L’Italia cerca ancora posto lungo le nuove vie della seta
di LIMES (Giorgio Cuscito)
Le notizie geopolitiche più rilevanti di maggio attorno alla Belt and Road Initiative. Il punto sulla Penisola a un anno dal forum della Bri, gli alberghi di Trump in Indonesia, le tensioni a Gibuti tra Cina e Usa, il ruolo dell’Oman.
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INDICATORE GEOPOLITICO: 1
È passato un anno da quando si è svolto a Pechino il primo forum della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta). In quell’occasione, il presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni aveva ottenuto la promessa da parte del governo cinese di investimenti nei porti di Trieste e Genova.
L’Italia e le nuove vie della seta, un anno dopo
Il lavorio della diplomazia italiana è intenso e i rappresentanti dei due scali marittimi e di quello di Venezia si recano spesso nella Repubblica Popolare. Tuttavia, Roma non ha ancora firmato con Pechino il memorandum d’intesa per sancire la sua partecipazione alla Bri. Inoltre, nessun accordo è stato per ora ufficializzato per rendere i porti nostrani snodi concreti dell’iniziativa.
Il progetto della piattaforma offshore di Venezia è stato congelato perché non attirava l’interesse degli investitori, l’autorità portuale vuole invece ampliare il terminal container di Marghera. Trieste, che beneficia dello status di porto franco, potrebbe annunciare progetti di collaborazione con i cinesi entro il 2018. La presenza cinese negli scali italiani si limita al terminal di Vado Ligure, di cui Cosco controlla il 40%. Soprattutto, tutto tace riguardo il Mezzogiorno, i cui porti (già in passato oggetto dell’interesse cinese) non rientrano in potenziali piani di sviluppo legati alla Bri.
La rotta ferroviaria tra il polo logistico di Mortara e Chengdu è stata percorsa una sola volta, a novembre. Nessun convoglio ha fatto ritorno dalla Cina, probabilmente per problemi legati ai costi di trasporto. Conferire regolarità alla rotta potrebbe accrescere l’export italiano verso la Repubblica Popolare e valorizzare la strategica posizione di Mortara all’incrocio tra il Corridoio Mediterraneo e quello Reno-Alpi della Trans european network-transport, che dovrebbe entrare in funzione nel 2030.
Le rinnovate preoccupazioni che Roma ha manifestato insieme a Berlino e Parigi per una potenziale penetrazione cinese in Ue aggiungono confusione su quale sia la percezione italiana. Come se improvvisamente l’iniziativa possa trasformarsi da grande opportunità in potenziale rischio. Le sue conseguenze dipendono dal nostro approccio (attivo o passivo) ad essa, piuttosto che da quello della Cina.
Le iniziative individuali hanno un impatto limitato senza una strategia geopolitica complessiva che definisca chiaramente il ruolo dell’Italia lungo le nuove vie della seta. Dotarsene (dando per scontata la necessaria riscoperta dell’interesse nazionale) è condizione necessaria – ma non sufficiente – per cogliere le opportunità e prevenire gli effetti collaterali derivanti dal progetto cinese.
GLI AFFARI DI TRUMP LUNGO LE NUOVE VIE DELLA SETA
Le tensioni commerciali tra Usa e Cina proseguono, ma non impediscono l’avvio del primo progetto che lega gli interessi di Donald Trump alle nuove vie della seta.
In Indonesia, hotel, residence e campi da golf di proprietà della Trump Organization faranno parte di un grande parco a tema. Il progetto, realizzato dalla Metallurgical Corporation of China (Mcc) e la indonesiana Mnc Land nell’ambito della Bri, prevede oltre 500 milioni di dollari di investimenti cinesi. Tuttavia, le aziende delle Repubblica Popolare non costruiranno direttamente le infrastrutture nella proprietà di Trump.
Mnc ha comunicato la conclusione dell’accordo poco prima che il vicepremier cinese Liu He arrivasse negli Usa per il secondo round di negoziati commerciali con Washington e per trovare una soluzione al caso Zte.
A ciò si aggiunga che negli ultimi tre mesi la Cina ha approvato 13 marchi appartenenti a Ivanka Trump (figlia di Donald) e che cinque di questi sono stati accettati pochi giorni prima che il presidente Usa parlasse della cooperazione con Pechino per risolvere la crisi di Zte.
