di LUCIANO BARRA CARACCIOLO
1. Cominciamo questo post da questa rivendicazione di “autorevole endorsement”:
Intanto rammentiamo che il reddito di base, nelle sue varie versioni (tra cui, nonostante la confusione concettuale prevalente, va annoverato il “reddito di cittadinanza”), è stato concepito
da Hayek e Friedman con l’espressa finalità di non far esplodere un malessere sociale – inteso nella sua accezione di problema di ordine pubblico per i più abbienti e
produttivi– che, lungi dal derivare dal fiorire di investimenti in IRS (che piuttosto tendono a mostrarsi in costante flessione in tutto il mondo “avanzato”,
qui; p.3, e
specialmente in €uropa),
è piuttosto legato al modello di mercato del lavoro perfettamente flessibile che consente sia di puntare sulla competitività esportativa, sia di traslare sui lavoratori le ricorrenti crisi determinate dalla sovraproduzione alle quali si espone, strutturalmente, un modello socioeconomico export-led.
3. Il reddito di cittadinanza, anzitutto, è del tutto simile, nella sua funzione, alle
riforme Harz preventivamente introdotte dalla Germania per acquisire un vantaggio competitivo sui partners dell’eurozona, con i quali
avrebbe dovuto invece coordinare in senso cooperativo le proprie politiche del lavoro e fiscali (almeno secondo i trattati che, molto in teoria,
qui, p.5, punirebbero inoltre l’eccesso di surplus delle partite correnti accumulato da un appartenente all’eurozona, “eccesso” che è dunque considerato,
ope legis €uropae, con una presunzione assoluta di non cooperatività e di ostacolo alla naturale convergenza delle economie dell’eurozona).
Questa funzione è quella di fissare, in termini più o meno stringenti, a seconda dei tempi e dei modi in cui si sia obbligati ad accettare un’offerta di lavoro a pena di perdere l’erogazione pubblica del beneficio, una soglia salariale di entrata nel mercato del lavoro più bassa che in precedenza, – e per di più
decrescente per via della cornice fiscale di compressione della domanda e dell’occupazione, in cui il meccanismo si inserisce (certamente se si considera l’eurozona sostenibile e un problema non prioritario).
4. Al di là dello spinoso problema del corretto accertamento amministrativo e tributario delle categorie di beneficiari effettivi nonchè, non secondariamente, e di quello di una altrettanto effettiva organizzazione e efficace erogazione delle attività di formazione e ricerca attiva di lavoro (che presuppone, per circa 9 milioni di potenziali aventi diritto, un’efficiente e colossale macchina burocratica, come tale estremamente costosa) l’attuale ddl del m5s non sfugge a questo evidente scopo essenziale.
Ed infatti, esso prevede (se siamo aggiornati quanto il prof.Ricolfi, in un recente articolo su Il Messaggero), che il beneficiario del rdc possa rifiutare 3 offerte di lavoro (parrebbe di qualunque livello retributivo e per qualsivoglia profilo di mansioni), prima di arrivare alla quarta fatidica offerta che sarebbe rifiutabile solo a certe condizioni, cioè solo ove non sia “congrua“ (art. 12, comma 2, del ddl): un’offerta di lavoro (non più rifiutabile) è considerata congrua se, cumulativamente, sia “attinente alle propensioni, agli interessi e alle competenze acquisite dal beneficiario” (il che, diciamolo subito, pone capo, in sede giudiziale, a un quasi irrisolvibile problema di onere della prova, incombente sul potenziale lavoratore recalcitrante); la retribuzione oraria sia “maggiore o eguale all’80% di quella riferita alle mansioni di provenienza“; il posto di lavoro sia “raggiungibile in meno di un’ora e venti minuti con i mezzi pubblici“.
5. Per quanto, dunque, sia controvertibile (intendo proporio in senso giudiziale) l’attinenza alle propensioni e agli interessi (introducendosi uno sbarramento soggettivamente molto esteso), la prevedibile risposta della giurisprudenza (a fronte del rifiuto opposto dal beneficiario) – e dovrebbe trattarsi del giudice civile del lavoro, essendosi in una fase di conclusione di un contratto di lavoro (seppure caratterizzato da norme imperative, civilistiche, determinanti un obbligo a contrarre)-, sarà piuttosto restrittiva.
