La gentrification, il capitale e lo stato immobiliarista
di JACOBIN ITALIA (Samuel Stein)
Gli imprenditori immobiliari ridisegnano le città. Chiedono che lo stato si faccia da parte ma lo invocano quando si tratta di reclamare sicurezza. Ai movimenti spetta dimostrare che un modello di investimento così intensivo è fragile
Il capitalismo e la pianificazione statale hanno una relazione complicata. L’ideologia capitalista sostiene che lasciar decidere ai mercati le questioni economiche, sociali e ambientali sia la cosa migliore da fare, e che la scelta del consumatore sia la cartina di tornasole più equa ed efficiente della volontà popolare. Per decenni deregulation è stata la parola d’ordine delle classi dirigenti aziendali, e i politici conservatori a tutti i livelli hanno perseguito l’obiettivo di ridurre l’intervento dello stato.
Grover Norquist, dell’organizzazione di destra Americans for Tax Reform, ha dichiarato di voler restringere il governo «fino al punto di poterlo trascinare in bagno e gettarlo nello scarico della vasca». Questo è quello che dice il capitalismo, ma non ciò che fa. I capitalisti e i politici conservatori sono rapidissimi a invocare maggior intervento statale quando si tratta di sfruttare le sue funzioni carcerarie o la sua potenza militare, espressioni del potere statale che negli anni hanno fatto lievitare i budget locali, statali e federali. Le grosse società amano poi i regolamenti complicati che tengono alla larga la competizione delle società più piccole, perché possono assumere eserciti di avvocati per farsi largo nella giungla, mentre i loro competitor restano impantanati nel fango. L’espansione di questo genere di potere statale che aumenta le disuguaglianze e sopprime il dissenso lo considerano un lavoro ben fatto.
A livello di pianificazione urbanistica e politiche di sfruttamento del territorio, la retorica e la realtà sono ugualmente male abbinate. I capitalisti fanno richieste molto specifiche e serie allo stato, senza le quali farebbero fatica ad avere successo sul lungo periodo, o anche semplicemente giorno per giorno. Vogliono che lo stato investa quote fisse di capitale nelle infrastrutture che favoriscono i loro profitti. Vogliono inoltre che il governo assicuri un certo livello di supporto alla popolazione per favorirne la riproduzione sociale, così da avere una forza lavoro in buona salute da poter sfruttare. Senza questi investimenti – pianificati, pagati e coordinati dallo stato – non avrebbero basi su cui lavorare.
Le contraddizioni della pianificazione capitalista
Guardando più da vicino, tuttavia, emergono alcuni punti di frattura. Nel suo classico del 1986, Planning the Capitalist City, Richard Foglesong analizza la relazione tra il capitalismo e la pianificazione urbana così come si è evoluta negli Stati uniti dal periodo coloniale fino agli anni Venti. Foglesong costruisce il libro attorno a due assi principali: uno lo chiama «la contraddizione della proprietà», e l’altro «la contraddizione della democrazia capitalista».
La contraddizione della proprietà sorge poiché i capitalisti chiedono allo stato determinati interventi di pianificazione per rendere possibile la loro modalità di accumulazione, ma negano l’utilità della pianificazione in quanto tale, come fosse una specie di malattia socialista. E soprattutto, a parte alcuni principi fondamentali, i capitalisti urbani non vogliono le stesse cose che vogliono gli urbanisti. Le loro richieste rompono nettamente con la loro linea industriale. Le aziende manifatturiere reagiscono negativamente a quei regolamenti ambientali che limitano la loro capacità di sfruttare il terreno, l’acqua e l’aria senza conseguenze legali. Ma sono largamente favorevoli a interventi pianificati per calmierare i prezzi crescenti della terra e delle abitazioni, vedendo la terra come un costo nel processo di produzione e i prezzi delle case come un motivo per i lavoratori per mobilitarsi collettivamente per richiedere un aumento dello stipendio.
Gli immobiliaristi, d’altro canto, sono favorevoli a regolamenti ambientali che limitano l’inquinamento, poiché vedono lo smog e la sporcizia come fattori che abbassano il valore dei loro immobili. Ma non sarebbero altrettanto felici di vedere lo stato imporre controlli sugli affitti o costruire case popolari di alta qualità, dato che queste misure minacciano il loro modello di business. I pianificatori urbani, dunque, devono giocare su un doppio tavolo: andare incontro alle richieste tra loro in competizione dei due tipi di capitalisti, senza per questo pianificare troppo – cosa che li farebbe impazzire entrambi.
