata dalle città, fu questa l’essenza del “darsi da fare”. Da un punto di vista più generale, di atteggiamento esistenziale, fu un dare all’uomo il compito di basarsi solo sulle sue forze, investirlo della responsabilità del suo stesso destino. Questa mobilitazione attiva, si ebbe probabilmente per reazione ad un collasso, quello provocato dalla Peste Nera di metà XIV secolo. Con la morte atroce di ben un terzo della popolazione europea, concentrata in soli cinque anni e del tutto inspiegabile secondo i sistemi di pensiero del tempo, crollò appunto la fiducia nel sistema allora vigente. Né quel sistema dava possibile interpretazione, né dava indicazioni di efficaci reazioni. Il mondo si rivelò non garantito, d’improvviso non sembrò più ordinato da entità superiori di cui si omaggiavano i rappresentanti terreni (clero-aristocrazia), non era un intreccio incantato di cui l’uomo era parte passiva. Il mondo andava sperimentato, conosciuto, costruito, conquistato e ordinato a proprio modo. Bisognava dunque “darsi da fare”.
Ne è conseguito un vasto modo di stare al mondo, centrato sul lavoro come missione prima di ogni singola esistenza. La società che chiamiamo capitalista ne è stata la conseguenza successiva, così l’affermazione del pensiero scientifico e tecnico, l’interconnessione dalle grandi navigazioni alla globalizzazione, il poderoso sviluppo materiale e tutto quanto questo principio si è portato appresso, nel bene e nel male, nella storia di questi cinque secoli.
Il “darsi da fare” che ha segnato il progresso umano dal XV secolo ad oggi, ha preso le forme di un poderoso meccanismo che, alimentato da energie, materie, capitale ed idee, ha trasformato gli imput in output che sono stati consumati o accumulati per migliorare il nostro stile di vita e complessivamente darci il nostro nuovo modo di stare al mondo. Che alcuni abbiamo tratto da questo sistema del guadagno di potenza che li ha posti al vertice della piramide sociale, scalzando quelli precedenti che traevano potere da altre pratiche e valori, non cambia l’essenza del sistema che definiamo “modo di stare al mondo” e questo modo di stare al mondo ha rappresentato -complessivamente- un indubbio miglioramento delle condizioni di vita generali. A suo modo, al pari di ogni altra forma precedente, è stata una forma di adattamento alle condizioni generali di un dato tempo che muoveva dal fallimento di quella precedente. Correttamente, dopo la sommaria esecuzione del medioevo nel giudizio totalmente negativo che ne diede il sistema di pensiero illuminista, gli storici hanno diversamente illuminato i “secoli bui” rivelandone una grana ben più policroma ed una trama ben più ricca. Ma in termini comparativi, non si può negare che un più che abbondante raddoppio dell’aspettativa di vita media sia stato un progresso, per coloro che non credono alla “vita oltre la vita”, ma forse anche per quelli che fanno finta di crederci o che comunque tengono molto a questa prima fase della vita incarnata. A questo miglioramento quantitativo della durata della singola esistenza, ma anche della salute generale e della minor mortalità infantile, ha poi fatto seguito anche una miglioramento della qualità materiale della vita stessa, individuale ed associata. Questo meccanismo ha ordinato il nostro modo di stare al mondo, il modo occidentale, oggi variamente diffuso in tutto il pianeta. Ha dato “ordine” alle nostre società, che fosse inteso come disposizione degli elementi all’interno del sistema sociale ed esistenziale o che fosse inteso come l’ordinare il da farsi nel sistema di pensiero (valori, credenze). Questo complesso lo chiamiamo economico e nel moderno occidentale, oggi mondiale, è diventato l’ordinatore. Certo l’economico è sempre esistito, ma solo nel moderno è diventato ordinatore, prima vigevano altre configurazioni dell’ordinatore sociale. L’economico, è diventato il principio del sistema di pensiero e di vita, il presupposto di cui parlavamo all’inizio, il “darsi da fare” è diventato un sistema complesso che oggi ordina la vita umana, individuale e collettiva, su tutto il pianeta. Dobbiamo leggere questa storia ed i concetti che troviamo a grana grossa perché a grana fine le cose, come sempre, son tutte ben meno nitide. Se Weber esaltò la razionalità calcolatrice del moderno subentrata alla passività fideistica, Benjamin[5] ebbe poi le sue ragioni nel leggere nel sistema economico come ordinatore sociale, tracce di non minor fede, partecipazione collettiva al culto, sacerdoti e santi. Ragione ed emozione non sono dissociabili nella natura umana, ciò che cambiò però fu la loro combinazione ed il principio che portò la postura umana da passiva ad attiva.
