In questa lunga nota, Sapir ripercorre le tappe fondamentali della creazione istituzionale europea più ambiziosa di questi ultimi anni, l’unione monetaria europea, soffermandosi sui numerosi dubbi espressi sin dalle origini da diversi importanti economisti statunitensi, ma anche sulle critiche più recenti diffusesi in Europa e sulle incoerenze stesse della teoria di Mundell, considerato il “padre intellettuale” dell’euro. Da questa lunga disamina appare evidente come la teoria economica sia stata strumentalizzata a scopi politici e come molti economisti si siano prestati a distorcere le loro teorie per dimostrare a tutti i costi la necessità e la superiorità dell’euro, coprendo i politici con
L’euro è la creatura istituzionale più ambiziosa dell’Europa degli anni recenti (1) (2). E la stessa storia della creazione (e della disintegrazione) di molte aree monetarie comuni è stata probabilmente ignorata per giustificare il progetto (3) [2]. Non è sicuro che tutte le implicazioni della creazione di una moneta comune siano state comprese chiaramente quando è stata presa la decisione di lanciare l’Unione monetaria europea (EMU) e l’euro. Le considerazioni politiche hanno preso il sopravvento sulle considerazioni economiche. L’idea dell’unione monetaria è così diventata ostaggio di una fuga in avanti dei cosiddetti “europeisti” [3]. In questo processo la teoria economica è stata strumentalizzata al fine di raggiungere un obiettivo politico.
L’idea di una moneta comune in sé non è priva di meriti. Il presidente Vladimir Putin è noto per aver provato a promuovere questa idea anche per i paesi appartenenti all’ “Eurasian Union” [4]. Ma un progetto del genere necessariamente presuppone una valutazione approfondita della situazione economica di tutti i suoi potenziali membri.
Prima di entrare in un percorso di unione monetaria, sarebbe bene capire cosa ha funzionato e cosa non ha funzionato nella costruzione dell’Unione monetaria europea. Come minimo è stata trascurata la necessità di un’integrazione molto stretta delle politiche di bilancio in ogni paese membro dell’Unione [5]. Che i paesi membri di un’unione monetaria perdano anche la capacità di far fronte a shock esterni è cosa nota. Nel caso dell’EMU ciò è stato drammaticamente dimostrato dalla grande crisi finanziaria del 2007-2009, che ha portato a notevoli turbolenze nell’eurozona. Questo potrebbe dimostrare che un’unione monetaria porta a un debito più elevato, a un’inflazione di lungo periodo più elevata e ad un minore benessere [6].
In realtà, Robert Mundell potrebbe essere considerato il padre “intellettuale” dell’euro. Fu l’ideatore del trilemma sulla incompatibilità tra perfetta mobilità dei capitali, tasso di cambio fisso e un’autonoma politica monetaria. La validità di questo trilemma merita di essere approfondita.
1. Chi crede ancora nell’euro?
Le principali critiche contro l’euro sono state mosse molto presto. Ma alcune sono state ripetute anche durante il summit di Davos del 2018, dove l’ex capo economista del FMI, Kenneth Rogoff, ha definito la costruzione della zona euro un “gigantesco errore economico” [7]. È innegabile che la crisi finanziaria globale iniziata nel 2008 abbia creato notevoli tensioni nell’area dell’euro [8]. Questo shock generalizzato ha innescato diversi problemi in ciascun paese dell’area dell’euro, segnatamente i problemi di Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo e persino Francia sono i più conosciuti.
Vari economisti famosi come Rudiger Dornbush (5) o Gérard Lafay (6) e Jean-Jacques Rosa (7) hanno avanzato dubbi. Dornbush aveva anche indicato il caso dell’Italia come uno dei paesi che avrebbero sofferto maggiormente dall’adesione all’euro, un parere ora condiviso nei lavori del professor Bagnai (29). Si può anche citare Milton Friedman (8), che aveva identificato alcuni dei problemi che l’euro avrebbe causato. D’altro canto, altri economisti hanno sottolineato l’importanza della moneta comune (9) (10), pur condividendo alcuni dubbi sul suo futuro (11), e hanno salutato l’euro come un passo molto significativo verso una maggiore integrazione (12) (1) (13) (14) (15) (16). In generale, sembra che siano gli economisti statunitensi ad aver espresso molto più apertamente i loro dubbi sul successo della moneta unica (17). In una certa misura, ciò si potrebbe spiegare con la fragilità delle istituzioni politiche europee viste dall’ottica della storia americana (18), (19), (20), (21), (22), (23). Indubbiamente anche l’inquietudine dovuta all’ingresso di un nuovo concorrente del dollaro americano potrebbe aver giocato un ruolo.
