Come stanno i vertebrati italiani: la fotografia nella nuova Lista Rossa
da SCIENZA IN RETE (Anna Romano)
La nuova Lista Rossa dei vertebrati italiani è stata pubblicata a dicembre 2022: un aggiornamento sullo status di conservazione delle specie nel nostro paese che fotografa qualche miglioramento per alcune specie, ma molti peggioramenti per altre, che risultano un passo più vicine all’estinzione. Una situazione nella quale, insomma, c’è ancora molto da fare per evitare di perdere la nostra biodiversità.
Crediti immagine: rielaborazione con cheppia: © Hans Hillewaert/ Wikimedia Commons / CC BY-SA 4.0; Natrice dal collare: Andreas Eichler/Wikimedia Commons / CC BY-SA 4.0; Orecchione sardo: Mauro Mucedda/Wikimedia Commons / CC BY 3.0; Beccafico: Biillyboy/Wikimedia Commons / CC BY 2.0
Qualche passo in avanti, diversi passi indietro: nella danza che avvicina o allontana le specie dall’estinzione, la fotografia della situazione del nostro paese presentata dalla nuova Lista Rossa dei vertebrati italiani, recentemente pubblicata, mostra una realtà nella quale, sì, alcune specie sono un po’ più al sicuro rispetto a dieci anni fa, ma che richiede ancora molti sforzi per la conservazione.
Le Liste Rosse dell’International Union for Conservation of Nature (IUCN) rappresentano il principale strumento di riferimento per lo status di conservazione delle diverse specie, per le quali stabiliscono se e quanto siano prossime all’estinzione (dal least concern, per quelle che non mostrano problemi di conservazione, all’estinta) o, in alcuni casi, evidenziano la mancanza di dati necessari a stabilirlo. E, poiché una popolazione può essere stabile e abbondante in un certo territorio ma in declino e minacciata altrove (e viceversa), oltre alla Lista Rossa globale sono regolarmente aggiornate anche le liste nazionali: quella apparsa a dicembre per l’Italia rappresenta un aggiornamento della versione precedente, risalente al 2013. A fronte di una COP15, da poco conclusa, che si pone obiettivi ambiziosi per la tutela della biodiversità, i risultati che emergono da questo aggiornamento non fanno che sottolineare quanto ancora ci sia da fare per evitare di perdere specie, molte delle quali endemiche del territorio italiano.
Nuovi arrivi nella Lista Rossa
Rispetto alla Lista Rossa del 2013, quella del 2022 presenta alcuni elementi di novità, a partire dall’essere riuscita a includere anche specie, una trentina in tutto, che non erano state valutate nel 2013. Per alcune, la precedente assenza di dati è stata ora colmata consentendo di stabilire un livello di pericolo: è il caso, per esempio, di alcune specie di pesci cartilaginei, come squali e razze – nuovi arrivati che però, purtroppo, risultano in una categoria di rischio più o meno grave. Come il gattopardo e il sagri, entrambi prossimi alla minaccia (near threatened), o come lo squalo volpe occhiogrosso (Alopias superciliosus), classificato come vulnerabile a livello globale ma a rischio critico in Italia.
«Vale la pena notare che, per alcune delle specie che siamo riusciti ad aggiungere alla Lista Rossa del 2022, la classificazione risente di un’origine un po’ “ballerina”. È il caso del cigno, che nel 2013 era considerato una specie introdotta e per la quale non si eseguono le valutazioni, mentre adesso la presenza in Italia è considerata una naturale espansione della sua distribuzione (per cui la valutazione è prevista)», precisa Carlo Rondinini, professore all’Università di Roma La Sapienza e tra i compilatori della Lista Rossa.
Le specie a rischio
I livelli “più gravi” della Lista Rossa sono “minacciato” (endangered) e “a rischio critico” (critically endangered), due categorie nelle quali ricadono rispettivamente 65 e 40 specie, comprendenti vertebrati sia terrestri che acquatici. Sono minacciate, per esempio, le due specie di tartarughe palustri presenti in Italia (l’europea e la siciliana), che risentono tra le altre cose della competizione con la tartaruga palustre americana, una specie invasiva introdotta nel nostro paese a partire dagli anni ’70 come animale da compagnia (e che, dal 2019, non può essere introdotta, né venduta o fatta riprodurre in Italia). Per molte specie, l’ingresso nella categoria delle minacciate segna un peggioramento rispetto alla valutazione precedente: è il caso della cheppia, un pesce osseo, della salamandra di Aurora, della natrice o biscia del collare, vulnerabili nel 2013 e oggi un passo più vicine all’estinzione. Ed è forse più impressionante che alcune, come gli uccelli fagiano del monte e il beccafico, siano passati dall’essere specie a rischio minimo a minacciate.
Anche per le specie oggi a rischio critico la nuova valutazione rappresenta un peggioramento rispetto alla precedente, come nel caso dell’orecchione sardo (un chirottero) e del mignattino comune, un uccello che, appunto, tanto comune non è più.