Oggi ci troviamo a cinque secoli dall’affermazione progressiva e sempre più estesa ed intensa di questo principio ordinatore. Poiché il mondo è nel frattempo cambiato e molto di questo cambiamento è stato guidato proprio da questo sistema che ha la sua versione nel modo di vivere e quella del sistema di pensiero che vi corrisponde, è legittimo domandarsi se questa doppia versione intrecciata del sistema, quella pensata e quella agita, vale ancora. Detta così sembrerebbe una interrogazione intellettuale, una movimento gratuito del pensiero magari mosso da qualche insoddisfazione, da una vena critica o dall’osservante applicazione del dubbio metodico che pure inaugurò il moderno. Ma ci sono molti segnali del fatto che invece questa interrogazione non sia solo mossa da una presunta capacità del pensiero di essere causa di se stesso. Una serie sequenziale ed incrementale per ritmo ed intensità di segnali, sembra dirci due cose: a) i rapporti interni al doppio sistema di pensiero e pratiche vigenti mostrano sempre più nodi e sempre più problematici; b) il rapporto tra il doppio sistema e le diverse popolazioni, l’umanità e ciò che tutti ci contiene, mostra ulteriori crescenti problemi. Si potrebbe anche farla più semplice: è molto probabile che un modo di stare al mondo inaugurato in una parte specifica e limitata della superficie terrestre sei secoli fa, quando la popolazione europea era pari a quella dell’odierno Afghanistan, non sia più idoneo oggi. Alcuni che comprendono quanta informazione non esplicita contenga questa apparentemente rozza comparazione sulle condizioni adattative possono soddisfarsi della via breve, altrimenti andiamo per vie appena più lunghe per toglierci gli ultimi dubbi.
Quali sono le novità più rilevanti che hanno o stanno cambiando la nostra condizione generale? La prima novità è che questo modo di stare al mondo, nei cinque secoli passati, è stato una prerogativa di una sua specifica parte: l’Occidente. Oggi e sempre nel futuro, questo modo estende il suo dominio al mondo complessivamente inteso anche se ogni grande cultura storica declina il ruolo dell’economico come ordinatore sociale, diversamente. Ne conseguono due fatti correlati. Il primo è che diminuisce la differenza. Questo modo si è basato su un sequestro sistematico di energie e materie operato dalla parte di mondo che ne era ordinata, la nostra. Oggi tutti cercano queste materie ed energie per cui non è più possibile prenderle con la facilità con cui le predavamo prima, oggi più nessuno è lì ad aspettare l’invasione delle nostre produzioni semmai il contrario. Si va verso una tendenziale entropia di sistema in cui non ci sono più facili e vistose differenze da sfruttare. Il secondo fatto correlato al primo è che aumenta vistosamente la concorrenza tra sistema occidentale e tutti gli altri. Diminuzione della differenza ed aumento della concorrenza, avvengono rispetto ad imput parzialmente finiti. Non è finita l’energia poiché nel cosmo ce n’è in abbondanza ed in teoria non sono finite -per la stessa ragione- anche le materie sebbene la nostra capacità di prendere materie dal cosmo e portarle qui sulla Terra sia ancora più teorica che pratica. In attesa quindi di poter dilatare il nostro “oltre il giardino” all’Universo, dobbiamo considerare gli imput sulla via della scarsità relativa in un ambiente competitivo.