In Francia, gli avvertimenti sono arrivati ben presto e con forza fin dai primi anni dell’euro. I documenti diffusi all’inizio degli anni 2000 dalla “Caisse des Dépôts et Consignations” (24) e poi dagli studi di Natexis-Banques Populaires (25) dimostrano che anche gli specialisti finanziari avevano fatto il punto sui limiti e sulle incoerenze strutturali della moneta unica applicata. Un ex consigliere economico presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, Serge Federbusch (26), ha dimostrato che la sopravvalutazione della moneta unica presentava costi intollerabilmente alti. Da allora, identici dubbi sono stati espressi in altri paesi, in particolare in Italia (27), (28), (29) e Germania (30). Fra questi spiccano i lavori di Flassbeck e Lapavitsas (31), e i contributi di Kawalec e Pytlarczyk (32). Alcuni di questi lavori si sono concentrati sulla crisi dell’eurozona (33), o sugli squilibri indotti dall’euro e le loro conseguenze sulle politiche economiche dei paesi dell’eurozona (34), (35).
Lord Mervyn King (36), ex governatore della Bank of England (dal 2003 al 2013) ha pubblicato nel 2016 un libro determinante sull’euro, così come Joseph Stiglitz (37). Un po’ prima, nel 2014, Paul Krugman (38), nel suo blog, richiamava l’attenzione sulla catastrofe rappresentata dalla moneta unica. Più recentemente, è stato Alberto Bagnai a definire l’euro come il fallimento degli economisti (39). È interessante notare che queste critiche provengono da autori alcuni dei quali sono fedeli al quadro teorico del New Monetary Consensus (40), mentre altri appartengono a scuole più eterodosse (41). A questi primi lavori fanno eco degli altri (42), (43), (44), alcuni dei quali editati collettivamente da vari autori e altri pubblicati singolarmente (39), (45).
Il punto importante qui è che un autore come King evidenzi in particolare una delle cause della crisi dell’eurozona, l’esistenza di diversi tassi di inflazione nei differenti paesi. Io stesso ho affrontato gli stessi argomenti nel 2012 (46). King ha anche sottolineato la contraddizione tra lo spirito democratico che dovrebbe regnare all’interno dell’Unione europea e la natura tecnocratica del processo decisionale. Quando indica nella sovranità l’elemento che dovrà essere sacrificato nel processo, ha, ovviamente, ragione. Anche questo punto è stato elaborato in uno dei miei ultimi libri (47). Questa è esattamente la stessa diagnosi che si può trovare nel libro di Joseph E. Stiglitz. Stiglitz è anche consapevole del costo politico esorbitante dell’esistenza dell’euro nella sua forma attuale. Egli prevede una crisi, che ritiene sarà sia politica che economica, a meno che i paesi dell’eurozona decidano di procedere verso un federalismo a tutti gli effetti o di dissolvere ordinatamente (e pacificamente) la zona euro (37).
La portata dei dubbi espressi sulla capacità dell’euro di sopravvivere e di funzionare in modo efficace è ben consolidata. La crisi è quindi seria. Tuttavia, l’idea di una moneta comune è ancora viva e si sta espandendo anche al di fuori dell’Unione europea, ad esempio in Russia, dove si inizia a prendere in considerazione la creazione di una moneta comune per l’Unione eurasiatica. È quindi necessario comprendere la natura delle basi teoriche che hanno portato all’attuale impasse e fare il punto.
2. Le basi teoriche dell’Euro
La crisi dell’eurozona è in gran parte dovuta alle condizioni secondo le quali è stata introdotta. Questo è uno dei punti su cui concordano sostenitori e oppositori dell’euro (48). Dopo tutto, bisogna riconoscere che l’idea di una moneta unica non è in sé priva di fondamento. L’euro è basato su una teoria, quella delle zone valutarie ottimali. Ma è stato necessario modificare il quadro teorico di fronte a crescenti problemi ed incongruenze.
Robert Mundell avanzò per la prima volta l’idea di una moneta comune nel 1961 (49), rispondendo a una visione via via avanzata da un numero crescente di economisti, ossia che un’economia basata sulla liberalizzazione del commercio e dei capitali non possa più avere una politica monetaria indipendente in presenza di una perfetta o quasi perfetta mobilità di capitali (50) (51). Una moneta comune ha essenzialmente due vantaggi. Il primo è che elimina i costi di transazione e le incertezze sul tasso di cambio nell’area in cui è applicata. Va notato, tuttavia, che questi costi e incertezze delle transazioni diventano più importanti proprio nel caso di un sistema di tassi di cambio fluttuanti sottoposti alla pressione dei mercati finanziari liberalizzati. In una situazione in cui il tasso fosse fissato per determinati periodi, ed i movimenti di capitali a breve termine controllati, tali costi e incertezze sarebbero già notevolmente ridotti. Un secondo vantaggio è che una moneta unica, evitando la concorrenza mediante strumenti monetari, consente di perseguire una politica monetaria comune. Quest’ultima ha il vantaggio di dare coerenza alla politica economica nel suo ambito di applicazione. I due vantaggi sopra menzionati sono tanto più importanti nel caso di un’area commerciale unica. Ci sarebbe quindi una forte coerenza tra l’integrazione commerciale e l’integrazione monetaria, al punto che la prima finirebbe col determinare la seconda. È quindi necessario presentare nella sua totalità questa teoria, che è stata ampiamente utilizzata – a torto o a ragione – per giustificare l’esistenza dell’euro.
