Data l’attualità dell’argomento in seguito all’ipotesi, ventilata in una prima formulazione del contratto di governo Lega-M5S, di una cancellazione o quanto meno una non contabilizzazione della parte del debito pubblico italiano detenuta dalla BCE, riproponiamo un articolo dell’economista Paul De Grauwe, una autorità riconosciuta a livello internazionale nel campo della politica monetaria, in cui il docente della London School of Economics illustra nei dettagli tecnici le conseguenze dell’acquisto titoli pubblici da parte di una banca centrale, soffermandosi poi in particolare sul caso specifico della banca centrale di un’unione monetaria tra paesi privi di unione fiscale, come è l’eurozona. Come spega De Grauwe, una ipotesi di questo genere non avrebbe nulla di tecnicamente od economicamente infattibile, in quanto non comporta oneri o perdite a carico di nessuno, se non la rinuncia al lucro sugli interessi dei titoli della BCE che vengono redistribuiti tra i paesi dell’unione in percentuale della quota di capitale di ciascuno. Evidentemente lo scandalo di queste ore attiene a considerazioni più che altro legate ad una resistenza politica a gestire in maniera coordinata e condivisa quel pasticciaccio brutto che si è rivelata l’unione monetaria.
di Paul De Grauwe, Yuemei Ji, 14 giugno 2013
Traduzione di Ugo Sirtori
La connessione tra politica fiscale e monetaria è attualmente sotto l’esame della Corte Costituzionale Tedesca, nel contesto del programma OMT di acquisto titoli da parte della BCE. Questo articolo sostiene che molte analisi in merito sono profondamente compromesse dall’errata applicazione alla BCE dei principi di fallimento dei privati. Quando la BCE compra bond, trasforma debito pubblico in base monetaria, e trasforma il rischio di fallimento sovrano in rischio di inflazione. La vera domanda è: qual è il limite all’espansione della base monetaria oltre il quale si causa inflazione? Ciò dipende dal contesto economico e il limite è molto più alto nell’attuale situazione di trappola della liquidità.
C’è molta confusione sulle implicazioni fiscali del programma di acquisto di bond – noto anche come OMT, Outright Monetary Transactions – che la BCE ha annunciato lo scorso anno.
- La confusione ha origine principalmente dall’applicazione dei principi di solvibilità delle società private (banche incluse) alle banche centrali.
- Il livello di confusione è così alto che il presidente della Bundesbank si è rivolto alla Corte Costituzionale Tedesca sostenendo che il programma OMT della BCE esporrebbe i cittadini tedeschi al rischio di dover pagare tasse per coprire potenziali perdite generate dalla BCE.
- In questo articolo sosteniamo che la paura che i contribuenti tedeschi possano dover coprire le perdite della BCE è mal posta. Essa è basata su una errata interpretazione dei problemi di solvibilità delle banche centrali.
In realtà, i contribuenti tedeschi sono i principali beneficiari del programma di acquisto di bond.
La solvibilità delle banche centrali rispetto agli agenti privati: la differenza essenziale.
Le società private si ritengono solvibili quando il valore del loro patrimonio netto è positivo, ossia quando il valore dei loro asset è superiore a quello del debito. La solvibilità di una società privata può anche essere espressa come il massimo ammontare di perdite che una società può assorbire in un dato momento. Pertanto, una società privata si dice solvibile quando le sue perdite non sono superiori al patrimonio netto. Siccome in un mercato efficiente questo equivale al valore attuale dei profitti futuri, arriviamo al vincolo che le perdite odierne non devono eccedere il valore attuale dei profitti futuri attesi.
Il problema comincia quando questo vincolo viene applicato alle banche centrali.
- L’applicazione impropria dei principi validi per il settore privato ad una banca centrale ha portato alcuni a concludere che le perdite che la BCE (o qualsiasi altra banca centrale) può sopportare non dovrebbero eccedere il valore attuale dei futuri guadagni di signoraggio attesi (vedere Corsetti e Delada 2013).
