Sport per tutti! Perché è un problema di economia, di integrazione e di genere
di SENSO COMUNE (Michelangelo Di Giacomo)
Che gli italiani siano degli entusiasti tifosi di sport è un dato di fatto universalmente riconosciuto. Negli ultimi dieci anni, però, sono diventati sempre più dei praticanti di sport. E non solo in termini di grandi eroi – quelli delle epopee ciclistiche sui passi di montagna, dei volteggi agli anelli olimpici, delle traversate a vela in solitaria o di mirabolanti discese sciistiche per i pendii alpini.
Dimentichi dell’elitismo degli sport borghesi – che trovano appeal ancora oggi solo tra chi può permettersi un’iscrizione al country club e al circolo velico, condizione sempre meno diffusa dopo la crisi economica decennale cominciata nel 2009 e il generale impoverimento delle classi medie – gli italiani si riversano nei parchi a correre ad ogni ora del giorno e della notte.
Se dieci anni fa, a correre sul Lungarno c’ero praticamente solo io, oggi alle 6 di mattina sul lungofiume di Treviso ci trovo più gente che alla partenza della maratona di New York, la mia palestra scoppia anche la sera alle 10 e la domenica mattina devo fare slalom tra i ciclisti sulla riviera del Brenta e su per il Montello.
L’osservazione di questa evidenza empirica non poteva che scatenare in me una certa curiosità sociologica. E sono andata a cercare qualche dato. Anzitutto ci sono i rapporti dell’Istat e del Coni, e molte Federazioni portano avanti le proprie rilevazioni, come la Fidal – Federazione Italiana di Atletica Leggera –, che ha commissionato ad esempio una ricerca all’Istituto Piepoli per descrivere il quadro della situazione del running amatoriale.
Dall’insieme di questi dati emerge un panorama interessante che conferma alcuni radicati confini geografici, di classe e di genere tipicamente italiani che si riverberano anche nella pratica sportiva. Una conferma che induce a pensare che sia necessario un urgente intervento pubblico per colmare i gap con politiche lungimiranti che favoriscano sviluppo economico, occupazione, prevenzione, integrazione e uguaglianza di genere.
Sono circa 20 milioni le persone che in Italia dichiarano di praticare qualche sport in modo continuativo: un italiano ogni 4. La mia impressione che fossero aumentati era vera. Dal 2001 ad oggi siamo passati dal 19 al 25,1% della popolazione. Complici le catene di materiale tecnico low cost, le palestre aperte 24/24h, l’e-commerce, i blog e i tutorial, ma anche le martellanti campagne sui benefici che lo sport apporta alla salute, sempre più persone si allacciano le scarpe da corsa. Siamo circondati da 6 milioni di runners, intendendo con ciò solo quelli che si sono iscritti a qualche gara, sia essa la campestre della parrocchia o i 100Km del Passatore: e non è certo un caso, dato che la corsa (a non volere cardiofrequenzimetri e abbigliamento tecnico di alta qualità) è senza dubbio lo sport più economico che si possa praticare.
Ma il 13% degli italiani non pratica mai nessun tipo di esercizio fisico. Orari di lavoro troppo intensi, spostamenti troppo lunghi, assenza di strutture per il supporto alle famiglie fanno sì che la maggior parte degli italiani finisca per “non avere tempo” da dedicare allo sport – a meno di non volersi trasformare in quegli AlbaRunners che vediamo correre per le nostre città in quell’interstizio orario in cui qualcuno torna dal turno di notte e qualcuno va a prender servizio.
La mia impressione di densità maggiore è confermata anche da un altro dato. Sono venuta a vivere in una delle regioni più sportive d’Italia. Il 31% circa degli abitanti del Nord-Est pratica qualche sport, contro il 17,5% delle regioni meridionali. La metà della popolazione del Mezzogiorno non pratica mai nessuno sport.
Se andiamo ad incrociare questi dati con la pratica sportiva per quintili di reddito – che dimostra che solo nei due quintili più elevati più del 40% della popolazione dedica all’attività fisica i 150 minuti minimi settimanali consigliati dall’OMS per definire il proprio stile di vita “sano” – e con le disparità di reddito tra le diverse macro-regioni italiane, è presto spiegato come lo sport sia tutt’oggi in Italia una questione di classe e di welfare comunale.