La seconda novità è che dopo cinque secoli, l’Occidente ha soddisfatto quasi interamente il suo bisogno di darsi da fare per darsi un modo soddisfacente di stare al mondo. Con l’ultima grande onda di progresso materiale degli anni ’50 del secolo scorso, sembra si stia saturando la nostra fame di cose, ma prima ancora la stessa capacità di inventarle e produrle. Presupporre che l’apporto che le varie esplosioni di innovazioni tra fine XIX secolo e primi del XX (elettrica, meccanica, motore a combustione, chimica, agricola) possa essere mantenuto costante dalla sola informatica (che comunque ha già sessanta anni) o dalle biotecnologie, riporta ai fasti del pensiero magico da cui la modernità pensammo rappresentasse una emancipazione[6]. La razionalità calcolante inaugurata col moderno non è riflessiva, presuppone una costante condizione di possibilità di novità, ha fede nella ripetizione costante delle condizioni. L’essere umano presuppone sempre la costanza, altrimenti dovrebbe vivere sempre all’erta per anticipare i cambiamenti[7]. Per lo più, questo presupporre funziona, salvo quanto effettivamente si incontrano discontinuità, lì si paga il prezzo del presupporre la costanza. Se materie ed energie non sono più così abbondanti, cioè “facili” da trovare, anche le idee risentono di una sorta di rendimento decrescente, molto necessario e superfluo lo si è già inventato. Anche i capitali erano entrati in relativo regime di scarsità, tant’è che per stare appresso ad imperativi irrealistici di crescita che il sistema presupponeva necessari, abbiamo dovuto dilatare a dismisura il capitale fittizio inflazionando la parte finanziaria del sistema. I quattro pilastri della poderosa macchina creata dal principio moderno del “darsi da fare”, energie, materie, capitali ed idee, per vari motivi, non sono più così abbondanti e vanno oltretutto condivisi tra molti. Infatti, questa fame di cose è ancora tutta da saturare per il resto del mondo. Ha sì ancora ampi margini di fare crescere l’economia e quindi lo stile di vita e la complessità sociale ma non dove questo sistema ha già dato i suoi frutti migliori, cioè in Occidente.
La terza novità è che una volta relativamente saturata la nostra fame di cose, la fame che è un motore pulsionale che agisce in maniera cieca e costante ha continuato a richiamare soddisfazione ma, qui in Occidente, abbiamo perso l’idea di cosa ci soddisfa. Accanto ad una costante e continua crescita della soddisfazione materiale ha cominciato a crescere una smarrita insoddisfazione psichica. L’incanto si è già rotto più di cinquanta anni fa quando al raggiunto culmine dell’esuberanza produttiva (lavatrici, frigoriferi, televisori, radio, riscaldamento ed acqua corrente domestica, automobili a basso prezzo, treni, aerei, navi, moto, abiti e cibo relativamente variati ed abbondanti, arredi e corredi), per tenere costante la pressione del flusso di sistema e per ottemperare all’imperativo categorico della crescita costante insito nel particolare modo di intendere l’economico moderno, tra obsolescenza programmata, strategie push-pull (marketing, distribuzione, pubblicità) e debiti al consumo, si è cercato di sostenere artificialmente la domanda. I bisogni originariamente propri dell’essere umano, si sono trasferiti al sistema, era il sistema ad avere sempre più bisogno che la sua esuberanza produttiva venisse consumata. C’è stata una evidente inversione di termini per cui un modo strumentale nato per soddisfare nostri fini è diventato il fine di cui noi siamo gli strumenti. Questo bisogno di far consumare l’eccesso produttivo, già allora e sempre più al crescere della produttività altro dogma del nostro particolare sistema economico, negli anni ’60, produsse un disincanto che arrivò a molta letteratura lucidamente critica ed a una ribellione giovanile sul senso della vita moderna che si è poi normalizzata ma la cui sintomaticità è rimasta sebbene, in parte deviata, in parte introiettata in varie forme di disagio psichico che ha alternato esuberanza e depressione nella più classica figura del dis-equilibrio psico-esistenziale.
