Scuola, abbandoni e disuguaglianze
di DOPPIO ZERO (Girolamo De Michele)
Una recente inchiesta pubblicata su Repubblica, autrice Ilaria Venturi, descrive un quadro preoccupante della scuola post-covid, a partire dalla crescita degli abbandoni scolastici. Alternando dati generali a verifiche empiriche sul territorio, l’inchiesta ci informa che nello scorso anno scolastico si sono registrate quasi 74.000 non ammissioni (delle quali 67.000 nelle superiori) dovute a una insufficiente frequenza: in altri termini, bocciature per abbandono scolastico. Ansia, autopercezione di inadeguatezza, incapacità di prefigurare un futuro connesso alla prosecuzione del percorso scolastico emergono come cause di questo gettare la spugna che rischia di diventare endemico: e forse lo è già diventato.
In quelle cifre si incrociano infatti due diversi fenomeni: l’insicurezza – Benasayag direbbe, a giusta ragione, le passioni tristi – prodotta dalla sindemia, dai mesi in lockdown, soli dentro la stanza e tutto il mondo fuori: un fuori virtuale, cioè quell’al di là dello schermo dal quale filtrava una didattica dimidiata, alla quale veniva cambiato il nome (a distanza, digitale integrata, blended) con una frequenza che denotava, da parte della stessa direzione del Ministero dell’istruzione, l’inadeguatezza delle parole e della cosa. E una tendenza che ormai si può chiamare di lungo corso alla dispersione scolastica, della quale avevo avuto modo di parlare in un lontano 2018 in un intervento al Parlamento Europeo, sottolineando come “il tempo-scuola non è in grado di colmare le disuguaglianze di partenza: quando va bene, si limita a certificarle, altrimenti contribuisce ad acuirle”, dal momento che “Le disuguaglianze non riguardano solo le classi sociali, ma l’intero spettro delle differenze: centro-periferia, città-campagna, settentrione-meridione, indigeno-migrante”.
Una facile retorica potrebbe sciogliere questo nodo parlando della pandemia che si è abbattuta come un ciclone su una scuola in crisi – e di certo qualcuno lo avrà anche detto, o pensato. Con ingenua onestà, un Dirigente Scolastico intervistato dichiara: “gli psicologi ci avevano avvertito: il peggio dopo due anni di pandemia deve ancora arrivare”. E forse quel Dirigente ci crede anche: il parere di psicologi e psicanalisti, nella crisi che si continua a chiamare pandemica, è diventato un alibi tranquillizzante buono per tutte le stagioni. Beninteso, un supporto non occasionale o estemporaneo, né emergenziale, ma professionale a studentesse e studenti – ma anche a docenti e personale non docente – è uno dei bisogni della scuola, e non da oggi. Quello che non torna, nella posizione del Dirigente, è la postura da spettatore di un naufragio atteso, più o meno come lo spettatore lucreziano che assiste dalla riva alla catastrofe (che in quel caso, ricordiamolo, alludeva alle guerre civili). Come se la scuola fosse una sorta di comfort zone rispetto alla società devastata dalle conseguenze sociali della pandemia: ovvero, dalla sindemia, come correttamente bisognerebbe chiamarla. È fuorviante, insomma, la percezione che la scuola sia un ambiente distinto, nel quale “si entra” e, dopo un periodo di soggiorno, “si esce” per entrare “nel mondo reale” (che è “là fuori”): al contrario, la scuola è irretita nel complesso di tensioni che costituiscono il reale così come lo conosciamo. Con le parole di Raoul Vaneigem: “La scuola è al centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili rovinano nella tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell’insegnante e dell’insegnato imprime il suo movimento al bilanciere della rassegnazione e della rivolta, della frustrazione e della rabbia” (Avviso agli studenti).