7. Dunque, non avendosi questa considerazione diciamo
olistica delle tendenze sistemiche della disciplina del rapporto di lavoro (che è un’assoluta noncuranza verso l’effettiva applicazione della Costituzione lavoristica da parte dei proponenti del rdc, senza la quale non sarebbe infatti spiegabili l’asistematica e acritica enfasi su tale “rimedio”), più o meno,
l’effetto pratico di quella stessa clausola di salvaguardia, nello sviluppo prevedibile delle pronunce giurisprudenziali (
rebus sic stantibus, e visto che degli altri aspetti macroeconomici dell’euro-mercato del lavoro,
dichiaratamente, non ci si preoccupa affatto,
anzi si predica la riduzione austera del debito pubblico del 40% in 10 anni via taglio delle spese improduttive e delle pensioni),
sarà quello di fissare un salario di entrata pari all’80% della retribuzione prevista, in termini attuali (cioè del momento di formulazione della “quarta offerta”)
per l’eventuale precedente occupazione, o peggio, fino al limite, per chi non fosse mai stato occupato in precedenza, di un salario pari all’80% dell’ammontare dello stesso reddito di cittadinanza (questa ipotesi-limite, almeno stando alla clausola citata, appare inevitabile dal punto di vista logico-giuridico; ed è persino ipotizzabile che l’offerta possa comportare una retribuzione ancora minore dell’80% del rdc, per chi abbia avuto esperienze lavorative precarie ai livelli mansionistici meno elevati e non possa accampare, pur possedendola formalmente, una professionalità-titolo di studio concretamente utilizzata nell’esperienza lavorativa).
8. Ci pare perciò opportuno concludere facendo un tentativo di richiamo alla ragionevolezza, proprio agganciandosi all’ideologia economica dell’endorsement che abbiamo visto all’inizio del post. Non è importante aver trovato un rimedio che appare “geniale”, e appagante in termini di consenso; sarebbe ben più importante capire su quale modello socio-economico si vuole puntare, perché se si trova il rimedio e solo poi si manifesta l’ideologia economica su cui appoggiarlo, nei pochi anni di successiva applicazione di quel rimedio, il consenso si perde con una drammatica velocità.
In questa prospettiva di estremo richiamo alla ragionevolezza, ci piace riproporre (
qui, p.8), “
da quello stesso post, la sottolineatura di Cesare Pozzi, circa
la prevalenza del fattore istituzionale, cioè delle decisioni politiche di chi “controlla” lo Stato, rispetto all’aspetto occupazionale (registrato a posteriori come mera risultante delle naturalistiche forze del mercato globalizzato):
D. Si sostiene che l’attuale disoccupazione diffusa, nei paesi a capitalismo “maturo”, è essenzialmente dovuta agli effetti dell’applicazione delle nuove tecnologie nei modelli di impresa evolutisi negli ultimi anni: è una valutazione realistica o fuorviante?
R.
La domanda sottende uno dei principali “bachi” della teoria ortodossa.
L’economia di mercato che la maggior parte dell’Umanità ha in cuore – perché è liberale, quindi non vincola il destino terreno dell’uomo alla sua dotazione iniziale di diritti, e promette un benessere diffuso su una quota mai raggiunta della popolazione di ogni Comunità – si basa su una particolare declinazione del capitale che ne enfatizza la dimensione artificiale e perciò può essere detta “capitalistica”. Su questa falsariga se l’applicazione di nuove tecnologie riduce la necessità di occupare in alcuni mercati, apre lo spazio per nuovi mercati e per l’aumento del tempo libero.
Il problema della disoccupazione si crea a causa degli assetti istituzionali, quando sono il risultato di teorie normative che discendono da teorie economiche non coerenti con i propri presupposti (se si spacciano per liberali) e quindi male regolano tutti gli aspetti critici che si vengono a creare, comunità per comunità, lungo il tempo storico.
D. Se esiste una correlazione stimabile, rispetto all’intero mercato del lavoro, tra la diminuzione degli occupati e l’applicazione delle innovazioni tecnologiche, questo effetto non dovrebbe rallentare in un periodo in cui una vasta e prolungata recessione, dovuta a cause iniziali essenzialmente finanziarie e poi a politiche fiscali restrittive, determina naturalmente una caduta degli investimenti produttivi (lamentata in tutte le aree, dall’UE al Giappone)?
Il fatto che non ci sia questo rallentamento è il segnale che alla nostra crisi strutturale si sta rispondendo in questa fase generando la maggior pressione possibile sul lavoro in modo da consolidare l’idea che sia tornato una merce. Quando la situazione di rassegnazione si sarà affermata si cercherà di arrivare a un assetto di occupazione diffusa a basso reddito.
E’ significativo in questo senso l’enfasi che si è posta sui dati italiani relativi alla distribuzione del reddito (che sono tra i meno diseguali nel Mondo occidentale) rispetto al silenzio sul fatto che 85 persone possiedono quanto la metà più povera dell’umanità (che mi sembra in linea con quanto dico).
Ecco: interroghiamoci sulle cause strutturali della disoccupazione, e sull’incidenza delle molto concrete scelte istituzionali che hanno prodotto la pandemia attuale (anche di sotto-occupazione:
qui, p.6), e tentiamo di non incentivare la “situazione di rassegnazione”, ed invece, di
ripristinare la legalità della Costituzione fondata sul lavoro (
qui, introduzione pp. 1-2: notare la felice sintesi fatta dalla prof.Stirati).
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