Mundell, in realtà, cercò di criticare l’argomentazione di Friedman secondo cui la flessibilità del cambio avrebbe alleviato l’insufficiente flessibilità dei prezzi interni. Va ricordato, tuttavia, che sotto il sistema di Bretton-Woods, le parità erano rigide, con possibili aggiustamenti decisi a livello discrezionale (52). La posizione che Mundell difese nel 1960 (53) era che questo argomento si fonda paradossalmente sull’esistenza di una “illusione monetaria” tra gli agenti economici, esposta nella Teoria Generale di Keynes del 1936 (54). Mundell ha trasposto questo ragionamento all’economia internazionale per descrivere l’idea implicita nell’argomento sviluppato da Milton Friedman (55). In un altro articolo, risalente allo stesso periodo (56), Mundell ha confrontato gli effetti di stimolo sull’occupazione rispettivamente della politica monetaria, della politica fiscale e della politica commerciale – i dazi – in regimi di cambio fissi e flessibili. Considerando che questo articolo è una sintesi dell’articolo di Mundell del 1963 (57), sembra quasi sorprendente che Mundell concluda che la politica fiscale è flessibile. Questo perché la politica fiscale analizzata da Mundell non è una politica di bilancio “pura”, come mostra il suo articolo su Kyklos (58), ma una sorta di policy mix con alcuni interventi della Banca Centrale.
Va poi notato che nell’articolo in cui Robert Mundell presentava quella che sarebbe diventata la teoria delle zone valutarie ottimali, il suo ragionamento partiva dall’identificazione, come per Friedman, delle tre cause principali delle crisi cicliche di bilancia dei pagamenti: tasso di cambio, rigidità dei prezzi e rigidità dei salari. Tuttavia, il suo obbiettivo era abbandonare la logica conclusione di Friedman, per il quale i tassi di cambio flessibili sarebbero la soluzione. Per controbattere questo ragionamento, Mundell inizia chiedendosi “quale sia l’area appropriata per una zona monetaria” (49). Per rispondere a questa domanda, bisogna innanzitutto elaborare “un concetto di ciò che costituisce un’area monetaria ottimale“, in grado di far luce sugli esperimenti monetari in corso in quel momento, e bisogna ricordare che questo è esattamente il periodo in cui apparvero i primi segni di tensione sui tassi di cambio fissi (all’epoca prevalenti), premessa per uno spostamento verso la flessibilità del cambio, che diventerà la regola dei primi anni ’70. È interessante, persino premonitore, notare che egli parlava già di un’area di valuta unica per i paesi dell’Europa occidentale, che avevano appena concluso l’esperienza della European Payments Union. Nell’articolo si sottolinea come in un’area monetaria unica l’offerta di mezzi di pagamento interregionali è elastica alla domanda, e se ne deduce il fatto che l’aggiustamento tra paesi nel caso di una zona monetaria o di una pluralità di valute o tra regioni (nel caso di un’unione monetaria) dipende dalla moneta utilizzata [9]. Nei primi anni ’90 Barry Eichengreen (59) riprese la questione se l’Europa fosse un’area commerciale ottimale, e quindi un’area valutaria ottimale.
Tuttavia, nel ragionamento di Mundell c’è ovviamente un pregiudizio a favore delle aree in cui prevale una valuta comune. Non può quindi essere accettato come prova inconfutabile di una maggiore efficienza dei sistemi a moneta unica. Inoltre, l’esempio della zona euro mostra che è piuttosto in una zona di una moneta comune che prevalgono politiche economiche restrittive, proprio a causa dell’impossibilità per il tasso di cambio di gestire gli squilibri tra paesi. D’altra parte, i paesi che hanno mantenuto le proprie valute hanno una maggiore facilità nell’attuazione di politiche economiche orientate alla piena occupazione.
La seconda parte dell’articolo (49), intitolata “Valute nazionali e tassi di cambio flessibili“, è la parte più conosciuta dell’articolo di Mundell. Andrebbe notato, tuttavia, che questo ragionamento non tiene conto della possibilità per lo Stato interessato di attuare una politica di compensazione tra due regioni, anche se dovesse essere finanziata in parte dalla sua Banca Centrale o dalla politica fiscale. Questo esempio verrà ripreso molto tempo dopo da Daniel Cohen (60) per dimostrare che la controparte di un sistema di moneta unica è precisamente un sistema di trasferimenti fiscali.