Il potenziale conflitto di interessi è evidente, ma le tensioni sino-statunitensi sul fronte commerciale dipendono da molteplici fattori, che vanno oltre questa dinamica: la competizione tra Pechino e Washington sul fronte tecnologico; la volontà del tycoon newyorkese di ridurre il deficit commerciale Usa per ottenere il consenso dell’opinione pubblica; il lavoro diplomatico di entrambi i governi per ottenere la denuclearizzazione della penisola coreana alle condizioni rispettivamente più favorevoli.
TENSIONE A GIBUTI TRA USA E CINA
La convivenza tra Cina e Usa nello strategico paese sul Corno d’Africa si prospetta tutt’altro che semplice. Pechino ha respinto al mittente le accuse di Washington secondo cui la base cinese a Gibuti avrebbe puntato dei laser verso un aereo C-130 a stelle e strisce per disturbarne la visuale.
Si tratta del primo episodio di tensione tra le due potenze in questo paese. L’avviso diffuso dagli Usa circa l’utilizzo del laser (proibito da un protocollo Onu) riguarda un’area che si trova in mare, a 750 metri dalla struttura della Repubblica Popolare.
Ufficialmente, Pechino ha aperto la sua unica “base di supporto logistico” all’estero a Gibuti per appoggiare le operazioni di peacekeeping e antipirateria, come confermano anche le recenti esercitazioni nel deserto.
A prescindere dalla veridicità delle accuse statunitensi, la rilevanza strategica della base cinese va ben oltre queste attività. Da Gibuti (dove vi sono anche le basi Usa, Giappone, Francia e Italia), è possibile monitorare i flussi commerciali che da Est passano per lo Stretto di Bab el Mandab, il canale di Suez e raggiungono il Mar Mediterraneo. Inoltre, nel paese africano la Cina sta investendo massicciamente nello sviluppo di infrastrutture. Tra queste spiccano il porto multiuso di Doraleh e le rotte ferroviarie dirette in Etiopia ed Eritrea.
Gibuti è insomma un caso di studio riguardo i riflessi militari delle nuove vie della seta.
LA BRI HA BISOGNO DI SOSTEGNO
Nel primo trimestre del 2018, gli investimenti cinesi in 52 paesi coinvolti nella Bri sono stati pari a 3,61 miliardi di dollari. Si tratta di un incremento del 22,4% rispetto allo stesso periodo del 2017.
La cifra è ancora molto lontana dal trilione di dollari promesso dalla Cina per sviluppare il progetto infrastrutturale. Secondo il quotidiano cinese Global Times, Pechino non deve caricarsi tutta la responsabilità dell’iniziativa. Piuttosto, la Bri ha bisogno di diversificare le fonti di investimento coinvolgendo i privati e di conferire un ruolo più attivo alle istituzioni finanziarie.
IL NUOVO GOVERNO IN MALAYSIA NON OSTACOLA LE NUOVE VIE DELLA SETA
Il neoeletto primo ministro malaysiano Mahathir Mohamad ha promesso che rivedrà i progetti cinesi e rinegozierà qualunque “accordo ineguale”. Per la prima volta dopo 60 anni, la coalizione Barisan Nasional è stata infatti sconfitta durante le recenti elezioni. Sull’esito delle urne hanno inciso anche il coinvolgimento di Najib Razak, suo leader, in uno scandalo di corruzione e la sua eccessiva disponibilità ad accogliere gli investimenti cinesi. L’alto livello del debito pubblico della Malaysia potrebbe non consentire a Kuala Lumpur di sostenere finanziariamente i progetti della Repubblica Popolare.
Due destano maggiore attenzione. Il primo da 14 miliardi di dollari riguarda la costruzione della linea ferroviaria che collega il Sud della Thailandia, la poco sviluppata costa orientale malese e Port Klang (vicino Kuala Lumpur), passando per lo strategico porto di Kuantan, posseduto da una conglomerata sino-malaysiana. Il secondo concerne la Forest City, un complesso di lusso nello Stato meridionale di Johor, mal visto dagli strati più poveri della popolazione.
