Accordo sulla denuclearizzazione? Perché Kim non rinuncerà mai al suo arsenale
di AGI.IT (Alessandra Spalletta)
Tra le due Coree una storica lezione di diplomazia al mondo con la benedizione di Donald Trump. Ma il più importante dei punti dell’intesa è rimasto vago e privo di dettagli. Perché? Interviste a Franco Frattini, Antonio Fiori, Lorenzo Mariani
Un capolavoro di diplomazia. Moon Jae-in e Kim Jong-un si sono abbracciati calorosamente dopo aver firmato una dichiarazione in cui hanno affermato che “non ci sarà più guerra nella penisola coreana”. I leader della Corea del Sud e della Corea del Nord si sono accordati per raggiungere la pace permanente e la “completa denuclearizzazione” con il sostegno della comunità internazionale.
Sono questi gli esiti principali del terzo summit inter-coreano, il primo a tenersi in territorio sud-coreano, al villaggio di confine di Panmunjom. Qui, nel 1953, era stato firmato l’armistizio che ha posto fine alle ostilità della guerra di Corea, al quale non è mai seguito un trattato di pace. Finora.
“I due leader hanno solennemente dichiarato di fronte a 80 milioni di persone della nostra nazione e al mondo intero, che non ci sarà più guerra nella penisola coreana e che una nuova era di pace è cominciata”, si legge sul comunicato congiunto finale del summit.
Prima della cerimonia di chiusura, è arrivato anche il messaggio del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. L’accordo tra le due Coree sarebbe stato “un processo più lungo e più duro” da raggiungere, senza l’aiuto del presidente cinese, Xi Jinping, che definisce “amico” in un tweet.
Il summit è stato il frutto di una “incredibile manovra diplomatica” messa a punto da Moon. “Il presidente sud-coreano ha saputo evitare le divergenze con Washington, tenendo Trump costantemente informato su ogni singolo passo, scongiurando al contempo gli errori commessi dai suoi predecessori, senza indebolire il suo rilevantissimo consenso interno”. Lo ha detto all’Agi Lorenzo Mariani, ricercatore del programma Asia dello Iai.
Simbologie
La dichiarazione congiunta arrivata al termine di un “summit pieno di simbologie” per entrambe le Coree – Moon e Kim hanno piantato assieme un pino, prima di intraprendere colloqui privati, seduti su una panchina, al termine di un pontile dipinto di azzurro – è una sorta di “manuale di ingaggio”, spiega Mariani.
“Nessuno si aspettava una soluzione immediata, soprattutto sulla questione nucleare”, aggiunge il ricercatore. “Le due Coree hanno sottoscritto una roadmap che faciliterà i prossimi sforzi in ambito multilaterale: la posa della prima pietra che avrà bisogno di una implementazione mostruosa”.
Numerosissime le simbologie del summit. Alcune, di forte impatto emotivo, come la stretta di mano e l’abbraccio tra i due leader, in realtà “erano già presenti nello scenario dei due precedenti summit”, dice all’Agi Antonio Fiori, professore associato di storia e istituzioni dell’ Asia all’università di Bologna, autore de Il nido del falco: mondo e potere in Corea del Nord (Le Monnier, 2016).
Per il professore bolognese, ad avere la carica simbolica più forte è stato l’incontro a Panmunjom – e non a Pyongyang come in passato (“sarebbe stato sconveniente per Moon far digerire all’opinione pubblica la decisione di omaggiare Kim, responsabile dell’escalation, a casa sua”). Di grande impatto, dunque, per chi, come Fiori, studia la questione coreana da una vita, “il momento in cui Moon invita Kim al picchetto d’onore, e il leader nord-coreano lo esorta a varcare il 38esimo parallelo, entrando in Corea del Nord, cogliendolo di sorpresa”, dice Fiori.
