There is no alternative?
di PIERLUIGI FAGAN
L’argomento che qui trattiamo è la tesi sostenuta dall’economista e storico americano Robert J. Gordon, nel suo celebre “The Rise and Fall of American Growth” (Princeton University Press, 2016), beneficiato di non so quanti premi editoriali, critiche molto rispettose e giudizi altrettanto ossequianti da parte di K. S. Rogoff e di L. Summers, nonché da premi Nobel quali R. Solow, G.Akerlof e P. Krugman di cui alleghiamo qui una recensione tradotta in italiano. Ammettiamo di non aver letto le 784 pagine dell’originale che pare siano assolutamente godibili per le parti descrittive delle reali condizioni di vita prese con narrativa concreta e circostanziata, tanto quanto per le molte tabelle, indici, statistiche molte delle quali confezionate proprio dall’Autore a supporto della sua inedita tesi. Ci siamo riferiti ad un companion book che ne riassume le tesi (una sorta di Bignami, se ci è consentita l’analogia) ed ai molti articoli su di lui scritti, nonché alle sue conferenze, le TED (qui) ma anche la più estesa conferenza alla LSE di un’ora e mezza (qui). Alle tesi del professore della Northwestern, per quanto inedite e fuori del coro, a chi scrive, non risulta siano state opposte obiezioni forti. Certo poiché la tesi portano ad un certo pessimismo per il futuro ed essendo il futuro impredicibile in via di principio, si può apprezzare la sua ricostruzione storica e poi mantenere out look più ottimisti, ma più che certezze predittive, l’opera di Gordon è secondo noi apprezzabile in senso storico ed in quanto materializzatrice di quel fenomeno che chiamiamo economia, soprattutto per il mondo occidentale e soprattutto ora che la crescita orientale sembra mostrare fenomeni di “grande convergenza” con quella occidentale come abbiamo segnalato già qui. “Materializzatrice” sta per render concreto quel motore di bisogni che l’innovazione che traina lo sviluppo economico va a soddisfare, troppo spesso il fatto economico ci viene presentato come se non avesse riferimenti concreti, il che lo rende a-geografico, quanto a-storico, eterno presente di curve che s’alzano e scendono chissà poi perché. Ricordarci la vera storia di “chi ha fatto cosa, quando, come e perché” ha il merito di portarci a fare il punto sul perché continuiamo ad avere dogmatica e cieca fede che il futuro sarà una qualche versione del passato. Nonché a scuotere pesantemente questa stessa fede all’ombra della quale poi s’apparecchiano i banchetti combattenti dei keynesiani vs hayekiani. A noi a cui piacciono di più i Braudel ed i Polanyi, gli Arrighi e financo i Bairoch, a noi che abbiamo più sintonia con gli economisti storici che con gli economisti a-storici, le tesi di Gordon ci hanno molto stimolato. Vediamo quindi di che si tratta.
Il campo indagato da Gordon sono gli Stati Uniti d’America che però possiamo ritenere un frattale del più generale sistema economico occidentale. La tesi centrale dello studioso è che l’andamento storico dell’economia è stato storicamente da stagnante a moderatamente ed occasionalmente in crescita. Quello che è successo nel secolo della grande espansione ed intensificazione, tra 1870 e 1970, è eccezionale ma anche irripetibile. Conviene quindi registrare questa eccezionalità ed archiviarla, di conseguenza occorre vedere che tipo di economia ma soprattutto che tipo di società vogliamo costruire per l’immediato futuro non contando più sul traino potente di una forza che ha ormai compiuto il suo compito storico.