3. Il trilemma di Mundell
La tradizionale presentazione del triangolo di incompatibilità della politica economica stabilisce un trilemma tra la perfetta mobilità del capitale, il fatto di avere un tasso di cambio fisso e una politica monetaria autonoma. La giustificazione che generalmente viene data, come nell’articolo di Robert Mundell del 1963 (57), è che quando il capitale è perfettamente mobile, si crea un mercato mondiale dei capitali nel quale si fissa un tasso d’interesse mondiale. Questo tasso è imposto a tutti i paesi e, se un paese se ne discosta verso l’alto o verso il basso, si troverà a subire flussi di capitali che squilibreranno la bilancia dei pagamenti. Tuttavia, una rilettura dei primi articoli di Robert Mundell rende possibile proporre alternative all’interpretazione ortodossa della sua teoria. Seguendo uno degli articoli di Mundell del 1961 (56), si può sostenere che l’euro è fuori dalla zona di equilibrio.
In particolare, se si abbandona il rigoroso equilibrio della bilancia dei pagamenti, come è avvenuto in molti paesi, a cominciare dagli Stati Uniti, le possibilità di azione della banca centrale sono asimmetriche. La capacità di una banca centrale di difendere la propria valuta contro un attacco speculativo, vale a dire un’ondata di vendite della sua valuta sul mercato dei cambi, dipende in teoria dalle sue riserve valutarie, come dimostrato da numerosi lavori (61), (62). In realtà, a partire dalle crisi valutarie degli anni ’90, la capacità degli speculatori di utilizzare leve finanziarie molto elevate è un ostacolo per le banche centrali che vogliono evitare di accumulare ingenti riserve valutarie. È il caso oggi della Cina o della Russia (63). Ma c’è anche un altro modo. Una Banca Centrale la cui moneta è sotto attacco speculativo può sempre aumentare i suoi tassi di interesse al fine di attrarre capitali, fornendo così ulteriore sostegno al suo tasso di cambio. Tuttavia, nella maggior parte dei casi questo metodo è inefficiente o richiede un aumento del tasso ufficiale tale che l’impatto sull’economia del paese può essere disastroso. In effetti, gli investitori di capitali non saranno propensi ad precipitarsi ad acquistare se prevedono un crollo del tasso di cambio e potrebbero addirittura considerare l’aumento dei tassi di interesse come un segnale premonitore (64), (65).
Due anni dopo, anche R. McKinnon diede il suo contributo a questa costruzione teorica (66). Nel suo articolo, spiega che più un’economia è aperta verso l’esterno più si riduce l’importanza del tasso di cambio. L’interesse ad un aggiustamento tramite il tasso di cambio è basso. Peter Kennen sostenne poi (67) che quando l’economia di un paese è diversificata, questa diversificazione riduce la portata di ciò che gli economisti chiamano “shock esogeni”, consentendo al paese di essere collegato ad altri paesi con un tasso di cambio fisso. Da questo lavoro si potrebbe dedurre che un paese può avere interesse a collegarsi agli altri con una moneta comune, a condizione che capitale e lavoro siano perfettamente flessibili (come mostra Mundell), il commercio internazionale significativo (McKinnon) e che la sua economia sia largamente diversificata ( Kennen). Si è quindi sviluppata l’idea che il commercio internazionale riguardasse essenzialmente la qualità del prodotto.
Altri economisti hanno sostenuto che i paesi avrebbero tratto benefici economici significativi da una moneta unica. Questa avrebbe dovuto generare un fortissimo aumento dei flussi commerciali tra i paesi della zona monetaria così costituita, e dunque un conseguente aumento della produzione, come Andrew K. Rose stava cercando di dimostrare (68), (69). I suoi lavori hanno dato l’avvio a tutta una letteratura estremamente favorevole alle unioni monetarie. Le valute nazionali venivano descritte come “ostacoli” al commercio internazionale (70). L’integrazione monetaria avrebbe portato ad un forte aumento della produzione e del commercio potenziali (71), (72). Se queste teorie fossero state convalidate dalla realtà, l’Unione Monetaria Europea avrebbe creato le condizioni per il successo dell’”Area valutaria ottimale”, in base ad un impulso apparentemente endogeno (73), (74). A ciò si deve aggiungere l’idea che l’unione monetaria e finanziaria avrebbe ridotto i rischi delle turbolenze economiche (75), (76). Qui si parla della cosiddetta condivisione del rischio, che è diventata oggi uno degli argomenti usati dai difensori dell’euro (77). Questi argomenti vengono regolarmente usati per sostenere che l’Euro stia funzionando come una sorta di “protezione”. Tutto ciò converge verso la necessità di adottare una moneta unica. Ma la teoria delle zone valutarie ottimali del 1961 non rappresenta l’ultima parola di Mundell. E ciò introduce possibili dissonanze, che sono state rafforzate da studi empirici.