Il testo
La dichiarazione congiunta riprende diversi punti contenuti nei documenti emersi dai precedenti summit, promettendo di implementarli: quello del 2001 (tra l’allora presidente sud-coreano Kim Dae-jung e la controparte nord-coreana Kim Jong-il) e – soprattutto – quello del 2007 (Roh Moo-hyun e Kim Jong-il).
Fiori ne elenca alcuni: “La riduzione delle tensioni militari; la ripresa del dialogo senza interferenze esterne (già presente nel testo del 1971); la creazione di una zona congiunta sulla Nothern Limit Line (NLL, la linea di demarcazione marittima: una delle questioni cruciali che hanno diviso il Nord e il Sud); la riunificazione delle famiglie; l’enfasi sugli scambi scientifici e tecnologici”. Nulla di nuovo, dunque? “Non ho detto questo”, spiega il professore, “la dichiarazione emersa da questo summit li presenta in maniera inaspettatamente onnicomprensiva”.
Dal punto di vista simbolico, dunque, siamo in presenza di “aperture inattese”. Quali? “Francamente mi aspettavo che il documento si riducesse a un paio di punti, aprendo alla ratifica di un trattato di pace e accennando alla denuclearizzazione”, dice Fiori. “Invece, nella dichiarazione i due leader hanno annunciato per il 15 agosto un nuovo incontro tra le famiglie della due Coree, separate dalla fine della guerra, e fanno riferimento alla ripresa dei dialoghi trilaterali o a quattro”.
Perché è un summit storico
Questa volta i coreani sembra che facciano sul serio; vogliono davvero la pace. Non è la prima volta che i leader dei due Paesi divisi dal 38esimo parallelo sfiorano il disgelo. “Dopo il summit del 2007 – spiega ancora Fiori – il dialogo si arenò soprattutto in seguito alla debacle elettorale di Roh Moo-hyun (presidente progressista, credeva nella riunificazione e voleva dare una possibilità al progressismo morente), che segnò la fine della Sunshine Policy”.
Oggi Moon si trova in una posizione diversa. Per almeno tre motivi. “Primo: è al governo da un anno, e ha dunque un orizzonte temporale più ampio per portare avanti la questione coreana. Secondo: diversamente dai predecessori, non ha concesso aiuti economici sostanziosi alla Corea del Nord senza aver chiarito prima come il regime intenda smantellare l’arsenale nucleare. Terzo: Moon sta cercando di creare un contesto multilaterale, lusingando Trump e tenendosi stretta la Cina”.
Scenari futuri
“Possiamo aspettarci una fase di de-escalation”, dice Mariani. Cioè? “Le due parti hanno sottoscritto la cessazione di tutti gli atti ostili e la cooperazione militare, ciò significa che organizzeranno meeting tra i ministri della Difesa e tavoli per risolvere le controversie in modo pacifico. In uno scenario bellico, è questa la base per instaurare qualsiasi tipo di colloquio”.
Pace e denuclearizzazione
I due leader hanno detto sì alla denuclearizzazione, ma senza fornire dettagli. Un passaggio lasciato volutamente ambiguo nel testo? “Quando si parla di denuclearizzazione, si pone da sempre un problema di interpretazione”, spiega Mariani. Da non dimenticare il fine ultimo di Kim, giacché “è improbabile che la Corea del Nord dismetta il suo arsenale, che ha lottato per ottenere, mettendosi contro la comunità internazionale. Nel sottoscrivere l’obiettivo comune con l’intera penisola, non vuole dire che Kim voglia una denuclearizzazione in toto”.
Non solo. “Kim nel suo generico discorso sulla pace, non ha fatto nessun accenno alla denuclearizzazione”, sottolinea Fiori. “I due leader hanno salvato l’armonia del summit – aggiunge – è probabile che quando si sono seduti a parlare in privato, abbiamo affrontato la questione. Ma dal punto di vista formale, non è uscito niente”.
Non è escluso che Kim abbia in mente di allungare i tempi il più possibile.