Nel tentativo di venirne a capo, i pianificatori urbani si confrontano con la contraddizione capitalismo-democrazia. I capitalisti veri – quelli che possiedono i mezzi di produzione, non semplicemente quelli che la pensano come loro – sono sempre una minoranza numericamente. In un governo repubblicano e in un’economia capitalista, i pianificatori devono includere la working class nel loro processo o rischiano una crisi di legittimità. Allo stesso tempo, tuttavia, a loro è affidato il compito di placare i capitalisti per i quali è pensato il funzionamento del sistema. Per superare questo dilemma, le città hanno elaborato complicati sistemi di controllo dello sfruttamento di suolo (nel quale il parere pubblico è incoraggiato ma non vincolante) e commissioni pubbliche di pianificazione urbana (che sono generalmente piene di esperti del settore immobiliare ed élite imprenditoriali).
Secondo questo modello, il principale compito dei pianificatori urbani è quello di tenere a bada queste due contraddizioni; nessuna delle due può essere risolta, ma entrambe possono essere gestite. È una scommessa complicata. Da loro ci si aspetta che intervengano in un certo modo sullo sfruttamento di suolo, ma senza poter fare cambiamenti radicali. Questo processo deve essere aperto al pubblico, mentre simultaneamente si deve garantire alle élite dominanti il controllo sul potere decisionale. È un lavoro davvero ingrato.
L’ascesa dello stato immobiliare
Cinque anni fa, stavo spiegando un libro di Foglesong in un seminario di geografia, e uno studente ha alzato la mano per fare una domanda. «Sembrerebbe che una parte importante del modello sia la competizione tra il capitalismo industriale e capitalismo immobiliare», ha giustamente osservato. «Come funziona ora che il capitale industriale e quello immobiliare non sono più concentrati nelle stesse mani?». Si trattava di una buona domanda.
Il mondo è più industrializzato che mai – gli Stati uniti sono certamente una nazione industriale, e l’industria rappresenta una grossa fetta dell’economia nazionale in termini di output annuale. Ma nel corso della seconda metà del ventesimo secolo, la produzione industriale statunitense è stata oggetto di un’intensa riorganizzazione geografica. Prima di tutto, dopo la Seconda Guerra Mondiale gli impianti di partizione e assemblamento si sono spostati dalle vecchie città del nord alle più nuove città del sud, nelle periferie e nelle zone rurali. Negli anni Settanta e fino a tutti gli anni Novanta, la velocità e l’ampiezza della delocalizzazione sono aumentate, molti impianti hanno lasciato definitivamente il paese.
Negli anni Novanta e nel primo decennio del Duemila è comparsa una nuova forma di espansione industriale, che ha visto la crescita dei gruppi della logistica per coordinare il complesso flusso di beni in entrata e in uscita dalle città. Questa nuova forma di attività produttiva tende ad avere luogo nei dintorni delle aree metropolitane (in modo da avvantaggiarsi di prezzi più bassi dei terreni, e per facilitare l’afflusso di beni). E quando è localizzata in città spesso occupa terre di proprietà pubblica.
Nel frattempo, una “cascata di soldi” è piovuta sul settore immobiliare, attualmente valutato a livello globale intorno ai 217 trilioni di dollari – rendendo le proprietà immobiliari la forma di bene proprietario più diffusa a livello mondiale. Negli Stati uniti, gli acquisti di case sono in calo da cinquant’anni, gli affitti medi sono più che raddoppiati negli ultimi vent’anni, mentre i salari sono rimasti stagnanti. In alcune città, i prezzi delle case sono aumentati di oltre il 50 percento negli ultimi cinque anni. Diversi tipi di crisi abitativa coesistono nelle città di tutto il paese.