Il sistema economico moderno non può esser scorporato dal tipo di società che intorno ad esso si è andata formando. Questa società che si è andata formando per prima nell’Italia del XV secolo, nasceva di rimbalzo ad una catastrofe molto impattante: la Peste Nera di metà del Trecento. L’alto impatto dell’evento venne dato da quattro fattori. Com’è noto, morì in Europa circa un terzo della popolazione senza alcuna distinzione di sesso, età, condizione sociale. Tutto avvenne in un tempo molto concentrato, cinque anni per il suo corso più importante. Ciò avvenne più o meno sincronicamente in una vasta area d’Europa, la stessa che coincideva con l’ecumene cristiano, colpì cioè una intera forma di civilizzazione. Il drammatico evento per dimensioni ed intensità degli effetti prodotti, non aveva spiegazioni plausibili e quindi non aveva possibili rimedi. Quest’ultimo fatto fu decisivo. La forma di civilizzazione del tempo, constatò di aver fallito lo scopo di ogni società ovvero l’adattamento alle condizioni date. Il fallimento retroagì sulla credibilità delle istituzioni del tempo, sia per la parte narrativa sviluppata praticamente in forma unica all’interno della Chiesa (la cultura volgare, per quanto importante, svolgeva puro ruolo di accompagnamento ed intrattenimento), sia per la parte sociale e politica che intorno a quella narrazione ruotava. Inizia lì, la fine del Medioevo.
Gli studi storici su questa transizione, ci raccontano di una veloce emersione delle prima cittadine che nate borghi già ai primi del Mille, vanno a riempirsi sempre più calamitando il disperso contado circostante. Le città, chiedono logistica, materiali, infrastrutture, chiamano quindi artigianato e lavoro sia progettuale che realizzativo, assorbendo materiali dalla media-lunga distanza. Pur se la popolazione complessivamente era stata decurtata, la bassa densità abitativa dei territori registrava uno sbilancio tra domanda (di cibo soprattutto, la popolazione produttiva delle campagne e del ciclo di produzione, lavorazione e distribuzione presentava grossi buchi) ed offerta. Molta innovazione di questa poco notata prima “rivoluzione industriosa”, rispondeva in primis al bisogno di garantire un sostanzialmente simile output produttivo al diminuire delle braccia umane disponibili e prese la forma di macchine. C’è chi ha notato che -ad esempio- anche la rivoluzionaria macchina da stampa, nasceva per risolvere il problema della scomparsa sincronica di gran parte degli amanuensi. Una volta che pietre, legno, cuoio e metalli affluirono in città, la creatività produttiva certo crebbe anche per risolvere problemi nati ex novo dal semplice fatto che si erano cominciati a risolvere i primi problemi di base. Questa prima rivoluzione industriosa innova, crea, produce in modo nuovo per quanto limitatamente ad uno stretto range di prodotti, ma porta anche le città ad interconnettersi in una prima rete di mercati e mercanti, trasporti, cambi e cambiali. Una rete territoriale tra centro-nord Italia, Francia orientale e Germania occidentale, su fino alla Province Unite con a lato la Lega Anseatica, ma anche una rete marittima di porti e navi tra Italia e sponda orientale del Mediterraneo. Quanto alla sua forma puramente economica, e per il lato banco-finanziario e per il lato produzione e scambio, questa economia può già ben dirsi moderna e capitalistica, ma non se ne comprende la ragione del “prima non c’era dopo c’è” se non la si riconduce al potente trauma del Trecento. Fu una risposta adattativa a seguito di un macroscopico fallimento della forma precedente, la sua energia storica non era magicamente nata al suo interno, era stata mobilitata da uno shock esterno.
Non se ne vuole fare per l’ennesima volta una improbabile legge newtoniana del cambiamento storico in quanto la storia non ha leggi, ha semmai regole, regole che a volte si applicano a volte no, a volte con una certa intensità esplicativa altre volte minore, ma molto spesso sono questi avvenimenti macro a spingere i veicoli adattivi che chiamiamo “società” a muoversi e cambiare. Fattori ambientali (cambiamenti di clima o catastrofi naturali), fattori demografici di area ovvero densità abitative e frizioni confinarie degli areali, incursioni disordinanti o potenti migrazioni, differenze ampie tra il grado di potenza di una parte geografica rispetto all’altra (ad esempio il divario che portò l’Europa occidentale portoghese, olandese, spagnola, poi francese ed inglese a conquistare e poi dominare prima il mondo americano, poi quello afro-asiatico), crolli di un sistema nato in altre condizioni e crollato al rapido modificarsi dell’intorno, sono assai spesso gli scossoni che mettono in moto reazioni che poi scrivono la storia. Se chiamassimo questa “concezione adattiva della storia” rimarcheremmo il fatto che le società non sono monadi isolate e poiché ognuna di esse, per costituzione, tende a creare ordine ed omeostasi, non sarà certo dal suo interno che nasceranno gli imput al cambiamento. Il cambiamento è in genere richiamato dal muoversi di ciò in cui le società sono immerse e del resto questo Tutto, che fosse la porzione geografica con l’Impero romano ed il suo oltre il confine, che fosse l’Europa del Tre-Quattrocento e la sua dialettica col mondo musulmano medio-orientale, turco o nord-africano o che fosse l’Occidente del 1870 che si espandeva all’intero pianeta o il giovane nuovo mondo multipolare denso e complesso nella cui fase storica siamo appena entrati, si muove di suo, è eracliteo di default. Alle società non rimane che adattarsi a questo movimento a volte rapido ed improvviso, a volte lento e continuo.