Parimenti, è fuorviante considerare il virus (come effetto di cause nelle quali è irretito il processo di antropizzazione del mondo) e le sue conseguenze sociali per ambiti distinti; il virus ha agito come una coperta gettata sull’uomo invisibile, cioè sul complesso di forze e rapporti che costituiscono la società globalizzata, rendendo visibili gli effetti degli invisibili processi del Capitale globale. Insomma, il virus è stato, ed è, un cannocchiale attraverso cui leggere non solo gli effetti (comunque classisti) della pandemia, ma i segni del Capitale che si sono manifestati come pandemia perché a essa preesistenti: fra cui quelle passioni tristi che, per il loro venire alla luce all’interno di quella porzione del mondo della vita che è la scuola, sono fraintesi come problemi, o segni di una crisi, della (sola) scuola.
Ma non si tratta di una mera svista, o di un errore di percezione privo di conseguenze: la rappresentazione della scuola come un corpo distinto dal “mondo reale”, come una sorta di nido pascoliano 2.0, ha a che fare con una rappresentazione della scuola finalizzata a produrre effetti, cioè a contribuire a perpetrare quei rapporti di forza e di classe che costituiscono il presente, piuttosto che a sottoporlo a critica e a sovvertirne, se non l’intera morfologia, quantomeno le ingiustizie più evidenti. Si pensi al reiterato mantra che recita: “la scuola non prepara all’impatto con il mondo”, cui seguono proclami, o manifestazioni di intenti, sulla scuola che dovrebbe indirizzare verso il mondo del lavoro attraverso la triade miracolosa STEM – ITS – Soft Skills. Davanti a chi si presenta parlando del “mondo vero” che è “là fuori” non si sa mai qual è l’atteggiamento migliore: se rispondere, alla maniera di Massimo Troisi in Non ci resta che piangere, “Mo’ me lo segno, proprio”; oppure, seguendo la lezione di Adone Brandalise [qui], ricordarsi che queste affermazioni sono falsate dal sottinteso “noi che lo affermiamo sappiamo cos’è il mondo, sappiamo cos’è il reale, sappiamo che cos’è ciò a cui dovreste adattarvi” – perché il reale è quello che abbiamo definito. Cui consegue un secondo sottinteso disciplinare e disciplinante: obbedire a qualsiasi cosa gli scenari che passeranno vi chiederanno di attuare; concretizzando un’educazione che sospende l’esercizio creativo di comprensione in relazione alla realtà in cui si vive.
Così la scuola, invece di fornire gli strumenti per comprendere il concatenarsi di crisi climatica, pandemica, migratoria, economica, interiorizza il clima sociale nella quale è immersa, e lo inocula a studentesse e studenti, aggiungendo ansia, timor panico e tristezza alle medesime passioni tristi che si accampano nella società. Sia chiaro: è inevitabile che nella scuola si respiri il clima nel quale la scuola stessa è immersa. Non lo è l’incapacità della scuola di fornire gli strumenti cognitivi per accettare l’impensabile e l’ignoto, prima ancora di comprenderli e, eventualmente, contrastarli. Sarà il caso di ricordare che la prima affermazione dell’autonomia della scienza, “rendere visibile l’invisibile”, fu pensata dall’illuminista greco Anassagora come risposta al perché della sofferenza e del dolore, una volta tramontata la possibilità di rifugiarsi nella religione?