Dialoghi di alto livello
Il significativo riferimento al ripristino dei tavoli trilaterali o quattro, con Usa e Cina, inserisce la questione nord-coreana in una prospettiva regionale. “L’armistizio del 1953 – ricorda Mariani – fu siglato tra Usa, Corea del Nord; nella prospettiva di un trattato di pace, diventa essenziale la partecipazione delle due maggiori economie del mondo”.
C’è poi un altro punto. “La ripresa dei negoziati multilaterali soddisfa due aspetti”, sottolinea Fiori. “Primo: Moon gioca questa partita congiuntamente con gli americani, convinto di doverli soddisfare. Secondo: il riferimento alla ripresa dei colloqui di alto livello non poteva mancare nel comunicato, aprendo definitivamente la strada al summit tra Kim e Trump. Terzo: non è possibile immaginare che si siedano al tavolo delle trattative senza la Cina”.
Manca qualcuno all’appello: Russia e Giappone. “Hanno escluso la prima – continua Fiori – perché ha le stesse posizioni della Cina; hanno lasciato fuori la seconda giacché in passato Tokyo ha forzato i “dialoghi a sei” tentando di inserire la questione dei cittadini giapponesi sequestrati dai nord-coreani (che Pyongyang nega di avere), di fatto portando allo stallo i negoziati”.
Riunificazione
Dopo un possibile trattato di pace, resta al momento difficile immaginare una prospettiva di riunificazione. “Siamo fratelli con lo stesso sangue”, ha dichiarato Kim Jong-un, un riferimento simbolico “in coerenza con la retorica nord-coreana, che ha sempre dipinto la Nazione come l’intera penisola”, sottolinea Fiori.
Di riunificazione, dunque, non si parla in modo specifico, ma in modo simbolico, richiamando la relazione di sangue e la volontà comune di tendere alla prosperità congiunta.
Il tutto è contenuto in un richiamo iniziale che fa appello alla “pace, alla prosperità e alla riunificazione”, ma senza specificare né le modalità né i tempi nei quali il processo debba avvenire. “E’ giusto che si proceda per gradi”, spiega Mariani. “La riunificazione potrebbe anche rivelarsi un punto di disaccordo. Moon ha lasciato intendere che bisogna aumentare la frequenza degli incontri tra Sud e Nord, su vari livelli: umanitario, civile, economico; partendo, ad esempio, dalla riapertura del distretto industriale di Kaesong. Moon ha inoltre accettato l’invito di Kim a recarsi a Pyongyang. Ora occorre vedere cosa accadrà dopo il summit tra Kim e Trump”.
“Non ci sono le basi per pensare a una riunificazione oggi”, ha spiegato Fiori. “All’interno della Sunshine Policy, era stato incorporato un piano strutturato di riunificazione, che prevedeva un lento percorso federativo. L’eventuale riunificazione va preparata lentamente; parliamo di due Paesi completamente diversi (una dittatura e una democrazia), che hanno bisogno di creare le condizioni sociali, economiche e politiche, per riunirsi. Senza dimenticare che uno dei due Paesi dovrebbe rinunciare alla propria ideologia: una riunificazione a guida nord-coreana sarebbe altamente improbabile, e questo Kim lo sa bene”.
“Diplomazia all’inverso”
L’accelerazione del processo è il frutto di quella che è stata definita “backward policy”, cioè diplomazia all’inverso, “laddove prima si convoca il summit tra i leader, e dopo si lavora a costruirne le fondamenta”, ha fatto eco Mariani. “Una modalità dettata dall’urgenza dell’occasione: si è giunti a questa apertura dopo l’annus horribilis del 2017, scandito da una escalation missilistica e minacce di attacchi preventivi. Appena si è aperto uno spiraglio (con la svolta delle Olimpiadi), Moon ha messo il piede in mezzo alla porta e ha cercato di forzarla, senza concedere nulla a Kim”,
Forse le pressioni di Trump sono servite a svelare quanto Kim, dato fino all’altro giorno per pazzo, sia un fine diplomatico: “Con il discorso di capodanno – aggiunge Mariani – Kim ha servito sul piatto d’argento una proposta di apertura che Moon e Trump non potevano rifiutare: il primo aveva bisogno di pace nella penisola alla vigilia dei giochi olimpici; il secondo aveva bisogno di una vittoria cui appoggiarsi”.