Quando lo sviluppo di questo nuovo mondo moderno ormai maturo per prendere ufficialmente il posto dell’ordine medioevale, nella sua direttrice europea sud-nord giunse infine in Inghilterra, e dopo che altri movimenti avevano portato alla costituzione di nuovi attori socio-politici massivi quali i primi Stati poi Stati-nazione, produsse un secondo sistema fondamentale per il suo successivo sviluppo: lo Stato parlamentare. Come altrettanto spesso accade in storia, fu la periferia più arretrata quindi meno strutturata, a lanciare l’innovazione fondamentale: un parlamento che legifera per un interesse trainante ritenuto generale. Non si comprenderà mai la storia di quello che chiamiamo capitalismo se non si fa perno sulla Gloriosa rivoluzione inglese del 1688-89. Solo da lì, leggi, tasse, investimenti pubblici e quindi a seguire privati (sequenza di cui è impossibile trovare nella storia il flusso invertito, dal privato al pubblico che lo “segue”), istituzioni culturali (università, Royal Society), élite finanziarie-produttive-militari-culturali unite dal compito legislativo e politico, vanno a sistema convergendo le intenzioni e le decisioni usando la nuova potenza legislativa unificata del fiscale, dell’economico, del giuridico e del militare. Lì, il banco-finanziario fa un salto strutturale (tra cui la banca centrale) e così l’economia di produzione e scambio, sopratutto la produzione per altro sempre più potenziata dalle nuove materie prime coloniali e dallo stesso scambio che per avvenire doveva contare su veicoli di trasporto sempre più avanzati ed una logistica sempre più sofisticata. Se quindi capitalismo come pura forma economica tra le altre ha storia pregressa di lunga durata, capitalismo come nome di società avviluppata e determinata da una unica forma dominante di economia ha natali inglesi tardo XVII secolo.
Tutto ciò giunge infine al terzo salto. Dopo la rivoluzione industriosa e la Gloriosa rivoluzione che creò il doppio sistema binario economia e politica al servizio del suo sviluppo, tanto quanto l’economia diveniva supporto di crescita della potenza dello Stato, la rivoluzione industriale esplode l’applicazione di una serie di innovazioni nella produzione mentre l’impero fornisce materie prime e mercati di sbocco. La spirale di potenza del sistema anglosassone, nato in Inghilterra, poi Gran Bretagna, poi Regno Unito, ora va considerata binaria con gIi Stati Uniti d’America e da qui in poi, cediamo il passo al trattato di Gordon.
