Tramonto del 16 novembre 2011, Silvio Berlusconi abbraccia la profezia che Indro Montanelli aveva lanciato sul suo operato di statista commerciale: «Il Centro-Sinistra non dovrà fare niente per dimostrare che il governo Berlusconi è una frana. Ci penserà lui». L’Italia sprofonda nel baratro scavato da Angela Merkel – con il piccone da spread –, si profila una catastrofe tecnica: la nuova Disfatta di Adrianopoli. Sono giorni che non hanno nulla da invidiare alla battaglia del 9 agosto del 378, in cui l’esercito dell’Impero Romano d’Occidente venne annientato dall’imperatore Valente, possente guida, assieme ai Visigoti, dell’Impero d’Oriente.
Lo Stivale è nelle mani finanziarie di Mario Monti – circondato da una squadra di mummie che farebbero impaurire anche Tutankhamon –, Josè Manuel Barroso sembra più tranquillo, anche i mercati godono con sadismo della spending review anti-keneysiana infilata nei deretani italici: si attiva un fenomeno paranormale. Da quel preciso momento storico, Monti lascia passare la riforma pensionistica Fornero, inaugurando un effetto domino imbarazzante: ogni capo di governo a Palazzo Chigi soffrirà di un nuovo complesso “onorevole”, ma tragicomico: Il Complesso di Pirro.
Pirro è il re dell’Epiro, figura diplomatica e narcisistica vissuta tra il 318 a.c. e il 278 a.c., che ha legato la sua nomea all’antagonismo atavico verso l’Impero Romano. Strateghi epici come Annibale Barca lo eleggono come una delle migliori menti del Mediterraneo, ma la sua capacità teatrale e propagandistica superavano di gran lunga gli orizzonti da leader bellico.
Sbarcò in Italia nel 280 a.c., affiancando Taranto e i Sanniti nelle battaglie contro i romani, forte di avere alle spalle tremila cavalieri, duemila arcieri, cinquecento frombolieri, ventimila fanti e venti elefanti (anticipò Annibale nel loro utilizzo). Riuscì a battere il nemico guidato dal generale Levino nella battaglia di Heraclea, ma le conseguenze furono devastanti: perse quattromila uomini. Provò a ricostituire l’esercito con combattenti di tribù lucane, bruzie e messapiche e con l’apporto di città magnogreche come Crotone e Locri. Dopo di che cominciò l’avanzata verso Roma. Nel 279 a.c. lo scontro coi Romani ad Ascoli Satriano portò a una vittoria, perdendo la bellezza di tremila e cinquecento soldati. Il generale stesso dichiarò: «Un’altra vittoria così e sarò perduto». Accadde di peggio, la sconfitta di Benevento nel 275 a.c., che confermò come le strategie di Pirro fossero ottimistiche e fallimentari, nonostante la pompa magna della prima ora. Egli, oltre ad entrare amaramente nei dizionari italiani con la proverbiale “vittoria di Pirro”, fu costretto a tornare con la coda tra le gambe a Epiro, godendosi un’esistenza sabbatica senza infamia né lode, ma sempre in prima linea nelle decisioni focali del suo regno.
Stesso viatico di Enrico Letta nel 2013, costretto a guidare un manipolo di ministri da larghe intese, portando sulle spalle la croce del “sacco” di voti subito dal Pd da parte dei barbari Grillo e Berlusconi. Letta ammazzato politicamente dal suo Caino: Matteo Renzi. Quest’ultimo partito in quarta con «una riforma al mese da portare al termine», crea i presupposti di una stabilità godereccia per la Merkel e Giorgio Napolitano. Si sa, l’Impero Romano d’oggi è l’unione economico-finanziaria dell’UE e Don Matteo ci teneva a fare bella figura agli occhi di Juncker. Le presentazioni con slide a Palazzo Chigi sono d’applausi, da Mediaset Premium, la realtà è di Pirro: chiedete a qualsivoglia docente cosa ne pensa de La buona scuola. Chiedete a qualsivoglia lavoratore cosa ne pensa del Jobs Act. Ricordatevi della fragorosa sconfitta al referendum del dicembre 2016, con una riforma costituzionale scritta con il piede destro.
E poi il surrogato del governo renziano: la legislatura Paolo Gentiloni. Un solo appunto, d’intenzione favorevole, ma di fattura catastrofica: il Rosatellum. Una riforma elettorale peggiore del precedente Porcellum, con circoscrizioni e listini bloccati – degni di Arsenio Lupin –, una commistione tra proporzionale e maggioritario maccheronica e un principio di ingovernabilità galoppante issato alla sommità della sua scrittura.
È per colpa di questo aborto legislativo che oggi Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono costretti a giocare a scacchi, per imbastire un contratto di governo già stracciato da Mattarella poiché, di risma anti-europeista bancaria. Servirebbe un nuovo governo per costruire una nuova legge elettorale ed essere meno “pirroni”. Eppure il popolo ha deciso, ma non ha determinato niente. Mattarella è un furbo, ha capito che anche i condottieri della Lega e del Movimento 5 Stelle soffrono del Complesso di Pirro.
Intanto il popolo è frustrato: afflitto da una nausea sartriana rantola, spaesandosi nelle proiezioni di un futuro prima che è pronto a cantare l’eterno ritorno. I novelli Pirri continuano a partire bene e sbagliare fragorosamente in corsa, finendo nel melodramma. Ciò accade ormai quasi da un decennio. Ma è sempre il lavoratore, la prostituta e il menefreghista a pagare. Il problema della classe politica 3.0 è credere di essere protagonisti in un perenne film di Paolo Sorrentino. Ignorano, forse, l’assioma più ficcante di uno dei Maestri dell’Umanesimo nostrum, Niccolò Machiavelli: «Il ministro deve morire più ricco di buona fama e di benevolenza, che di tesoro».
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