Una questione di classe evidente anche se si guarda il dato generazionale: il 66% dei giovani fino a 15 anni pratica qualche sport, complici le iniziative scolastiche e la volontà dei genitori di dare loro delle opportunità. Ma arrivati a quell’età, più della metà smette di fare sport giustificando la scelta con l’assenza di strutture nella propria zona o con il costo eccessivo delle stesse. Semplicemente, non ce lo si può più permettere.
E poi c’è la questione di genere. Definita anzitutto da un quadro legale sfavorevole: in base alla legge 91/1981 nel nostro paese nessuna disciplina sportiva femminile è qualificata come professionistica, con pesanti ricadute in termini di assenza di tutele sanitarie, assicurative, previdenziali. Allora per le donne fare dello sport una ragione di vita diventa impossibile.
Ma anche la pratica amatoriale segna il passo.
8 donne su 10 non praticano mai – o solo raramente – alcuno sport. È vero che le donne iscritte a qualche gara di corsa sono aumentate dell’8% dal 2015, ma stiamo parlando di circa 6000 atlete a fronte di 33mila uomini!!
Le donne tra i 15 e i 24 dedicano all’attività sportiva il 12,4% del proprio tempo libero, a fronte del 13,9% dei loro coetanei maschi. E la differenza si ripete nelle fasce d’età più avanzate.
Mettendo in correlazione questo dato con le 4 ore a settimana che le donne italiane dedicano più dei loro compagni alle attività di accudimento di figli e nonni e alle faccende domestiche, è facile capire come mai i maschi italiani hanno tempo di andare a calcetto e di fare ciclismo mentre per le donne sembra funambolico anche rimediare un’ora per frequentare un corso di Zumba.
Nel 1944, in piena guerra, una lettrice scriveva a “Noi donne”, la rivista allora clandestina dell’Unione Donne Italiane, ramo femminile del Pci:
“Fino adesso noi ragazze del popolo non abbiamo mai potuto fare dello sport; ci era impossibile sotto il fascismo perché, ancor più di quello maschile, lo sport femminile era riservato a chi poteva pagare. (…) È ora di mettere fine a tutto questo; è ora di aprire lo sport anche a noi ragazze del popolo. In che modo? Secondo me, basta mettersi in testa che lo sport ha un solo scopo, importantissimo, per la vita nazionale: educare fisicamente il popolo”.
A che punto siamo 80 anni dopo? Al punto in cui occorrerebbe pianificare interventi pubblici corposi che incentivino l’attività sportiva per tutte le età e sull’intero territorio nazionale.
Che cosa intendiamo con “interventi pubblici corposi”?
Dalla Fidal arriva l’idea di trasformare le città non solo in “smart” ma anche in “sport city”. Dicono Fabio Pagliara e Livio Giugliuto nel loro libro “Di corsa of course!”:
“Non esiste in Italia una strategia per usare la città come palestre a cielo aperto. Nelle città italiane prevalgono l’urbanistica della paura, le tattiche di contenimento, le operazioni di chiusura, mentre nelle città spagnole la sfida avviene sul terreno dell’apertura e della permanenza dello spazio pubblico come essenza della città”.
In passato gli italiani vivevano nelle piazze, frequentavano i luoghi aperti come luoghi di ritrovo. Oggi sono gli stranieri che fruiscono di spazi che gli italiani abbandonano chiudendosi dietro recinzioni e telecamere. Sono gli stranieri che creano nuove comunità: a Mestre il parco della Bissuola – vituperatissimo luogo di spaccio – ospita però un campionato di Cricket, frequentatissimo dalla comunità bangla, la stessa che nelle notti d’estate gioca a volano (!) alla luce dei lampioni nel “bronx” di via Piave.
Eppure, solo i luoghi frequentati sono luoghi sicuri, non c’è ronda che possa essere efficace quanto la presenza di persone. La rigenerazione urbana passa dunque per l’uso degli spazi verdi, spesso abbandonati a loro stessi, aree considerate “a rischio” dalla popolazione “autoctona” e presidiate solo da loschi giri d’affari illegali e dalle pattuglie di esercito e polizia. Riportare gli italiani a vivere i parchi e le piazze è una via indispensabile per espellere la delinquenza e per praticare l’inclusione e l’integrazione di gruppi di popolazione provenienti da aree geografiche e culturali diverse.
Pagliara e Giugliuto, peraltro, evidenziano come il 99% degli italiani accoglierebbe con entusiasmo la realizzazione di percorsi misurati dove correre, aree attrezzate comunali, attività nei parchi guidati da istruttori reclutati dal comune. 9 italiani su 10 desidererebbero strutture sportive pubbliche capillari. Addirittura, l’88% sarebbe parecchio o del tutto disposto a pagare per la realizzazione di queste aree.