A questi rilevanti cambiamenti, se ne è poi aggiunto un quarto, figlio dello stesso modo di stare al mondo. La tecnica umana è stata da sempre volta fare di più o meglio ciò che l’uomo poteva fare solo da sé, con la sua limitata strumentazione psico-fisica. Oggi questo progresso tecnico sembra esser giunto alla soglie di un ennesimo salto in cui le macchine e gli algoritmi, sono sul punto di esautorare tendenzialmente la necessità stessa di buona parte del lavoro umano, mentre le biotecnologie sono tecniche che applichiamo su noi stessi per farci vivere ancora meglio ed ancora più a lungo. Quest’ultimo fatto ingenera l’ennesima contraddizione di sistema per la quale sembra noi si debba lavorare ancora più a lungo per problemi di bilancia pensionistica, quando tutto sembrerebbe dire che il lavoro è sempre meno necessario. Di contro, le società che già da molto tempo si sono fatte ordinare dall’economico, si riproducono sempre meno. Sono dunque diminuite le differenze facili da sfruttare, sta aumentando la concorrenza, i limiti fisici della dotazione energetica e materiale premono creando ulteriori difficoltà, abbiamo quasi saturato il nostro bisogno di cose e l’innovazione è diventata una pallida copia di quella che ha trasformato la nostra vita nell’ultimo secolo e mezzo, non siamo poi più così soddisfatti dall’accumulare cose o atti d’acquisto, non abbiamo più tutta questa necessità di darsi da fare a produrre visto che macchine ed algoritmi lo faranno sempre più al posto nostro, ci aspettano anni lunghi di esistenza apparentemente improduttiva, facciamo sempre meno figli. Ma la quarta novità è che stiamo scoprendo che tutto questo macro-meccanismo oggi esteso ad un popolazione mondiale dieci volte maggiore di quella del 1750, non è compatibile con i limiti fisici ed ecologici del posto in cui viviamo.
Come abbiamo già più volte segnalato, al cambiamento di periodo storico, s’imporrebbe anche un cambiamento del sistema mentale che lo riflette. Ciò che seguirà il moderno e che noi provvisoriamente proponiamo di chiamare complesso[8], si dovrà porre il problema del suo principio, del suo presupposto. Riproponiamo ancora una volta la domanda: vale ancora quel “darsi da fare”? e se sì ha ancora lo stesso senso?
Naturalmente il darsi da fare all’interno della macchina di produzione e scambio, l’innovazione e la ricerca, la battaglia per meglio ridistribuire i suoi benefici e tutto ciò che a questo denso capitolo è connesso, rimane, prosegue. Come il moderno superò ma non cancellò la fede, il complesso non cancella certo il meccanismo prodotto dal darsi da fare. Ma a questo darsi da fare si dovrebbe cominciare a dare anche un significato meno materiale sebbene più pratico[9]. Proprio i problemi prima velocemente elencati, come ricollocare l’attività economiche nelle nostre vite, non solo quelle singole ma quelle di società, di civiltà, sono uno dei problemi che dovremmo cominciare ad affrontare. Come convivere tra più culture, come affrontare la riduzione degli imput, cosa fare del capitale inesistente che ci siamo inventati per continuare a far crescere l’economia, dove dirigere la creatività dell’ideazione che certo non può limitarsi all’invenzione di app e algoritmi, la questione ambientale, la questione geopolitica ovvero come convivere tra popolazioni sempre più dense con differenti stadi di sviluppo, aspettative e prospettive, cosa fare degli Stati-nazione occidentali ma più precisamente europei figli del moderno in evidente disagio nel mondo denso e complesso, cosa fare del tempo che va a liberarsi dall’impegno del lavoro produttivo, come recuperare una sensazione di dominio su gli eventi da cui ci sentiamo strapazzati, sono un parziale elenco di questioni su cui dovremmo darci da fare con una certa urgenza.
Questa seconda accezione del “darsi da fare” reclama tempo. Tempo per studiare, per discutere, per decidere, per provare, sperimentare e poi far retroagire i dati empirici su i sistemi di pensiero. C’è da cambiare l’intero modo di stare la mondo ed il sistema di pensiero che vi deve corrispondere, è una transizione epocale. Ma “tempo” sembra anche sempre più teoricamente disponibile data la progressiva inutilità del darsi da fare produttivo-scambista e l’incipiente assorbimento di lavoro precedentemente umano da parte delle macchine e degli algoritmi, nonché dai limiti posti dal contesto ambientale ed al già raggiunto picco di benessere delle società occidentali. Travasando il problema in opportunità, sembra che procedere a convertire tempo di lavoro in tempo disponibile sia non solo possibile, ma doveroso. Si tratta allora di tornare alla sala macchine del pensiero e specificare diversamente l’imperativo del darsi da fare, dalla società performativa alla società adattativa. Ma cos’è una società adattativa?