4. Dissonanze teoriche e fattuali
La difesa quasi incondizionata dei tassi di cambio fissi e dell’unificazione monetaria ha portato a definire Robert Mundell come “il padre intellettuale dell’euro” (78). Ma in effetti, Mundell sembra avere una doppia personalità. Da una parte si dedica allo studio della teoria delle aree monetarie ottimali che sarà la base del modello Mundell-Fleming. Dall’altra è il co-fondatore, con Arthur Laffer, dell’economia dell’offerta (supply-side economics). Ciò non significa che non ci sia incomunicabilità né contaminazioni tra il primo e il secondo Mundell. Si possono quindi identificare diverse fasi intellettuali di Mundell. All’inizio, Mundell potrebbe essere definito un “keynesiano”, ma nel senso della sintesi di Samuelson. Ciò comunque prima che venisse fortemente influenzato dalle tesi vicine ai monetaristi. McKinnon, un autore che ha lavorato su Mundell, ha identificato diverse fasi del pensiero di Mundell (79). McKinnon ha quindi identificato due periodi significativi, chiamandoli Mundell I e Mundell II. Questa identificazione è relativa al modo in cui Mundell giustifica il suo sostegno ai tassi di cambio fissi e alle unioni monetarie. Mentre il primo Mundell cerca di trovare un modo per riaggiustare il tasso di cambio, il secondo Mundell parte dall’idea che le fluttuazioni del tasso di cambio siano per loro natura destabilizzanti, addirittura irrimediabili. È facile dunque intuire perché lo si consideri il padre intellettuale dell’euro.
Ma McKinnon non è stato l’unico a segnalare le differenze nel pensiero di Mundell. L’analisi di Obsfeld sull’evoluzione intellettuale di Mundell ci permette anche di datare il momento in cui Mundell ha smesso di essere keynesiano (almeno nel senso della sintesi di Samuelson) (80). Questo punto di svolta si situa intorno al 1969. Anche il contributo di Robert Lucas è stato decisivo nella rifondazione delle basi della teoria macroeconomica e nella perdita di credibilità delle idee keynesiane. Il momento importante fu la pubblicazione nel 1972 di un modello di risoluzione macroeconometrica del problema della neutralità della moneta in una situazione di equilibrio delle aspettative razionali (81). Ciò risulta dalle particolari opinioni di Mundell sul regime dei tassi di cambio, il target di inflazione e il ruolo della politica fiscale.
Notiamo, quindi, una seconda dissonanza. Il trattato di Lisbona, che mira a suggellare l’istituzione del “mercato unico”, pone al centro la concorrenza, definita “libera e non distorta”, come principio fondatore (82). Stranamente, però, la moneta unica ha proprio la funzione di eliminare la concorrenza tra i mezzi monetari. Stabilisce un monopolio. Quest’ultimo può essere certamente necessario, e la teoria del Free Banking o competizione tra le valute costituire un’involuzione profonda. Tuttavia, anche ammettendo che il monopolio possa essere necessario, è possibile porre onestamente la concorrenza come principio base? Qui tocchiamo una delle contraddizioni del cosiddetto discorso europeista. Non sarà l’unica.
Istituire un monopolio di strumenti e politiche monetarie ha implicazioni specifiche. Poiché diventa unica, la politica monetaria non può più tener conto della diversità delle situazioni sociali ed economiche nella sua area di applicazione. Seguendo il ragionamento iniziale di Mundell, sarebbe effettivamente necessario avere una perfetta mobilità del lavoro all’interno dell’area interessata per far fronte agli shock economici. Questo significa che non ci può essere una moneta unica se non in aree economicamente e socialmente omogenee? La risposta è negativa, perché la moneta non è fortunatamente l’unica istituzione economica né l’unico strumento disponibile. A far da contraltare a una moneta unica deve essere la solidarietà fiscale e di bilancio, il che significa che le risorse possano essere trasferite in regioni che sarebbero indebitamente penalizzate da uno shock asimmetrico. Ciò che rende il monopolio monetario sostenibile in un’economia eterogenea è una politica fiscale attiva. Ciò è particolarmente chiaro nel caso di paesi con strutture federali. La quota di spesa federale deve superare il 50% affinché il sistema funzioni. Se questa zona economica comprende paesi diversi, la perdita dello strumento monetario deve essere compensata dal mantenimento di una forte autonomia fiscale, che consenta al governo di sovvenzionare i settori economici colpiti dalla crisi invece di sostenerli tramite la svalutazione (60). Nel caso dell’euro, vi è quindi una nuova incoerenza. L’introduzione della moneta unica non è stata preceduta da un dibattito sulla possibilità di istituire un bilancio federale, quanto meno in funzione dei paesi interessati. Con la moneta unica, lo strumento della svalutazione è stato sottratto ai paesi, ma senza fornire un sostituto. Da questo punto di vista, come riconosce Alexander Swoboda, si può trovare nel primo Mundell, il sostenitore della moneta unica, forti argomentazioni contro l’euro così come è stato attuato (83).