- Analogamente, è stato a volte sostenuto che una banca centrale necessiti di un patrimonio netto positivo per essere considerata solvibile (Stella, 1997, Bindseil e al. 2004).
Questi vincoli di solvibilità non dovrebbero essere applicati alle banche centrali; le banche centrali non possono fallire.
Una banca centrale può emettere un qualunque ammontare di moneta che gli consenta di “ripagare i suoi creditori”, ossia i possessori di moneta. Questo “rimborso” significa soltanto convertire vecchie monete in nuove monete.
Al contrario delle società private, i debiti delle banche centrali non rappresentano un diritto sugli asset delle banche centrali. Questo era vero durante il periodo del “gold standard”, quando le banche centrali promettevano di convertire le proprie obbligazioni in oro a un prezzo prefissato. Analogamente, in un sistema a cambi fissi, le banche centrali promettono di convertire le proprie obbligazioni in moneta estera a un prezzo fisso.
La BCE e altre banche centrali moderne che sono in un regime di cambio flessibile non sono vincolate a promesse del genere. Pertanto, il valore degli asset della banca centrale non ha influenza sulla sua solvibilità. La sola promessa che una banca centrale fa quando ha a disposizione una moneta fluttuante sul mercato è che il denaro sarà convertibile in un paniere di beni e servizi a un prezzo più o meno fisso. In altri termini, la banca centrale fa una promessa di stabilità dei prezzi. Tutto qui.
Il signoraggio non è un limite
Quindi non ha senso dire che il limite alle perdite di una banca centrale in un certo momento è calcolabile come il valore attuale dei futuri profitti (signoraggio). Non esiste un tale limite. La banca centrale può assorbire qualsiasi perdita, a patto che questa perdita non comprometta la stabilità dei prezzi.
Non è nemmeno corretto affermare che la banca centrale ha bisogno di mantenere un patrimonio netto positivo per “restare solvibile”. Una banca centrale non necessita di un patrimonio netto. Perciò l’affermazione che una banca centrale con un patrimonio netto negativo necessiti di essere ricapitalizzata dal tesoro non ha alcun senso.
Per essere chiari:
- La banca centrale (che non può fallire) non ha bisogno di alcun sostegno fiscale dal governo (che invece può fallire).
- L’unico sostegno di cui la banca centrale necessita da parte del governo è che mantenga il monopolio sull’emissione di moneta in tutto il territorio su cui ha giurisdizione.
Nel momento in cui tale potere è garantito dallo stato, la banca centrale è libera da qualsiasi vincolo di solvibilità.
Applichiamo ora questi primi principi alla questione di come un programma di acquisto titoli di stato possa avere implicazioni fiscali. Discuteremo prima la situazione di una banca centrale che fa riferimento a un solo stato. Poi, discuteremo il problema di una banca centrale in un’unione monetaria con più stati sovrani.
La banca centrale di un solo stato
Considereremo il caso di una banca centrale che compra titoli di stato nel mercato secondario. Comprando i titoli di stato, la banca centrale trasforma la natura del debito del settore pubblico. Quando la banca centrale compra il debito del proprio governo, il debito si trasforma: il debito governativo, che porta con sé un tasso di interesse e un rischio default, diventa una passività della banca centrale (base monetaria) che è priva di rischio default ma soggetta a rischio di inflazione.
Per comprendere le conseguenze fiscali di questa trasformazione, è importante consolidare la banca centrale e il governo (in fondo sono branche separate del settore pubblico).
Dopo la trasformazione, il debito governativo detenuto dalla banca centrale viene cancellato. Esso è un attivo in un ramo dello stato (la banca centrale) e un passivo nell’altro ramo (il governo). Quindi, scompare. La banca centrale può ancora tenerlo a bilancio, ma esso non ha più alcun valore economico. Di fatto la banca centrale può sbarazzarsi di questo artificio ed eliminarlo dal suo bilancio, e il governo può quindi eliminarlo dall’ammontare del suo debito. Esso non ha più valore in quanto è stato rimpiazzato da una nuova forma di debito, ossia la moneta, che comporta un rischio inflattivo anziché un rischio di default.