Questa terzo salto, trae la sua propria energia creativa da una serie di innovazioni succedutesi in sequenza: elettricità, motore a scoppio, rivoluzione casalinga con elettricità, calore, fognature ed acqua corrente potabile. Gli invasati della tecno-scienza si ricordino che scaffali di ricerche hanno dimostrato che in relazione al vertiginoso aumento dell’aspettativa di vita, la penicillina ha contribuito per non più del 3,5%, i bambini e molte madri hanno smesso di morire dopo il parto da quando levatrici e chirurghi hanno preso a lavarsi le mani col sapone. E’ bastata la crisi dell’acqua contaminata per riduzione dei budget di controllo a Flynt, Michigan, per far sprofondare l’intera zona al 1850, lì dove torneremo quando avverrà la predetta con certezza del se ma non del quando, prossima massiccia tempesta solare che paralizzerà ogni cosa della nostra iper-moderna vita che dipende dall’elettricità e dall’elettromagnetismo, per mesi se non per anni. Gordon sembra non soffermarsi troppo sulla chimica primo-novecentesca, ma va senz’altro posta accanto alle altre motrici. Ne consegue un incredibile salto di civiltà con un primo effetto demografico (diminuzione della mortalità infantile + aumento dell’aspettativa di vita), un secondo effetto economico (tra cui meccanizzazione del lavoro) ed un terzo effetto non censito dal Pil che attiene ai modi ed alla qualità di vita percepita (tra cui la progressiva liberazione delle donne dal lavoro domestico e loro integrazione nel processo produttivo). Tutto ciò che ha avuto al suo interno un primo step a cavallo tra XIX e XX secolo, un secondo step potenziato dalla relazione adattiva alla Grande Depressione ed alla Seconda guerra mondiale, ed un terzo step con l’innovazione elettronica post bellica che termina sostanzialmente la sua spinta al 1970.
Questa data, il 1970, è interessante perché seguendo un’altra storia, la storia a ritroso di ciò che ha portato alla “finanziarizzazione” ovvero al dominio di quella parte dell’economia che storicamente era ancella della principale di produzione e scambio, arriviamo a base in quel 15 agosto del 1971 quando Nixon decide di rovesciare l’ordine di Bretton Woods e la natura stessa del denaro, nello specifico, del dollaro. Se qualcuno vuole cimentarsi nel mettere in relazione il Nixon shock con la fine della crescita è benvenuto, chi scrive lo sostiene da anni, e con il concetto del “buying time” lo ha sostenuto anche W. Streeck di cui parlammo qui. Gordon aggiunge infine la tesi che lo fa essere oggi del tutto eterodosso al mainstream, il valore e l’impatto delle recenti innovazioni nella information & communication technology non è assolutamente parametrabile a quello formato dalle innovazioni precedenti, né per il Pil, né per potenza del tessuto produttivo quindi occupazione e potere d’acquisto, né per la qualità della vita percepita. Il ciclo va a chiudersi, il brillante futuro è alle spalle, il corso economico americano (ma anche occidentale) va sul tendenzialmente stagnante. Quest’ultima più che una profezia, è la spiegazione concreta della precedente profezia in cui si erano allineati due economisti di solito non d’accordo tra loro ovvero Larry Summers e Paul Krugman. Ci piace sottolineare come l’approccio di Gordon restituisca un po’ di razionalità e concretezza ad una disciplina l’”economics” che ultimamente interpreta numeri e tabelle con lo stesso spirito magico con il quale gli arùspici etruschi leggevano le interiora di pollo.
Sul valore dell’innovazione recente, Gordon ironizza sulle macchine senza conducente, lascia la porta aperta ai possibili per quanto impredicibili e non quantificabili sviluppi delle nanotecnologie e biotecnologie ma sottolinea che ci vogliono decenni per sviluppare l’ampio albero di novità che portò da Edison al frigorifero o da Benz alla motorizzazione di massa e poiché nessuna altra significativa tecnologia trasformativa sembra esser stata inventata negli ultimi tempi, pur non potendo escluderne una futura, non saranno certo i prossimi immediati decenni a beneficiarne. Noi aggiungiamo due note su questa ultima fin troppo celebrata “rivoluzione” dell’info-comunicativo. La prima è che tale innovazione non è generativa ma sostitutiva. La sequenza grammofono-giradischi-hi fi-walkman-computer-Ipod-telefonino, per quanto attiene alla riproducibilità della musica, è una sequenza di device e di modi di fruizione. Generativa però significa che prima una data cosa non c’è (la possibilità di