Alcuni dei sostenitori dell’euro hanno quindi riesumato la tesi dell’inefficienza delle politiche monetarie. La metafora usata da Kydland e Prescott (84) è quella di Ulisse incatenato all’albero della sua nave per ascoltare il canto delle sirene senza soccombere. A queste condizioni, l’euro diventa accettabile (i paesi non perdono nulla abbandonando una politica monetaria che non ha più alcun oggetto) e persino vantaggioso, perché stabilirà le sue regole indipendentemente dalle politiche degli Stati interessati. Ma, come ha dimostrato Gregory Mankyw (85) (86), l’esperienza della Banca centrale americana contraddice decisamente questa visione. Gli errori nella concezione dell’unione economica e monetaria si fondano anche su una dottrina economica francese, l’essenzialismo monetario. Non è un caso che alti funzionari francesi abbiano svolto un ruolo importante nella progettazione dell’euro. Nella sua forma più completa, questa dottrina è ben rappresentata dalle opere di Michel Aglietta e André Orléan (87), (88), (89). La moneta è considerata non solo un’istituzione importante delle economie capitaliste, il che è fondamentalmente corretto, ma quella centrale, cosa molto più discutibile [10]. Da qui il termine “essenzialismo monetario”, coniato per descrivere questa particolare prospettiva. Tuttavia, l’essenzialismo monetario implica una serie di ipotesi altamente discutibili, sia dal punto di vista della teoria del comportamento individuale (e della teoria delle preferenze individuali) sia da un punto di vista antropologico [11].
Robert Mundell, tuttavia, può essere considerato un precursore di questo essenzialismo, in quanto sottolinea la convergenza dei fattori reali ottenuti dall’unificazione monetaria (83). Questa posizione è coerente con quella del summenzionato “secondo Mundell”. Qui si ritrova l’idea che la moneta ha le virtù teleologiche che in seguito le verranno attribuite da Aglietta e Orléan. Infatti, nell’ottica della difesa del principio di una moneta unica, Mundell iniziò a rimettere in discussione gli elementi teorici del “primo Mundell” contenuti nel suo precedente articolo (93). In particolare, a partire dagli anni ’70 asserisce che gli agenti reagiscono solo ai cambiamenti nella loro ricchezza “reale”, non agli importi nominali del loro reddito o ricchezza. Stiamo gradualmente assistendo a una mobilitazione delle tesi monetariste. Tuttavia, queste ultime implicano anche importanti assunti sul tipo di agente umano.
Nella polemica sulla moneta comune, ci siamo progressivamente mossi da un approccio analitico che ha cercato di valutare gli elementi positivi e negativi verso una posizione, ormai puramente propagandistica, di giustificazione dell’euro, anche a costo di incongruenze argomentative palesi e abbandonando ogni metodologia scientifica.
5. La vendetta della realtà
Dal 2004 in poi, è diventato chiaro anche ai più strenui difensori dell’euro che la realtà non si è piegata ai loro desideri. Aglietta (94) ha riconosciuto che, se i mercati del debito sono unificati, le aree che continuano a mantenere, anche lontanamente, un contatto con l’economia reale, come gli scambi, rimangono segnate dalla “forte resistenza delle segmentazioni a livello nazionale“. Il passaggio all’euro non ha portato all’unificazione dei prezzi tra i paesi dell’area, come era stato previsto dagli studi citati all’inizio di questo articolo. C’è quindi chiaramente una resistenza del mondo reale a quella unificazione semplificatrice a cui la moneta avrebbe dovuto portare. Aglietta è costretto a riconoscere che i principali vantaggi attesi con l’introduzione dell’euro non si sono ancora materializzati. Teoricamente l’euro avrebbe dovuto aumentare la crescita e proteggere l’Europa dalle turbolenze economiche esterne. Tuttavia, e per ammissione di uno dei sostenitori dell’euro, non è stato così [12].
A metà degli anni ’90, George Akerlof e i ricercatori della Brookings Institutionavevano mostrato la persistenza della “illusione nominale” tanto criticata negli scritti monetaristi (95), (96). Ciò li portò a dimostrare che un qualche livello di inflazione fosse necessario per lo sviluppo economico. È passato però in secondo piano il fatto che abbiano basato la loro rottura con il monetarismo su un’analisi dei comportamenti individuali molto più realistica di quella dei modelli tradizionali (97). Le tradizionali teorie sulle preferenze basate sul comportamento individuale sono crollate sotto l’influenza dei ricercatori di psicologia sperimentale [13]. Ciò ha provocato un’inversione completa dei risultati che erano stati dati per scontati dagli anni ’60 (98), (99), (100). In effetti, la psicologia sperimentale conferma le tesi keynesiane iniziali (101), sia rispetto alla controrivoluzione monetarista, che rispetto ai tentativi di ridurre Keynes a una semplice variazione della struttura classica dell’equilibrio.
L’importanza delle rigidità risultanti dal settore reale e dalle istituzioni, che riflette l’individualità della traiettoria sociale e storica di ciascun paese, riguadagna quindi la sua importanza (102), (103). Queste opere convergono poi con quelle di Akerlof (97) e dei suoi colleghi nel mostrare, ad esempio, i pericoli di un’inflazione troppo bassa (104). Modelli più recenti, detti modelli di “sticky information“, tentano di rappresentare un mondo economico in cui gli attori si comportano in modo più realistico di quelli dei modelli tradizionali (105), (106). Un contributo essenziale di questi modelli è mostrare che gli shock monetari sono a lungo termine, che le politiche monetarie hanno effetti duraturi e non transitori sul livello di attività. Confermano che il tipo di risposta di un’economia alla politica monetaria dipende dalle sue strutture e istituzioni.