Perciò non ha senso dire che le banche centrali vanno in perdita quando il prezzo di mercato dei titoli di stato scende. Se anche ci fosse una perdita per la banca centrale, sarebbe bilanciata da un guadagno equivalente da parte del governo (perché il valore del suo debito scenderebbe in uguale proporzione). Non ci sono perdite per il settore pubblico.
Arriviamo a una conclusione importante:
- Quando una banca centrale ha acquisito titoli di stato, un declino nel prezzo di mercato di questi titoli non ha alcuna conseguenza fiscale.
La perdita in una branca del settore pubblico (la banca centrale) è compensata da un guadagno equivalente in un’altra branca (il governo), e non rimane niente da pagare per il contribuente.
Un’altra maniera per vedere questo effetto, è guardare ai flussi di interesse sottostanti ai bond. Supponiamo per esempio che la banca centrale abbia comprato un miliardo di euro in titoli di stato. Questi hanno una cedola, diciamo, del 4%. Perciò la banca centrale che ha in portafoglio i titoli riceve 40 milioni di euro all’anno da parte del governo. Questo viene contabilizzato come un profitto per la banca centrale. Alla fine dell’anno, la stessa banca centrale dovrà girare i propri profitti al governo. Assumendo che il costo marginale della gestione di questi bond sia pari a zero, la banca centrale girerà al governo i 40 milioni di euro. Perciò la mano sinistra paga la mano destra, per così dire.
Questa pratica contabile ha portato alla percezione che gli incassi per interessi siano da considerare come signoraggio. Sbagliato. Non c’è alcun profitto per il settore pubblico. Il profitto della banca centrale è esattamente compensato da una perdita del governo. Entrambi potrebbero eliminare questa scrittura convenzionale perché a questi profitti e a queste perdite non è associata alcuna sostanza economica.
- E’ letteralmente vero che la banca centrale potrebbe gettare al macero i titoli di stato. Niente verrebbe perso.
Nel nostro esempio, la banca centrale non riceverebbe più 40 milioni di euro l’anno, e non dovrebbe più rigirarli al governo ogni anno.
Cosa succede se il governo fa default sui suoi bond in scadenza?
- Il default causa delle perdite ai detentori privati dei titoli.Ma è irrilevante per i titoli detenuti dalla banca centrale. Infatti questi ora non valgono più nulla, ma erano già privi di valore anche prima del default. Si tratta della mano destra che si fa ripagare dalla sinistra.
Pensiamoci in termini di flusso di interessi. Dopo il default, la banca centrale non riceve più il pagamento degli interessi dal governo, ma allo stesso tempo smette anche di ridare indietro gli interessi al governo. Per il settore pubblico, non è successo nulla. Perciò la perdita della banca centrale a causa del default non ha alcuna conseguenza fiscale.
La stabilità dei prezzi e il default del settore pubblico
Esiste una questione riguardo la stabilità dei prezzi e il suo legame con un default governativo. Se la banca centrale mantiene le sue passività (la base monetaria) sotto controllo, il default di per se stesso non porta a maggiore inflazione. Questa aumenterà solo se il governo dovesse forzare la banca centrale ad espandere la base monetaria, per esempio per finanziare dei deficit di bilancio che dopo il default il governo non può più finanziare sul mercato.
Ogni tanto si sostiene che se la banca centrale non ha asset (a causa di un default governativo), allora non ha più strumenti per ridurre l’ammontare di moneta. Questa operazione può talvolta essere necessaria per ridurre la pressione inflattiva. Questo ragionamento non è fondato. Ci sono 2 modi per una banca centrale senza asset di ridurre la moneta.
Primo, la banca centrale può emettere titoli che generano interessi e venderli sul mercato. Questo ha l’effetto di ridurre la liquidità (la base monetaria).
Secondo, la banca centrale può aumentare i requisiti di riserva minima. Come risultato, lo stock esistente di liquidità viene “disattivato”, cosa che produce lo stesso effetto di un calo della base monetaria.
