Lo tsunami non conta: perché la Cina investe in Indonesia
di LIMES (Giorgio Cuscito)
Pechino finanzia le infrastrutture del paese arcipelago che, tra vulnerabilità geologica e rilevanza geostrategica, vorrebbe diventare un perno marittimo globale.
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La Cina è tra i primi paesi ad aver offerto il suo sostegno all’Indonesia, che sta affrontando una nuova crisi umanitaria. La settimana scorsa, una serie di tsunami e terremoti ha colpito la provincia del Sulawesi centrale, mietendo oltre 1.400 vittime. Mille persone sono disperse e i danni subiti sono pari a oltre 670 milioni di dollari. Secondo le Nazioni Unite, 191 mila persone (di cui il 56% situati nelle campagne) hanno bisogno urgente di assistenza.
Giacarta ha aperto al sostegno straniero, seppur con maggiore selettività rispetto a quella mostrata nel 2004, quando le vittime furono 120 mila. In quel caso, l’Indonesia aveva incassato 6 miliardi da 117 paesi, ma larga parte non è stata impiegata adeguatamente a causa dell’impreparazione del governo e al carente quadro regolativo in materia.
Se le vittime e i danni aumentassero, potrebbe innescarsi una nuova gara di solidarietà nei confronti dell’Indonesia. Motivata – oltre che dalla filantropia – dalla rilevanza geopolitica di questo paese (cerniera tra Oceano Indiano e Pacifico) e dall’intenzione delle potenze straniere (vedi Cina, Usa e Australia) di rafforzarvi il proprio soft power.
Di qui la solerzia della Cina. La Società della croce rossa cinese ha donato 200 mila dollari alla sua controparte indonesiana per contribuire alle attività di soccorso a Sulawesi. Oppo, azienda della Repubblica Popolare produttrice di telefoni cellulari, ha contribuito con circa 270 mila dollari per aiutare i sopravvissuti. L’azienda sino-indonesiana Pt imip ha inviato macchinari utili all’evacuazione degli abitanti dalle zone dove si è verificato il disastro naturale.
La Cina investe nelle infrastrutture dell’Indonesia per scardinare il cordone di paesi avversi (Corea del Sud, Giappone, Taiwan, Filippine e Malaysia) e basi Usa che chiude il Mar Cinese Meridionale e ostruisce il libero accesso dell’Impero del Centro all’Oceano Indiano e a quello Pacifico.
A prescindere dalla crisi umanitaria in corso, l’Indonesia ha invece bisogno di costruire strade, ferrovie e porti per migliorare la stabilità interna, far crescere la propria economia e ritagliarsi il ruolo di perno marittimo nel Sudest asiatico. Allentando l’influenza dei paesi stranieri. Questi obiettivi di lungo periodo cozzano con lo stato poco rassicurante dell’economia indonesiana.
Geopolitica dell’Indonesia
La priorità di Giacarta è preservare l’unità politica del paese, frammentato sul piano geografico, demografico e sociale. L’Indonesia (colonia olandese fino al 1945) si estende su un arco di 17 mila isole (con cento vulcani attivi) sul versante asiatico della cosiddetta “cintura del fuoco del Pacifico”, zona particolarmente soggetta a terremoti.
Questa posizione è sconveniente sul piano geologico, ma è estremamente rilevante su quello geostrategico. L’Indonesia rappresenta il punto di congiunzione tra Oceano Indiano, Oceano Pacifico e Mar Cinese Meridionale. In quest’ultimo bacino d’acqua, i suoi confini si sovrappongono in minima parte con quelli rivendicati dalla Repubblica Popolare. Qui non sono mancate tensioni legate alla presenza di pescherecci cinesi.
L’Indonesia è popolata da 300 etnie diverse. Il 60% degli abitanti vive sull’isola di Giava, che si affaccia sull’omonimo mare. Questo bacino d’acqua – ricco di petrolio, gas e pescato – è il fulcro del paese, perché collega Giava alle altre isole principali del paese: Sumatra a Ovest, Kalimantan (porzione indonesiana del Borneo) e Sulawesi a Nord e la Nuova Guinea a Est. L’indipendenza dichiarata da Timor Est nel 2002 (annessa da Giacarta nel 1976), la presenza del movimento indipendentista a Papua, i tentativi di separatismo in Aceh e le tensioni tra musulmani e cristiani a Sulawesi sottolineano l’instabilità interna di questo paese.
A tali dinamiche si aggiunge la minaccia jihadista. L’Indonesia è il paese con la più grande comunità musulmana al mondo ed è particolarmente impegnato nella lotta al terrorismo. Pechino e Giacarta hanno anche collaborato per bloccare il flusso di uiguri (musulmani e turcofoni) che fuggivano dalla regione cinese del Xinjiang. Questi raggiungevano il Sudest asiatico per poi salpare verso Occidente, entrare in Turchia e raggiungere la Siria.