riprodurre musica in assenza di musicisti), poi c’è. La distruzione creatrice che distrugge la centralità del cavallo e crea tutto l’albero produttivo successivo basato sul motore a scoppio, non è uguale a quella che sopprime il giradischi fisso per diventare scatolino portatile con cuffiette, prima a nastro magnetico poi ad hard disk su cui confluiscono in portatile il computer, il telefonino e la telecamera o fotocamera. La seconda considerazione è che molto impatto di questa innovazione info-comunicativa, distrugge più di quanto crei. Il saldo occupazionale ed anche quello di Pil diretto ed indiretto, nonché introito fiscale tra chiusura di negozi e distributori off line per confluire tutti su Amazon è negativo. Se Ford aveva intuito che per vendere modelli T i suoi operai dovevano guadagnare in modo da poterseli comprare, i guru della Silicon Valley oggi sono i più sfegatati sponsor dei redditi integrativi e di cittadinanza perché hanno capito che il loro agire economico ha tagliato i redditi, quindi ridotto i consumatori. Per altro, evadendo o eludendo la tassazione, chiedono allo Stato di finanziare il consumo ricorrendo alla fiscalità generale a cui loro si vedono bene dal contribuire. Del resto c’è una empirica via indiretta per sospettare del significato di questa recente ossessione da “innovazione permanente”, quando si parla troppo di una cosa è perché manca, come col sesso, le parole tentano a fatica di riempire il buco della mancanza della cosa. La vera “Singolarità” è questa regressione della disciplina economica che nacque col paradigma del numero-peso-misura della razionalità più stretta e cogente per oggi tornare ad una qualche forma di pensiero magico.
Quest’ultimo punto ci potrebbe portare anche ad una nota di epistemologia economica, approccio critico sotto-coltivato quando invece l’economics sembra aver urgente bisogno di una filosofia che ne controlli metodi ed assunti. Poiché noi allineati alla definizione data da Samir Amin che le leggi del capitalismo sono solo la sua storia concreta (come ama ripetere il mio amico Piero Pagliani), questa storia ha nel range di significativa intensità, poco più di cento anni (con dentro un ciclo anomalo di trenta anni con due guerre mondiali ed in mezzo una depressione). Un po’ troppo pochi per fidarsi delle sue ricorrenze interne come segnali di possibili regole. Qualche sempliciotto che ha letto Schumpeter, quando si discute di queste cose, tira fuori con l’aria di chi la sa lunga la famosa “distruzione creatrice”, concetto che per altro Schumpeter trasse da Marx, ma ogni svolta innovativa cosa distrugge e cosa crea? Si può ritenere questa una “regola” della cosa complessa che chiamiamo economia o vale quanto “il sole risorge dopo ogni tramonto”? E se poi tra noi ed il sole arrivano le nuvole gonfie di pioggia, la legge che valore predittivo ha?
Gordon sottolinea anche il ruolo dello Stato e della mentalità ovvero delle ideologie dominanti per sottolineare differenze tra percorsi storici ed adattamenti. L’incredibile impulso che diede la Seconda guerra mondiale funzionò per quello che oggi chiamiamo “vincolo esterno”. Oggi ad esempio di potrebbe creare a bella posta drammatizzando le già drammatiche notizie sulla degenerazione ambientale, un pressione collettiva ad inventare soluzioni ai tanti problemi del capitolo. Peccato che l’intenzione dovrebbe venire dai politici ed in un Paese di 330 milioni di persone distribuite in un immenso territorio, quei politici ricevano i fondi che sostengono le loro dispendiose campagne elettorali dalle società petrolifere. Leggendo Piketty, rimasi colpito dall’aliquota marginale USA negli anni ’50 che sfiorava –mi sembra-, addirittura il 90%, altresì le imprese arrivavano anche al 60% di tasse su gli utili d’impresa. Eppure non è che gli “imprenditori” del tempo mostrassero un calo di motivazioni, così come non è che morivamo di stenti quando c’era il controllo alla libera circolazione dei capitali, anzi, le banche erano sinonimo di solidità (“l’hai messa in banca” a dire “al sicuro”), le tasse meno evase, i titoli pubblici comprati dai cittadini del Paese che li emettevano come fanno i giapponesi che se ne sbattono dello spread pur avendo il debito/Pil al 240%. Una ideologia come quella oggi dominante che spera di rinfocolare la crescita con meno tasse e meno Stato è come consigliare ad un agricoltore di seguire la piantina appena nata con abbondanti innaffiate di idrocarburi per dare “energia alla crescita”.