Qui si rivela di particolare rilevanza uno studio sulle dinamiche dell’inflazione nei paesi della zona euro (107). Il lavoro di Christian Conrad e Menelaos Karanasos dimostra due effetti essenziali. Innanzitutto, non esiste una singola dinamica dell’inflazione, e secondariamente l’inflazione non sempre influisce negativamente sulla crescita economica, a differenza di quanto sostengono i monetaristi (108). Esistono dinamiche differenziate e in alcuni casi l’inflazione sembra un elemento necessario per la crescita. La moneta è uno specchio, o anche una lente d’ingrandimento, delle dinamiche del mondo reale. Questo risultato è perfettamente coerente con quello dei modelli “sticky information” (106). L’individualità dei sistemi economici e sociali, a sua volta il prodotto delle storie nazionali in cui questi sistemi sono incorporati, è un fattore essenziale in qualsiasi approccio alla politica monetaria. Queste inversioni nel campo della scienza economica espongono la fragilità delle ipotesi avanzate dal “secondo Mundell”, e la conseguente fragilità dell’euro.
Ma la critica all’euro è anche radicata nella critica degli effetti positivi di un’unione monetaria. L’entità del rischio causato dall’unione di economie estremamente diverse è stata evidente fin dall’inizio (109). Ricordiamo qui il lavoro di A. K. Rose, che spiega come l’UEM dovrebbe essere di grande beneficio per le economie dei paesi interessati. Questo lavoro è ora messo in dubbio (110). Ulteriori ricerche, basate su database più completi e rigorosi, hanno notevolmente ridotto l’entità degli effetti positivi dell’unione monetaria (111), (112). Il lavoro iniziale di Rose et al. è stato fortemente criticato a causa del metodo econometrico utilizzato (113), (114). Una critica ancora più radicale è che questi modelli non hanno tenuto conto della persistenza del commercio internazionale (115). Inoltre, questi modelli non hanno tenuto conto di fattori endogeni per lo sviluppo del commercio, fattori che non sono influenzati dall’esistenza – o non esistenza – di un’unione monetaria. Questo porta a un’altra domanda: l’abbandono della flessibilità dei tassi di cambio (all’interno dell’UEM) è stata una buona scelta? Anche qui gli avvertimenti sono stati numerosi (116), (117), (118).
Tutto ciò ha portato a una profonda messa in discussione dei risultati. Mettendo a frutto la ricerca sul commercio internazionale e sui modelli di “gravità” (119), (120), 121), Harry Kelejian e i suoi colleghi (122) hanno rielaborato le varie stime degli effetti di un’unione monetaria sul commercio internazionale dei paesi membri. I risultati sono devastanti. Si stima che l’impatto dell’Unione economica e monetaria sia un aumento degli scambi dal 4,7% al 6,3%, molto lontano dalle stime più pessimistiche del precedente lavoro, che stimava questi effetti al 20%, per non parlare del lavoro iniziale di Rose che li colloca tra il 200% e il 300%. In 10 anni c’è stata una riduzione da 10 a 1 (dal 200% al 20%), seguita da un’ulteriore riduzione che ha ancora ridimensionato questi effetti del 20%, a una media del 5% (un fattore di 4 a 1) [14 ]. Gli effetti positivi di un’unione monetaria sono stati quindi ampiamente sovrastimati, ovviamente per ragioni politiche.
L’euro, così come è stato concepito e attuato, sembra essere un arcaismo intellettuale e teorico. I costi della moneta comune, che erano noti già prima dell’introduzione dell’euro (123), (124), (125), (126), hanno ampiamente superato i benefici. In qualche misura si può anzi affermare che abbia portato alla profonda recessione che ha colpito alcuni paesi dell’UEM dal 2010 al 2015. Una moneta comune si può quindi concepire solo a condizione che riesca a compensare i suoi effetti su economie eterogenee.