La scarsa coesione interna rappresenta una vulnerabilità agli occhi delle potenze straniere quali Usa, Cina e Australia, che vorrebbero esercitare su di essa la propria influenza.
Le nuove vie della seta e il “perno marittimo” di Giacarta
In ragione della sua fragilità interna, Giacarta mantiene una posizione intermedia nel confronto tra Cina e Usa, limitando la collaborazione con Pechino agli accordi infrastrutturali e quella con Washington alla cooperazione securitaria (lotta al terrorismo e rafforzamento navale). Inoltre, non rinuncia a preservare i rapporti con il Giappone, suo tradizionale finanziatore.
Le relazioni sino-indonesiane si sono consolidate da quando il presidente indonesiano Joko Widodo ha assunto la carica, nel 2014. In quattro anni, Widodo ha visitato la Cina cinque volte. Il suo governo ora è criticato per non aver riattivato il sistema di allerta tsunami accantonato nel 2012.
La Repubblica Popolare è il primo partner commerciale dell’Indonesia. Inoltre, è il terzo paese per investimenti versati dopo Singapore e Giappone. Nel 2017, questi sono stati pari a 3.36 miliardi di dollari. Tra il 2000 e il 2014, la Repubblica Popolare ha fornito al paese arcipelago un totale di 17 miliardi di dollari per lo sviluppo di 86 progetti, la maggior parte infrastrutturali. In tale settore, lo scorso aprile i due paesi hanno firmato cinque contratti del valore di 23.3 miliardi di dollari. La Cina ha avviato la costruzione della linea ad alta velocità tra Giacarta e Bandung, ma le proteste locali sia per i danni al territorio sia per la presenza degli operai cinesi ne hanno rallentato lo sviluppo.
Pechino cura i rapporti con Giacarta perché utili al perseguimento di due obiettivi, collegati tra loro. In primo luogo, la Cina vuole disinnescare la strategia di contenimento attuata dagli Usa e dai suoi alleati per ostacolare geograficamente il suo libero accesso agli oceani. Negli ultimi mesi, le attività di navigazione e sorvolo statunitense attorno alle isole artificiali cinesi negli arcipelaghi Paracel e Spratly si sono intensificate, come conferma il recente incontro ravvicinato tra navi delle due potenze vicino all’atollo artificiale di Gaven. In secondo luogo, Pechino cerca di tracciare rotte commerciali da e per l’Occidente alternative a quella passante per lo Stretto di Malacca, controllato dagli Usa.
I risultati tuttavia non sono incoraggianti. Lo sviluppo del corridoio Cina-Pakistan è ostacolato dalla presenza dei ribelli baluci e degli attentati subiti dai cinesi attorno al porto di Gwadar. Il nuovo governo malaysiano ha cancellato i progetti concordati con Pechino, temendo che alimentassero il debito pubblico e l’influenza del Dragone nei propri affari domestici. Il Myanmar ha la medesima preoccupazione e perciò ha deciso di ridimensionare la cifra stanziata per lo sviluppo del porto in mare aperto di Kyaukpyu.
Diversa è l’attitudine di Widodo, che ha accolto la richiesta cinese di aderire alle nuove vie della seta per perseguire il suo disegno: trasformare l’Indonesia in un “fulcro marittimo globale” tramite un piano infrastrutturale da oltre 300 miliardi di dollari. L’incremento delle connessioni terrestri e marittime all’interno dell’arcipelago dovrebbe valorizzarne la posizione geografica, farne crescere l’economia e incentivarne la stabilità interna. Le imprese private – cinesi incluse – sono i maggiori finanziatori del piano indonesiano, ma dei 265 progetti solo 26 sono stati completati e 145 sono in fase di sviluppo.
I problemi economici dell’Indonesia sono diversi. Giacarta ha reperito solo la metà della cifra necessaria allo sviluppo del piano marittimo. Il tasso di crescita del pil non è aumentato dal 5 al 7% come aveva promesso Widodo.
Soprattutto, da quando questi ha assunto il ruolo di presidente, il debito pubblico ha registrato un incremento del 40%, passando da 210 a 295 miliardi di dollari. Il piano di potenziamento delle infrastrutture è uno dei fattori che ne hanno determinato l’aumento. Ad ogni modo il debito è pari al 29% del pil, quindi ben al di sotto di quello della Malaysia (54%) e della Thailandia (42%). Di qui la relativa tranquillità del governo circa l’impatto degli investimenti cinesi.
La vulnerabilità economica, la discutibile gestione della crisi umanitaria in corso, gli investimenti di Pechino e il malumore per l’eccessiva presenza di lavoratori cinesi rendono Widodo vulnerabile alle critiche dell’opposizione, che punta a spodestarlo alle elezioni generali fissate ad aprile.
Non è escluso che nel frattempo Widodo chieda alla Cina di rendere più trasparenti i suoi progetti e di coinvolgere maggiormente gli operai indonesiani. Per guadagnare voti senza rinunciare al suo piano marittimo.
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