Kuala Lumpur e Pechino potrebbero ridefinire i termini della collaborazione ma entrambi hanno le loro ragioni per preservarla.
La Malaysia ha bisogno dei finanziamenti cinesi per sviluppare le proprie infrastrutture. La Cina invece deve mantenere in piedi i progetti in questo paese per due ragioni. Primo, Pechino vuole migliorare i collegamenti infrastrutturali tra Repubblica Popolare e penisola indocinese per monitorare meglio lo Stretto di Malacca e allo stesso tempo ridurre la dipendenza dei suoi flussi commerciali da questo collo di bottiglia. Secondo, questo paese è stato sempre considerato uno dei più coinvolti nell’iniziativa. Un passo indietro da parte di Kuala Lumpur danneggerebbe la percezione delle nuove vie della seta in Asia-Pacifico.
IL TRENO PER TEHERAN
Due giorni dopo l’annuncio del ritiro degli Usa dall’accordo sul nucleare con l’Iran, è stata inaugurata una nuova linea ferroviaria tra Cina e Repubblica Islamica. Lunga circa 8.300 chilometri, questa unisce la Mongolia Interna a Teheran passando per Kazakistan e Turkmenistan. I treni impiegano 15 giorni a percorrerla, 20 in meno rispetto alla rotta marittima.
Tanti motivi spingono Pechino e Teheran a rafforzare la loro collaborazione in questa fase, agevolati dalle tensioni che legano entrambe agli Usa. Per la Cina, l’Iran è uno snodo fondamentale della Bri in Medio Oriente, un essenziale fornitore di petrolio, un partner in chiave antiterrorismo e un fiorente mercato cui destinare i suoi prodotti.
Inoltre, dalla prospettiva cinese, il processo di denuclearizzazione iraniano rappresenta un modello per quello eventuale della Corea del Nord.
La Repubblica Islamica allo stesso tempo vede nella Repubblica Popolare il suo primo partner commerciale e il primo interlocutore ai fini della preservazione dell’accordo sul nucleare.
Xi Jinping e Hassan Rohani discuteranno di questi argomenti durante il summit della Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai che si terrà il 9 e il 10 giugno a Qingdao (Cina).
IL SENSO DELLA CINA PER L’OMAN
La partecipazione dell’Oman alla Bri – cerfiticata da un memorandum d’intesa con la Cina – non sorprende per almeno due ragioni.
Primo, il Medio Oriente è un teatro instabile ma essenziale per lo sviluppo della rotta terrestre delle nuove vie della seta. Perciò è necessario individuare partner politicamente affidabili, proprio come l’Oman. Secondo, questo paese si affaccia strategicamente sull’omonimo golfo e sul Mare Arabico. Per questo, tra il 2003 e il 2018 è stato il primo per visite privilegiate delle navi cinesi, superando persino Gibuti (sede della unica base militare della Repubblica Popolare), Pakistan (dove la presenza cinese si concentra a Gwadar) e Yemen. In particolare, i transiti erano dovuti a rifornimento e riparazioni.
Per tali ragioni, l’Oman potrebbe non solo ospitare gli investimenti cinesi ma anche una delle infrastrutture militari che Pechino vorrebbe costruire all’estero per tutelare i suoi interessi lungo la Bri.
ROTTA PER I CARAIBI
Trinidad e Tobago è diventato il primo Stato caraibico a sottoscrivere il memorandum d’intesa con la Cina per far parte della Bri. Pechino punta a investire nella costruzione d’infrastrutture, nel settore energetico, nella finanza e nell’agricoltura. La Cina sta consolidando i rapporti con i paesi dei Caraibi, fatta eccezione per Belize, Santa Lucia, Saint Kitts e Nevis, Haiti e Saint Vincent e Grenadine. Questi Stati riconoscono la sovranità di Taiwan e per questo non intrattengono relazioni diplomatiche con la Repubblica Popolare. Tuttavia, la recente scelta della Repubblica Dominicana di chiudere i rapporti con Taipei indica che il consenso verso di essa – qui come altrove – si sta rapidamente riducendo.
FONTE: http://www.limesonline.com/rubrica/italia-cerca-ancora-posto-lungo-le-nuove-vie-della-seta
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