«Al netto di tutti i backcasting che andrebbero rifatti in maniera più formale, ritengo si confermino le tendenze osservate nel 2013», commenta Rondinini. «E sicuramente i problemi più gravi riguardano gli abitanti delle acque dolci, che rappresentano in assoluto l’ambiente più critico. Varie sono le ragioni, prima delle quali il continuo e attuale spostamento di specie da un bacino idrico all’altro, fatto in maniera formale o informale dai pescatori, per il quale non si riesce a invertire la tendenza. Infatti, nella maggior parte dei fiumi e dei laghi italiani le specie presenti sono alloctone (aliene o provenienti da aree italiane diverse). L’altro grosso problema è il regime idrico, che è stato completamente devastato dalle dighe e dalle captazioni dell’acqua, cambiamenti davvero pesantissimi per gli ecosistemi d’acqua dolce. Questo vale soprattutto per i laghi, nei quali la vita si concentra nei primi metri d’acqua e intorno alle rive: basta quindi un piccolo abbassamento dei livelli d’acqua, com’è avvenuto nel lago Trasimeno o in quello di Bracciano, e la componente biotica subisce dei cambiamenti enormi».
Qualche miglioramento
Non manca, per fortuna, anche qualche specie il cui status di conservazione risulta migliorato. C’è qualche uccello, per esempio il mignattaio e il moriglione, passati da minacciati a vulnerabili, ma soprattutto ci sono carnivori come la lontra (anch’essa passata da minacciata a vulnerabile), il gatto selvatico (che da prossimo alla minaccia è oggi least concern) e il lupo (che da vulnerabile è passato a prossimo alla minaccia).
«Per il lupo vi sono stati significativi sforzi di conservazione, ma non si può dire altrettanto per esempio del gatto selvatico: questi dati riflettono soprattutto il trend di abbandono delle zone rurali, soprattutto quelle montane, e di conseguente riforestazione», spiega il ricercatore. «Questi carnivori hanno una biologia molto flessibile e ci mostrano quindi come, rilasciando la pressione antropica ed eliminando le persecuzioni, riescono abbastanza facilmente a ripopolare il territorio».
Due parole di metodologia
«Guardando ai dati che emergono dall’aggiornamento della Lista Rossa italiana, è importante tenere in considerazione che non possiamo considerarli veri e propri trend delle popolazioni. La ragione è piuttosto semplice: in alcuni casi, infatti, ora riusciamo a stimare meglio la dimensione della popolazione e il suo andamento nel tempo, e alla luce di queste informazioni dovremmo rivalutare anche le stime passate – quello che si chiama fare un backcasting delle specie», spiega Rondinini. «La nostra è, quindi, una rivalutazione della valutazione precedente, condotta alla luce delle conoscenze attuali».
Un lavoro che ha coinvolto un vasto numero di esperte ed esperti italiani che hanno lavorato sui diversi gruppi di vertebrati, dai pesci ai mammiferi, per tutto l’areale italiano e, nel caso delle specie marine, a causa dell’estrema mobilità di alcune di esse, su un’area un po’ più vasta rispetto alle acque nazionali.
Le informazioni raccolte dai diversi gruppi forniscono una base qualitativa (perché mancano reti di monitoraggio specifiche che consentano una precisa valutazione quantitativa) per arrivare a una stima ragionevole dell’andamento generale della popolazione nel tempo, così da poter applicare i cinque criteri di valutazione della IUCN: il criterio A, che si basa sulla velocità di declino di popolazione; il criterio B, basato sull’areale geografico della specie, che dev’essere limitato e in contrazione del tempo affinché l’animale possa essere considerato a rischio; il criterio C, simile nel principio al B ma applicato a popolazioni molto piccole; il criterio D, per le specie con areale molto ristretto o popolazione estremamente esigua e, infine, il criterio E, che in realtà è scarsamente applicato (in Italia e a livello globale) perché prevede analisi quantitative cha danno una probabilità del rischio di estinzione in una determinata finestra temporale – analisi che richiedono una mole di dati di rado disponibile.
Passi per la protezione delle specie
Gli obiettivi per il 2030 che si è posta la COP15 rappresentano sforzi davvero ingenti per la tutela della biodiversità e per fermare le estinzioni. «Se riuscissimo a raggiungere almeno alcuni di questi obiettivi, andremmo senz’altro nella direzione di rallentare la perdita di biodiversità. Per quanto riguarda ciò che dovremmo comunque fare nel territorio italiano, diverse sono le linee di azione», spiega Rondinini. «Per esempio, servirebbe fare più informazione per sensibilizzare e far conoscere alle persone anche sulle specie meno carismatiche, come i pesci e gli anfibi, che non sempre godono degli sforzi di tutela, anche finanziari, che si fanno per altri animali. E anche i parchi nazionali e le aree marine protette dovrebbero stabilire i propri piani di gestione in modo da garantire che comprendano tutte le specie che ospitano».
Molto di rado, inoltre, le minacce alla specie sembrano poter essere riferite a un singolo tipo di azione umana: sono anzi, più in generale, il risultato delle nostre azioni ad ampio spettro, che hanno portato alla frammentazione e alla perdita di qualità degli habitat – e che dunque richiederebbe azioni a spettro altrettanto ampio per essere arrestato e, se possibile, invertito.
«In base alle direttive europee – e non solo per gli obiettivi fissati dalla COP15 – dovremo anche, entro il 2030, espandere la rete di aree protette per arrivare a coprire il 30% del territorio nazionale», conclude il ricercatore. «E anche qui, dovremo lavorare in modo molto più strategico rispetto a quanto fatto finora, ampliandole non solo in funzione del territorio ma anche in funzione della distribuzione delle specie, che conosciamo piuttosto bene per molti vertebrati».
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