Con la concentrazione delle proprietà immobiliari e la delocalizzazione delle industrie, la relazione tra il capitale urbano e la pianificazione urbanistica è cambiata in modo significativo. Se le aziende manifatturiere non fanno più la parte dei potenti sostenitori capitalisti che chiedono di abbassare i costi delle terre e delle case in città, gli urbanisti che si scontrano con la «contraddizione della proprietà» restano in balia degli immobiliaristi e dei loro piani di cementificazione, che puntano a far aumentare sempre più i prezzi dei terreni e delle proprietà. Anche quando provano a risolvere problemi urbanistici che hanno poco a che fare direttamente con il mercato immobiliare – l’educazione, i trasporti, i parchi, etc. – gli immobiliaristi fanno pressione per ottenere interventi di pianificazione che favoriscano le loro speculazioni.
I pianificatori che hanno a che fare con «la contraddizione capitalismo-democrazia» sono portati sempre più ad assegnare ruoli di controllo agli immobiliaristi nelle stesse istituzioni di pianificazione. La commissione pianificatrice di New York, per esempio, è quasi interamente composta da persone con esperienza nel settore immobiliare: costruzione, promozione, vendita, leggi o ingegneria. La voce di dissenso più comune tra i commissari è quella di Michaelle de la Uz, una sviluppatrice di case no-profit – un modello differente, certamente, ma ancora parte dell’ecosistema dell’immobiliarismo urbano.
Questo è un vero stato immobiliarista: un governo allineato con le necessità e le domande di uno specifico settore del capitale, e ben sintonizzato per assicurare che le azioni di governo siano calibrate a favore del profitto dei costruttori, proprietari terrieri e speculatori. Come per altri settori statali (il welfare, il sistema detentivo, il comparto militare, eccetera), il settore immobiliare non è totalizzante, ma la sua influenza è particolarmente forte a livello locale, dove vengono prese la maggior parte delle decisioni sulle terre statunitensi.
Qualunque problema sia affrontato dai pianificatori, le soluzioni proposte dagli immobiliaristi prevedono quasi sempre lo sviluppo di quartieri di lusso come fattore chiave – anche quando il problema è la mancanza di abitazioni a prezzi accessibili. I pianificatori del settore immobiliare hanno il compito di aumentare i prezzi di mercato: o perché sono troppo bassi e gli investitori li vogliono più alti, o perché sono già alti e una loro deflazione potrebbe far crollare un bilancio fatto di castelli di carte. Lavorare sul ridurre la speculazione e incentivare l’offerta di case popolari e accessibili a tutti sembra un proposito assurdo per un regime di pianificazione il cui primo assunto è che il guadagno futuro passa attraverso la crescita immobiliare.
In questo sistema, la gentrificazione è una caratteristica, non una falla. È sicuramente una forza economica e sociale, ma è anche un prodotto dello stato – un processo pianificato di reinvestimento canalizzato e dislocamento mirato.
I pianificatori urbani, tuttavia, non sono semplicemente degli strumenti passivi del governo. La maggior parte di loro ha scelto questa professione perché voleva avere un impatto positivo sulle città. Molti hanno un background radicale e vedono la pianificazione come un mezzo per imporre un controllo al caos capitalistico. Ma sotto le restrizioni dello stato immobiliare, produrre spazio per propositi che non siano il profitto è una sfida enorme.
Tuttavia è una cosa possibile, e che i pianificatori non faranno da soli. Se vogliamo che essi si comportino diversamente, dobbiamo esercitare pressione politica per sfidare i loro dirigenti: i politici che decidono i capi delle agenzie, ovviamente, ma anche l’industria immobiliare.
Concentrandosi così intensivamente in un settore specifico, il capitale immobiliare si è esposto a una vulnerabilità unica. I movimenti militanti contro la gentrificazione possono minacciare la capacità degli immobiliaristi di realizzare profitti, trasformando la crisi immobiliare da fenomeno sulle spalle degli inquilini a peso per i proprietari terrieri, i costruttori e gli investitori. Non è un compito facile, ma è necessario se vogliamo combattere, il Real Estate State, lo stato immobiliarista.
*Samuel Stein sta svolgendo un PhD in geografia al CUNY Graduate Center. Ha scritto Capital City: Gentrification and the Real Estate State.
Questo articolo è uscito su Jacobinmag. La traduzione è di Gaia Benzi.
Fonte: https://jacobinitalia.it/%ef%bb%bfla-gentrification-il-capitale-e-lo-stato-immobiliarista/
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