6. Conclusioni
L’Euro è stato assimilato, non senza motivo, al Gold Standard e specificamente al “Golden Bloc” dei primi anni ’30 (127), la cui pericolosità e il cui ruolo nella diffusione della Grande Depressione sono ben noti. L’impossibilità per i paesi dell’Unione economica e monetaria di ricorrere a svalutazioni (o rivalutazioni) delle loro valute è ora un grosso problema. Inoltre, la sottovalutazione del tasso di cambio reale tedesco (REER) a causa dell’euro è ormai confermata dall’External Sector Report pubblicato dall’FMI (128), (129). L’euro è quindi un problema non solo per i paesi dell’eurozona, ma anche per l’intera economia mondiale, ed è così da molti anni (130). Il problema di un possibile smantellamento dell’UEM è sul tavolo. In realtà, l’UEM (e l’euro) potrebbe ben seguire il percorso di un gran numero di altre unioni monetarie del XIX e XX secolo (131), (132), (133). In qualche modo ciò era stato anticipato da un fautore dell’unione monetaria, Andrew K. Rose (134), nonché da un autore che nutriva opinioni più critiche (135). Questo ci rimanda a un problema descritto per primo da J.M. Meade, la necessità di riequilibrare la bilancia dei pagamenti in una zona di libero scambio (136). Si può quindi capire perché i leader dell’Unione eurasiatica, e in particolare Vladimir Putin, siano estremamente cauti in questo campo, nonostante riconoscano vantaggi abbastanza significativi nella creazione di un’unione monetaria. Pertanto, nell’attuale situazione economica, la creazione di un’unione monetaria all’interno dell’Unione eurasiatica, o addirittura l’introduzione di una moneta unica nello spazio eurasiatico è abbastanza improbabile. Sembra che sia necessario un enorme livello di convergenza economica e istituzionale per ottenere buoni risultati.
Il crollo dell’UEM sarà il risultato della sua fragilità e instabilità economica, oppure questo collasso deriverà dal malcontento politico? Questo è ancora da vedere. L’aspetto territoriale di ciascuna valuta deve essere compreso chiaramente (137). Di fatto, questo rientra nel concetto di sostenibilità (138). Creare un’unione monetaria è una cosa, renderla sostenibile è un’altra.
Ma questi eventi stanno anche mettendo in luce la responsabilità della teoria economica, e più specificamente l’uso e l’abuso di questa teoria, strumentalizzata per scopi politici. Questo problema non può più essere mascherato, ed evidenzia una confusione tra l’atteggiamento analitico, normativo e politico di alcuni economisti. Da questo punto di vista, l’euro rappresenta un evidente fallimento per gli economisti, sia perché hanno distorto le loro teorie per dimostrare a tutti i costi la necessità e la superiorità dell’euro, sia perché hanno lasciato che i politici lo facessero, coprendoli e dando loro credibilità.
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(135) Nitsch V., (2004), « Have a break, Have a…National currency : When Do Monetary Union Fall Apart ? », CESifo Working Paper Series.
(136) Meade J.M., (1957), « The Balance of Payments problem of a European Free-Trade Area », in The Economic Journal, n°67, pp. 379-396.
(137) Helleiner, Eric. The Making of National Money: Territorial Currencies in Historical Perspective. Ithaca, NY: Cornell University Press, 2003.
(138) Cohen, Benjamin J. “Beyond EMU: The Problem of Sustainability.” In The Political Economy of European Monetary Unification, second edition, edited by Barry Eichengreen and Jeffry A. Frieden, 179-204.Boulder, CO: Westview Press, 2001.
Note finali
[1] Ex-direttore degli studi presso EHESS-Parigi, Visiting Professor presso MSE-MGU (Mosca), Direttore del CEMI Research Center, EHESS-PSL, membro estero dell’Accademia Russa delle Scienze.
[2] Si veda anche, Cohen, Benjamin. “Monetary Unions”. EH.Net Encyclopedia, a cura di Robert Whaples. 10 febbraio 2008. URL : http://eh.net/encyclopedia/monetary-unions/
[3] Suggeriamo qui di chiamare «europeiste» le persone imbevute di una visione ideologica in cui l’UE è vista come una panacea per tutti i problemi. Questa definizione è simile a ciò che ha scritto l’ex ministro degli affari esteri francese Hubert Védrine (4).
[4] https://en.trend.az/business/economy/2377913.htmland https://sputniknews.com/world/201604141037998412-eeu-currency-putin/
[5] http://www.voxeu.org/index.php?q=node/4305
[6] Aguiar M., Amador M, Fari E. e Gopinath G., “Coordinamento e crisi dei sindacati monetari”, documento di discussione della Federal Reserve Bank di Minneapolis, febbraio 2015, http://scholar.harvard.edu/ file / Farhi / files / monetary_union_feb_2015.pdf
[7] http://www.ibtimes.co.uk/kenneth-rogoff-creating-eurozone-giant-historic-mistake-1433440
[8] Si noti il documento di orientamento dell’istituto di Bruegel, un famoso think tank “pro-Euro”: Müller H., G. Porcaro and G. von Nordheim, Tales from a crisis: diverging narratives of the euro area, The Bruegel Institute, Policy Contribution, Issue n ̊03 | February 2018, http://bruegel.org/wp-content/uploads/2018/02/PC-03_2018-150118.pdf
[9] (49), p. 658.
[10] L’emergere della visione essenzialista del denaro è analizzata in (90) cap. 4. La risposta di André Orléan, dove afferma di avere questa visione essenzialista del denaro, si può trovare in (91).
[11] Per un’analisi critica della visione essenzialista del denaro, si veda (92) pp. 187-193 e 201-203.
[12] (94), p. 240
[13] (92), chap. 1.
[14] Bun e Klaasen, (111), valutano l’effetto positivo dell’UEM al massimo al 3%.
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