La banca centrale di un’unione monetaria
Le cose sono più complicate in un’unione monetaria che non sia anche un’unione fiscale. Qui le conseguenze fiscali di un acquisto di titoli della banca centrale sono più complesse. Il punto è l’esistenza di “n” stati sovrani. Nell’eurozona, n=17 (presto 18 con la Lettonia).
- Se potessimo consolidare la BCE e i 17 stati sovrani in un unico settore pubblico, l’analisi rimarrebbe la stessa di prima.
- Ma non possiamo, in quanto l’eurozona non è un’unione fiscale. Perciò un programma di acquisto di titoli comporterà trasferimenti tra i paesi che partecipano all’unione monetaria.
Per chiarire le idee sul problema, immaginiamo che la BCE acquisti 1 miliardo di titoli spagnoli a un tasso del 4%. Le conseguenze fiscali sono ora le seguenti.
La BCE riceve 40 milioni di euro in interessi annuali dal tesoro spagnolo. La BCE restituisce questi 40 milioni di euro tutti gli anni alle banche centrali nazionali dell’eurozona. La distribuzione avviene proporzionalmente alla quota di capitale nella BCE (vedere BCE 2012). La banca centrale nazionale trasferisce poi quanto ricevuto al proprio tesoro nazionale.
Per esempio, la BCE trasferirà l’11.9% dei 40 milioni al Banco de España. Il resto andrà alle banche centrali degli altri paesi membri. Chi riceverà di più è la Bundesbank tedesca; che con una quota di capitale del 27.1%, riceverà quindi 10.8 milioni di euro.
Perciò in un’unione monetaria (e in assenza di un’unione fiscale) un programma di acquisto di titoli di stato porta a trasferimenti all’interno dell’unione – ma non a quelli comunemente percepiti dall’opinione pubblica, specialmente in Germania.
- Un programma di acquisto titoli della BCE porta a un trasferimento annuale dai paesi i cui titoli vengono acquistati verso tutti gli altri.
Va notato che la BCE potrebbe implementare un programma di acquisto titoli che non comporti trasferimenti fiscali, comprando titoli di stato nazionali nell’esatta proporzione della partecipazione al capitale della BCE del corrispondente paese. In effetti, questo approccio è stato talvolta proposto. Questo però non eliminerebbe completamente i trasferimenti, dato che il tasso di interesse sui titoli di stato non è uguale per tutti. In un programma simile, i paesi con tassi di interesse più alti sarebbero pagatori netti nei confronti dei paesi con tassi di interesse inferiori. Perciò persino questo programma di acquisto ponderato sulle quote di capitale si tradurrebbe in un trasferimento fiscale dai paesi più deboli (debitori) verso i paesi più forti (creditori).
Cosa succede in caso di default sovrano?
Si sente dire spesso nei paesi creditori che, nel caso di default di un paese i cui titoli di stato sono nel bilancio della BCE, essi (i creditori) sarebbero i primi a rimetterci. Questa è una conclusione sbagliata.
Ritornando al nostro esempio di acquisto di 1 miliardo di euro di titoli di stato spagnoli da parte della BCE, consideriamo un default spagnolo su questi titoli.
- Il governo spagnolo smetterebbe di pagare 40 milioni di euro all’anno alla BCE. La BCE smetterebbe di versare questi 40 milioni di euro alle banche centrali “pro rata”. Il contribuente tedesco, per esempio, non riceverebbe più il compenso annuale di 10.8 milioni di euro. Non si può assolutamente concludere che il contribuente tedesco, o qualsiasi altro contribuente dell’eurozona, dovrebbe pagare per coprire il default spagnolo – se non nel senso stretto che dovrebbe rinunciare alla rendita annua degli interessi.
- C’è ovviamente la possibilità di una “tassa da inflazione”. Abbiamo notato prima che il programma di acquisto titoli trasforma il debito gravato da interessi in passività monetarie della BCE (base monetaria).
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Questo di per sé potrebbe generare inflazione, e quindi una “tassa da inflazione” che si applicherebbe a tutti i possessori di euro. Questo conduce alla questione di quanto grande possa essere il programma di acquisto titoli della BCE senza generare inflazione aggiuntiva.
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