Prendiamo, come esempio, la pretesa vocazione che si vuole imporre alla scuola come processo di formazione verso il cosiddetto mondo del lavoro. Basta leggere, non dico Marta Fana o Andrea Fumagalli ma i rapporti del Censis e dell’Unioncamere, per sapere che non solo non è vero che discipline STEM, Soft Skill e professionalizzazione dell’educazione favoriscono un più rapido accesso all’occupazione, ma addirittura lo ostacolano, innescando quel circolo perverso fra dissipazione delle competenze, disillusione e sfiducia che, intrecciandosi a doppia elica col circolo perverso della crisi economica, finisce per nutrire ogni possibile complottismo e irrazionalismo. Ragazze e ragazzi potranno non sapere nulla di rapporti economici, report statistici, decrescita degli investimenti sociali, finanziarizzazione – e quasi sempre nulla sanno: però percepiscono il doppio vincolo costituito dalla paradossale compresenza di aspettativa lavorativa come senso da dare a una vita senza senso, e attesa di delusione di questa aspettativa, la cui spia è il termine “occupabilità”, nel quale la condizione necessaria (una necessità cui dovrebbe provvedere la scuola) ma non sufficiente (come esperito nella quotidiana precarizzazione) che, spiegava Gregory Bateson nei lontani anni Sessanta, si esprime sotto forma di scismogenesi, cioè di relazioni sociali che danno origine a circoli viziosi e processi distruttivi. Così la scuola diventa uno dei fattori di crescita di quella patologia di cui dovrebbe essere la cura: ma per far questo dismette il proprio ruolo educativo, ossia abbassa il livello della didattica a quello della trasmissione dei contenuti attesa da un mondo aziendale costituito in prevalenza da produzioni a minore valore aggiunto e a basso grado di innovazione (il che spiega l’alto numero di sovra-qualificati: le competenze acquisite sono sì elevate, ma a causa del ritardo strutturale del sistema produttivo del Paese). Insomma, abbassa l’asticella della didattica per venire incontro ai desiderata dell’impresa, che vuole lavoratori sotto-qualificati per non dover innovare, e pretende che la spesa della formazione sia a carico del sistema scolastico e non di quello aziendale.
Tutto questo sarebbe stato, in altri tempi, materiale per una robusta critica dell’economia politica – e per qualcuno lo è tutt’ora. Ma è anche materiale per lo squadernamento di una crisi generalizzata dei processi psichici, la cui dimensione più eloquente è quella che Freud a suo tempo definì come das Unheimliche, il perturbante o il sinistro: il timore non di ciò che è a distanza, ma di ciò che ci è prossimo, nel quale percepiamo inconsciamente l’irruzione dell’inatteso, dell’impensato, dell’inaudito. Come nell’Overlook Hotel di Shining, film ispirato proprio da quel concetto freudiano, l’irruzione di Jack Torrence con l’ascia in pugno nelle fragili difese della famiglia, divenuta non luogo della protezione e sicurezza, ma campo di battaglia per la sopravvivenza.
Tutto questo era fino a ieri invisibile, o sottotraccia per la più parte; gli scricchiolii delle fondamenta della psiche sociale non sembravano essere avvertiti, il clima ansiogeno e angoscioso era eluso dalle mille effimere convenzioni sociali che la società digitale ha moltiplicato. Il virus lo ha reso visibile: ora sappiamo che oltre, o all’interno delle, rassicuranti rappresentazioni del “mondo reale”, fra i suoi spazi (come le entità di Lovecraft) esistono forze, dinamiche, tensioni sinistre e perturbanti. Che non ci sono comfort zone, perché in realtà non ce ne erano mai state.
Tutto ciò chiama in causa la scuola: per essere chiari, la sua ragion d’essere.
C’è un tale, nemico storico della scuola e del pensiero critico, che sostiene debba la scuola non dare felicità, ma essere una dura palestra per prepararsi ad affrontare la vita, nella quale, assicura, la competizione non mancherà. Parole come queste danno voce a un diffuso sentire, ed è bene che siano espresse con chiarezza, per tracciare un chiaro confine fra due campi avversi e nemici.
Una scuola che non sa porsi il problema della felicità dei propri frequentanti, dei viventi all’interno del proprio ambiente (docenti, discenti e lavoratori) è una scuola che non educa alla ricerca di un senso nella vita, dunque contribuisce all’insensatezza di un tempo presente dominato da una crescente barbarie. Ma una scuola che rinuncia al senso della vita e alle felicità è una scuola nella quale la vita si annoia: e, come ammonisce Raoul Vaneigem, una scuola in cui la vita si annoia educa solo alla barbarie.
Commenti recenti