La società adattativa è un sistema fatto di individui autocoscienti che dovrebbe raggiungere una sua propria autocoscienza sistemica. Tutto quanto brevemente ricordato del processo storico che ha animato la fenomenologia umana del moderno dal XV secolo ad oggi, non è stato pensato, voluto, sentito e riflesso prima o durante i fatti. Weber riflette a ritroso, lui era nel 1919, l’oggetto della sua riflessione parecchi secoli indietro. Come aveva notato Hegel con la metafora della “nottola di Minerva”, il pensiero umano arriva ex-post, razionalizza poi quello che proviene da una serie di atti ciechi, ricostruisce il vero nell’intero solo quando si eleva da cotanta complessità, indecifrabile sin tanto che ci si trova al suo interno. La stessa critica post-moderna alle grandi narrazioni, sottolinea questa natura di razionalizzazione posteriore che il pensiero fa del già accaduto. Questa condizione del rapporto tra sistema di pensiero e modo di stare al mondo, assomiglia molto alla condizione dei cacciatori-raccoglitori quando una relativa abbondanza permetteva di tenere catene corte tra il bisogno (ho sete, ho fame, ho freddo, arriva la notte) ed azione che doveva soddisfarlo. Quando la relazione tra dimensione e densità dei gruppi umani ed ambiente nel quale si trovavano, diventò meno agevole e comoda, quando la soddisfazione dei bisogni divenne meno facile ed immediata, il ricorso a contributi incrementali di sussistenza di agricoltura selvatica, orticultura e poi agricoltura ed allevamento intenzionali, crebbe e con la crescita di queste attività che pre-vedevano i bisogni creando catene lunghe tra pensiero ed azione, cambiarono sostanzialmente i sistemi di pensiero, i sistemi sociali ed il modo di stare al mondo. Fu proprio lì che nacquero quelle forme politico-sociali che sono le società complesse ordinate gerarchicamente, lì dove il potere sociale e politico è nelle mani dei Pochi, come dicevano gli antichi Greci. La prima forma di complessità sociale nacque allora ed è molto probabile noi si sia sulla soglia della creazione di una seconda forma, diversa da quella originata seimila anni fa.
La società adattativa autocosciente si trova un po’ nella stessa situazione di quelal storica transizione tra caccia e raccolta e previsione organizzata della sussistenza. Non può più contare su rapporti agevoli tra bisogni e possibilità di soddisfarli. Tutto si sta facendo terribilmente più complicato. Le economie occidentali crescono a fatica, si sostengono con dosi inestinguibili di debito, per mantenere la propria gerarchia ordinante stanno polarizzando la distribuzione di ricchezza in modi che retrocedono alla condizione di secoli dai quali pensavamo di esserci emancipati. E’ stato giustamente notato che questa è una effrazione decisiva dei termini del nostro contratto sociale[10]. Si faccia molta attenzione alle rotture dei contratti sociali poiché storicamente sembrano essere queste le cause dei periodi più bui, quelli che quando leggiamo le narrazioni storiche ci fanno domandare “ma come hanno fatto ad arrivare a quel punto?”, il punto del collasso che è anticipato da un irrigidimento, una sclerosi impaurita che già provammo in Europa nella prima parte del secolo scorso. Le economie occidentali non sanno più cosa debbono produrre ora che molto viene prodotto a minor prezzo da altri. Le società occidentali non sanno più come gestire i rapporti con le altre società ora che queste si stanno emancipando dal precedente dominio ed oltretutto rischiano di diventare esse stesse dominanti. E nessuno sa come affrontare il nuovo macroscopico problema dei limiti ambientali e la stessa ridistribuzione del freno e dell’acceleratore tra chi è già cresciuto a sufficienza e chi deve invece ancora compiere il ciclo. Noi analizziamo l’intera questione come fossimo su un satellite che orbita intorno alla Terra ma le civiltà che sulla Terra abitano, con diritti veri o presunti, sono di natura egoiste e pronte a tutto pur di preservare il proprio privilegio o perseguire le proprie aspettative. Aumentano dunque vertiginosamente i rischi di disequilibrio, disequilibrio tra sempre più e sempre meno garantiti all’interno dei nostri sistemi sociali, rischi di frizioni e conflitti tra società tanto in ambito europeo ed occidentale quanto nei rapporti tra Occidente ed altre parti del mondo in ascesa, rischi di disequilibrio del rapporto generale tra umanità e pianeta. Storicamente, dal disequilibrio poi si passa al conflitto ma un conflitto nel mondo denso tra società potenziate da tecnica e scienza, non si può pensare ed accettare come evenienza. Questa stessa impossibilità razionale del conflitto è una novità storica.