Il brillante futuro alle spalle è la predizione che si basa su questo excursus, abbiamo vissuto la prima irripetibile fase di una curva che tenderà ad appiattirsi. Ma in USA, come in parte anche da noi, ci sono poi alcuni freni contingenti aggiuntivi all’ipotetica crescita, ultima versione della religione del cargo. Si tratta dell’ormai insopportabile diseguaglianza che continua ad allargarsi anche se ormai denunciata e problematizzata dagli stessi soloni economici che si strappano le vesti sul NYT ed al WEF di Davos. Problemone evidentemente troppo complesso per giungere a soluzione (pensa te come stanno messi!). Si aggiunge la demografia qui da noi addirittura in contrazione (qualche economista ha ricordato al vasto pubblico che crescita in riduzione demografica è come botte piena moglie ubriaca?), ma in occidente comunque produttrice di legioni di anziani che -in genere- non sono gli eroi degli aumenti di produttività. Spinta educativa verso il basso quando è solo verso l’alto che si può sperare di formare competenti il cui gran numero possa poi darci qualche brevetto da sfruttare. La tecnicizzazione della formazione riproduce l’esistente proprio nel momento in cui andrebbe finanziata invece uno scarto, la fantomatica “rivoluzione scientifica”, mai come oggi il sapere sta diventando dogmatico e conservatore, basti pensare che nella facoltà di economia tutto ciò che non è pensiero unico dominante è detto “eterodosso” manco fossimo a Teologia della Parigi del 1200! Gordon non credo lo citi nel suo libro ma la costante perdita di dominio geopolitico da parte occidentale e la relativa libera ascesa asiatica oggi, africana -si spera- domani (ovvero contesti che replicheranno la prima fase della curva perché partono quasi da zero), certo non aiuta una economia occidentale che perde il controllo delle materie prime e delle energie, de-localizza, perde punti nel nuovo mercato globale, perde sicurezza nell’export, diventa fin troppo ricettiva nell’import e tutto ciò che ci hanno spinto a fare negli ultimi trenta anni i sacerdoti del Washington consensus.
Insomma, secondo Gordon, per usare un meme di recente successo “la pacchia è finita!” ed i politici o gli intellettuali che pensano di curare tutte le sempre maggiori fratture del sistema sociale occidentale ordinato dall’economia della crescita invocando “Crescita! Luce in fondo al tunnel! Austerità espansiva!” sono come i preti che consolavano i morenti di peste ricordandogli che era la punizione di Dio per i peccati che pur non avevano commesso. Un mondo sta morendo, ma del nuovo non abbiamo ancora vista. Non è un caso che tanto i repubblicani quanto i democratici non amino Gordon, sono entrambi parti dello stesso sistema e la diagnosi fredda e solidamente argomentata del professore della Northwestern, è di quelle che pongono la crisi in modalità esistenziale, cioè dei fondamenti.
Che fare quindi, se assumessimo come vera questa diagnosi? Si tratta semplicemente di rivoluzionare il nostro modo di stare al mondo e formulare un nuovo contratto sociale. Lavorare meno ridistribuendo il lavoro che rimane, investire tempo nella formazione generale permanente, anche alla cittadinanza quindi al ritorno delle politica come prima attività sociale, rivedere il ruolo dello Stato in economia, rivedere il ruolo dell’economia nella società, ridistribuire pesantemente, prendere i soldi a chi ce li ha e trasformarli in welfare sapendo anche avremo legioni di vecchietti a cui far fronte (questo lo scrivo pro domo mia e della categoria a cui mi appresto ad iscrivermi, volente o nolente). “Vasto programma” direbbe qualcuno, ma forse non è più tempo di ironie e disincanti post-moderni. Se ci sono alternative tiriamole fuori, altrimenti questa volta il “There is no alternative!” lo dovremmo dire noi a coloro che ce lo hanno detto fino ad oggi.
Fonte: https://pierluigifagan.wordpress.com/2018/06/20/there-is-no-alternative/
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