Dalla partita nord-coreana, tutti hanno guadagnato.
Xi Jinping
A partire dalla Cina, che ha avuto un ruolo cruciale nel disgelo coreano. “Il summit segreto tra Xi e Kim del marzo scorso ha innescato una dinamica positiva”, ha detto all’Agi Franco Frattini, già ministro degli Esteri e presidente della Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale. “Il summit di Pechino – ha spiegato Frattini – ha attenuato le difficoltà del dialogo della Corea del Nord con la Corea del Sud, e ha fatto riflettere gli Stati Uniti che la via dell’escalation militare non serviva a niente, ne è la prova l’attesa del summit storico tra Trump e Kim”. Xi, ha sottolineato il presidente del Sioi, “ha fatto capire a Kim che non avrebbe avuto sponde in ambito asiatico. Credo che questo modo saggio di non porre ultimatum pubblici abbia pagato. Sono convinto si debba riconoscere a Xi Jinping il grosso delle ragioni che hanno indotto Kim a ripristinare il dialogo con la comunitaà internazionale”.
Pechino ha riaffermato la sua centralità sulla questione nord-coreana. “Il summit segreto tra Xi e Kim a Pechino si presta a due chiavi di lettura, vere entrambi”, aggiunge Mariani. “La prima: era un passaggio obbligato, Kim non avrebbe potuto far passare alla storia che la sua prima visita ufficiale fosse avvenuta con l’omologo sud-coreano senza fare visita prima al tradizionale e storico alleato cinese. La seconda: Kim si è recato a Pechino in una posizione di relativa forza; ha portato avanti il programma nucleare nonostante le pressioni, e lo sviluppo economico malgrado il regime sanzionatorio, i cui effetti si faranno sentire entro la fine dell’anno. Altro motivo, questo, per il quale Kim ha riaperto il dialogo con la comunità internazionale: era l’ultima chiamata per evitare di far sentire alla popolazione gli effetti della chiusura economica”.
Una cosa è certa: “La Cina è riuscita, per ora, a evitare lo scenario peggiore, cioè un conflitto alle porte di casa, continuando a farsi promotrice della doppia sospensione”, spiega Mariani.
Donald Trump
Abbiamo un grosso problema con l’amministrazione Trump. “Nell’ultimo periodo – ragiona Mariani – il presidente americano ha cambiato due posizioni chiave, nominando John Bolton a capo della sicurezza nazionale della Casa Bianca, e Mike Pompeo a nuovo segretario di Stato”. Entrambi noti per i toni duri nei confronti del regime nord-coreano. “Bolton – continua Mariani – ha sempre indicato come unica strada percorribile, il cambio di regime con la cooperazione di Pechino e l’attacco preventivo. Non solo: si è detto favorevole al summit tra Trump e Kim, ma con l’obiettivo di smascherare il vero piano di Kim, che, dal suo punto di vista, porterebbe avanti la strategia del rischio controllato, cioè alternando picchi di tensioni ad aperture diplomatiche, finendo con l’estorcere aiuti alla comunità internazionale”. La sfiducia di Bolton nei confronti di Kim “potrebbe inficiare le reali intenzioni americane rispetto al possibile summit con Trump, e rovinare il programma diplomatico di Moon”.