Sembra dunque consigliarsi una profonda revisione del principio moderno del “darsi da fare”. Da un primitivo significato declinato in “arraffare, produrre, consumare, accumulare” a cui società, politica, scienza e tecnica, sistemi di pensiero hanno fatto da coadiuvanti, ad un salto di pre-visione simile a quello che connotò il salto di atteggiamento dalla caccia e raccolta al sistema agricolo. Si tratta di un enorme salto di complessità. Non possiamo aspettare che il nostro cieco agire modifichi i nostri modi di stare al mondo da cui poi arriverà molto dopo il cambiamento dei sistemi di pensiero, dovremmo invertire i rapporti e procedere al contrario, dai sistemi di pensiero all’azione consapevole, meditata e concordata tra molti. Non si fa retorica esagerata a segnalare l’epocalità del compito ed è bene segnalare l’inversione radicale tra storia e pensiero con la prima che forniva materia al secondo, all’assetto inverso, al pensiero che deve progettare la storia che vivremo, con una intenzionalità consapevole che ci è evolutivamente e storicamente, sconosciuta. Sapere che questa intenzionalità complessa, ove la si è pratica nel passato storico, ha variamente fallito per via dell’eterogenesi dei fini o per via della rozzezza con cui pensiamo le cose complesse o per via del fatto che nel pensare e discutere scelte e valori ognuno tiene più al tornaconto personale che la bene generale, al contingente che alla prospettiva, deve ammonirci sulla difficoltà del compito, ma non può certo opporsi a quanto abbiamo sin qui dedotto. Se non sappiamo nuotare, si impari, affogare non è una opzione.
Nelle nostre auto-attribuzioni tassonomiche, ci siamo definiti sapiens e poi sapiens sapiens da una parte e habilis, abili a fare, dall’altra. Il salto richiesto è quello di diventare collettivamente autocoscienti del nostro fare adottando un nuovo principio il “pensare prima al cosa fare” che subentra al moderno “darsi da fare e poi giustificarlo nel pensiero”. Molte le conseguenze del cambio del principio, tra cui lo sviluppo di una cultura che riesca a mettere assieme i vari tagli disciplinari con cui indaghiamo l’uomo ed il mondo. Tali discipline, sono raccolte in tre distinte aree di conoscenza, quelle che si riferiscono all’uomo, quelle che riferiscono al mondo e quelle che indagano sul nostro essere e fare nel mondo, individuale e collettivo. Nel mentre i più continuano ad approfondirle singolarmente, qualcuno dovrebbe pur cimentarsi alla loro riunificazione in un meta sistema generale, altrimenti il salto di consapevolezza complessa non sarà possibile, al pensiero mosso dall’imperativo adattativo mancherà il suo oggetto, oltreché il metodo. Molto altro si renderà necessario per il cambio del principio, tra cui la distribuzione di conoscenza che ha indici di Gini financo peggiori di quelli della distribuzione di ricchezza, l’astiosa separazione delle due culture, l’uso non dialogico e permanentemente ideologico del concetto di verità e molto altro.
Dovremmo tutti pretendere di avere più tempo per scalare assieme queste difficoltà, continuare a presupporre la costanza di ciò che sino ad oggi siamo stati, abbiamo fatto e pensato, è la ricetta certa per finire vaporizzati nel buco nero del periodo storico nel quale, malgré-nous, siamo capitati.