La giunta rossa di Venezia dei remoti anni Ottanta puntò non a caso anche sullo sport per riqualificare aree come Mestre, città dormitorio senza tessuto sociale che vennero dotate di parchi, campi da basket, piscine, piste di pattinaggio all’aperto. Il comune di Roma ha lanciato finalmente quest’anno un programma chiamato PlayGround con cui costruirà un’area sportiva per ogni municipalità. Aree individuate da RomaCapitale e finanziate e realizzate dal Coni.
Se a ciò si affiancassero attività all’aperto programmate, campionati strutturati, tornei, corsi per le mamme, corsi di autodifesa, gruppi di runner e di ciclismo etc., si porterebbe a una reale riappropriazione dello spazio pubblico da parte dei cittadini.
Il che aiuterebbe anche a colmare le disparità economiche: non dover pagare per mandare il bambino a calcio o a pallavolo favorirebbe l’inclusione di quel milione di bambini a rischio povertà assoluta che non potranno mai pensare di praticare uno sport altrimenti.Mettendo peraltro in contatto classi sociali che solo nella scuola trovano un luogo di incontro e favorendo la circolazione di informazioni e la mobilità sociale nel medio-lungo periodo.
Ci sono poi guadagni economici immediati nel favorire la pratica sportiva. Già oggi siamo il secondo paese esportatore di materiali sportivi dell’Unione Europea dopo la Germania. Abbiamo inventato e continuiamo a inventare soluzioni tecnologiche indispensabili per uno sport che è sempre più legato alle prestazioni. Incentivare la pratica sportiva aprirebbe a queste aziende un mercato interno tutto da scoprire. Magari con un “bonus sport” da affiancare al “bonus cultura” per i giovani legato ai prodotti d’eccellenza italiani – e sì, suona a protezionismo, ma tant’è.
C’è poi un indotto. Una Maratona grande come Milano porta 25mila atleti – considerando le varie distanze da 10 a 42,1km – e tutte le loro famiglie in città. Una corsa amatoriale come la Deejay Ten ne muove 35mila in ogni tappa. Lo sport, insomma, è un volano economico: basta pensare che l’indotto delle principali Maratone americane genera 1,4 miliardi di dollari all’anno. Non vogliamo che le nostre città campino di solo turismo, ma spesso quello dello sport è un turismo familiare, consapevole e rispettoso dell’ambiente.
Infine, c’è un ritorno economico per l’intera società sul medio periodo, legato all’impatto positivo che l’attività sportiva ha sulla diminuzione dell’incidenza delle malattie da sedentarietà e da stress. Insomma: spendere per costruire una piscina o un percorso da running e favorirne l’utilizzo porta a un risparmio sulla spesa pubblica sanitaria.
A voler essere puntigliosi, ci sono anche molte ricerche che dimostrano come i lavoratori che praticano qualche attività sportiva sono anche i più efficaci nei propri compiti professionali – basta pensare che i CEO delle maggiori multinazionali sono spesso dei maratoneti amatoriali. Un tornaconto importante per le aziende – e per aumentare la popolazione occupata nel settore dello sport, che oggi è lo 0,5% del totale – potrebbe quindi essere l’introduzione di forme di “buoni sport”, accanto ai “buoni pasto” da inserire nel salario accessorio.
Ultimo aspetto: la pratica sportiva contribuisce a scardinare gli stereotipi di genere e a favorire l’integrazione delle donne immigrate nella cultura di arrivo. Praticare sport è un modo per le donne di affermare la propria indipendenza e libertà. Di dichiararsi autonome dal giogo maschile. Di dedicare tempo a sé stesse oltre che ai propri “doveri” di carers. In molte città dell’Emilia Romagna ci sono associazioni che promuovono corsi per insegnare alle donne ad andare in bicicletta. Molte donne immigrate provengono da paesi in cui – al pari che da noi prima della seconda guerra mondiale – alle donne è proibito o visto di mal occhio l’andare in bicicletta. Eppure la bici, lo dimostrano le storie delle nostre nonne che percorrevano centinaia di chilometri al giorno per andare in fabbrica, è un mezzo indispensabile per l’emancipazione femminile: serve ad entrare in contatto con ambienti diversi, persone provenienti da culture diverse, per confrontarsi, per uscire dal circolo chiuso delle appartenenze etniche.
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