Il presidente sud-coreano, come abbiamo detto, ha riconosciuto a Trump un ruolo importante nel portare la Corea del Nord al tavolo negoziale: “Che sia vero o no, lo ha lusingato per tenerlo buono”, elabora Mariani. “Moon avrebbe potuto accreditarsi tutto il merito di questa apertura. Ma gli Stati Uniti sono la chiave di volta della questione nord-coreana: se Washington si sfilasse oggi, si rischierebbe di tornare alla situazione di un anno fa”,
Certo Trump resta un’incognita: è imprevedibile, non sappiamo cosa gli consiglieranno i consiglieri, e non ha ambasciatori in Corea del Nord.
Il summit Kim-Trump ci sarà. “Se salta, sarà per volontà del presidente americano, non certo di Kim”, dice Fiori. “Se Trump terrà fede a ciò che ha detto, il summit non sarà conviviale e plateale come quello inter-coreano, dove ha giocato un forte elemento emotivo, come la questione identitaria, che con gli americani chiaramente manca. Sarò un summit segnato da un clima più teso: i nord-coreani potrebbero ritrovarsi davanti a richieste specifiche, come lo smantellamento completo e irreversibile dell’arsenale nucleare”. Che non è detto che Kim sia disposto a concedere.
“Trump è mosso anche da un calcolo personale”, spiega Mariani. “Potrebbe rivendicare il disgelo coreano come una vittoria personale da sbandierare all’infinito, un successo mai ottenuto da chi lo ha preceduto. E la tentazione da parte sud-coreana potrebbe essere anche quella di dargli un contentino.
Nella strategia americana resta centrale proteggere gli interessi regionali, e mantenere l’avamposto militare. “Le esercitazioni militari congiunte con Seul avranno senso fintanto che resta la potenzialità dell’esercito nord-coreano”, spiega Mariani. “Ora che le due Coree sono impegnate a porre fine alle provocazioni, e sono impegnate a smantellare gli eserciti convenzionali sulla penisola, è difficile pensare che Seul stracci l’alleanza con Washington. Resta da capire come verrà coinvolta la Cina”. Che, per il momento, “resta calma”.
Moon Jae-in
Moon ha due obiettivi. “Sul fronte esterno, vuole portare avanti lo sforzo diplomatico giocato fino ad oggi in maniera perfetta”, dice Fiori. “Sul fronte interno, punta a ottenere la modifica costituzionale, estendendo a due mandati il limite presidenziale, per evitare che le alternanze tra governi progressisti e conservatori inibiscano politiche di lungo periodo (dopo dieci anni di sunshine policy, si è arrivati alla chiusura di qualsiasi ponte con Pyongyang). Forse ci riuscirà, a giudicare dal consenso di cui gode e dall’abilità di coinvolgere leader dei partiti opposti”.
Per Fiori, invece, la strategia di Moon è “ripristinare un processo di avvicinamento con la Corea del Nord, puntando al depotenziamento del regime di Pyongyang come potenza nucleare, attraverso un processo di socializzazione internazionale”.
Kim Jong-un
L’obiettivo di Kim? Sempre lo stesso: la sopravvivenza del regime. “Kim, diversamente dal padre, ha ereditato il Paese molto giovane, e ha una strategia di lungo periodo”, spiega Mariani. “Può portare a casa due vittorie: il nucleare, laddove ha ottenuto il riconoscimento di status di potenza nucleare; irrobustire l’economia, con l’uscita dalle sanzioni (anche se sappiamo che Kim ha sviluppato canali privati), assicurando maggiore tenuta al regime”.
“Kim segue le sue linee strategiche, non bene intellegibili”, chiosa Fiori. “Se arriva a una strategia di condivisione di interessi con la comunità internazionale e esce dalle misure sanzionatorie, può rimettersi al lavoro sulle riforme economiche. Al contempo, cerca di abbassare l’attenzione negativa che altri stati gli riservano, aprendo una plausibile via negoziale, che non si traduca però nella totale denuclearizzazione del Paese: qui sta l’ambiguità di fondo. Non penso che Kim voglia abbandonare lo status raggiunto”.
Commenti recenti