[1] L’argomento “sistemi di pensiero” è molto complesso e tutt’altro che sistematizzato. E’ un po’ un paradosso che la riflessione umana non abbia portato avanti una sistematizzata indagine sulle forme di ciò che la fa riflettere. La sua versione filosofica più attinente è nel concetto di Weltanschauung, termine inaugurato da I. Kant e W. von Humboldt, ripreso in concetto da W. Dilhey, M. Weber, K. Jaspers e C.G. Jung. Le credenze religiose e le ideologie sono altresì sistemi di pensiero. T. Khun lo ha indagato nel campo epistemologico con la sua teoria del paradigma, il cui cambiamento consegue la rottura del principio precedente e lancia una rivoluzione scientifica. Paradigma, presupposto e principio dicono più o meno la stessa cosa. M. Foucault, ha trattato qualcosa del genere col concetto di episteme. Ha anche una pertinenza nelle teorie linguistiche, si veda l’ipotesi Sapir-Whorf o in logica con l’olismo di Quine-Duhem. Come sempre, tutto parte dai Greci e quindi il dibattito eracliteo-permenideo sul logos e l’analisi della conoscenza operata da Platone in Repubblica e da Aristotele in Metafisica, sono le radici più antiche.
[2] Moderno è termine, come spesso accade, tutto da precisare. In termini storici il moderno inizia nel XV secolo, in termini di pensiero con Descartes e Galilei, alla fine del XVI, poiché il pensiero arriva sempre dopo. Descartes venne anticipato e mosso da una vasta temperie scettica, sarebbe salutare promuoverne una seconda. Per molti versi siamo in una tipica fase decadente, al crescere del disordine del mondo, crescono le sclerosi dogmatiche nel pensiero, non un bel segnale.
[3] M. Weber, La scienza come professione, Einaudi, 2004
[4] J. De Vries, The Industrious Revolution: Consumer Demand and the Household Economy, 1650 to the Present, Cambridge University Press, 2008
[5] W. Benjamin, Capitalismo come religione, Il nuovo melangolo, 2013
[6] R. J. Gordon, The Rise and Fall of American Growth: The U.S. Standard of Living Since the Civil War. Princeton University Press. 2016.
[7] L’argomento ha oggi la sua attualità in quella che gli psico-sociologi chiamano “epidemia d’ansia”. L’ansia è un meccanismo biochimico, evolutosi per mettere in pre-allarme la nostra attenzione, ma il meccanismo ha senso se vige per tempi limitati. Molta incertezza esistenziale della società contemporanea invece, attiva dosi incrementali di ansia in forma pressoché stabili e continue. Ciò avvelena letteralmente la biochimica cerebrale e quindi il modo stesso di funzionare della mente.
[8] Come più volte specificato, sia noi che il mondo abbiamo una complessità intrinseca costitutiva. Si propone di segnare il cambiamento di era, da moderna a complessa, non perché la complessità sia oggi una novità ma perché si sta manifestando in dimensioni ed intensità molto maggiori proponendosi come “il” problema.
[9] Di solito, su questo punto, c’è chi oppone al progresso materiale, quello spirituale. I termini che usiamo sono sempre polisemici e poco precisi. Possiamo dirlo spirituale ma dobbiamo anche considerare il lato molto pratico che struttura i modi di vivere. Se produrre e consumare cose sono atti pratici, oggi sembra richiedersi una praticità un po’ meno istintuale e conativa, una praticità adattativa. Il lato “materiale” della vita non scompare, diventa più complesso. Se il moderno si accontentò del “penso quindi sono”, il complesso pretende un “prevedo quindi vivo”. A suo tempo, lo fece già presente Hans Jonas in termini di volontarismo etico. Oggi la faccenda si presenta con ben altra urgenza imperativa. Riflessioni in merito anche nel “Cosa è successo nel XX secolo?” di P. Sloterdijk (Bollati Boringhieri 2017).
[10] Steen Jackobsen: http://www.econopoly.ilsole24ore.com/2016/11/12/la-fine-del-contratto-sociale-che-spiega-trump-brexit-e-marine-le-pen/
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