Lo sfruttamento della manodopera straniera in agricoltura e il caso di Rosarno
di ECONOMIA E POLITICA (Elia Fiorenza)
1. Introduzione
È da oltre quindici anni che Rosarno, borgo di circa sedicimila anime adagiato nel mezzo della Piana di Gioia Tauro ed immerso in un paesaggio ben noto per la sua abbondanza in oliveti e agrumeti, costituisce la destinazione di migliaia di immigrati, per lo più clandestini, originari dell’Africa e dell’Europa dell’Est, che ivi vengono impiegati quali braccianti stagionali.
Questi uomini, costretti, per sopravvivere, alla raccolta di arance e olive a Rosarno, cipolle a Tropea, fragole a Lamezia nel periodo che intercorre tra novembre ed aprile, cadono sovente vittime di soprusi di spietati caporali i quali, consci che il lavoro nei campi rappresenti per loro la sola fonte di sostentamento, li costringono a condizioni disonorevoli, tanto per gli orari cui debbono sottostare quanto per la totale assenza di misure di tutela e sicurezza, senza trascurare la fatiscenza dei casolari abbandonati in cui si ritrovano a dimorare, impossibilitati ad usufruire sia di luce che di acqua.
Sottomesso ad uno sfruttamento dietro il quale si cela la gravosa presenza della criminalità organizzata, l’immigrato clandestino vive la misera condizione «dell’uomo nero che dimora nel mondo delle ombre, perché egli non esiste come persona, quindi non è soggetto di diritto. Spesso è proletario che lavora ma non ha diritto di parola, e senza la parola è un servo»; un servo, dunque, che «ha solo le sue braccia che lavorano come pale meccaniche e le sue mani che non possono parlare ma [che] si muovono alla ricerca dell’identità umana perduta».
Così com’è innegabile ritenere che, in Calabria, la questione dell’immigrazione e del lavoro in nero siano strettamente connessi a quella medesima ‘ndrangheta cui fa (anche) capo la proprietà della quasi totalità degli agrumeti della Regione, parimenti non è azzardato ritenere che nel medesimo contesto, in cui prolifera il germe del lavoro clandestino sommerso, abbia avuto origine, nel gennaio del 2010, la violenta ribellione degli extra-comunitari di Rosarno.
Più e più volte il Legislatore è intervenuto per occuparsi dell’annoso problema del lavoro sommerso nella Piana di Gioia Tauro e, in tal senso, la rivolta di Rosarno non ha fatto nulla di meno che amplificare l’urgenza con la quale, il suddetto problema, necessitava d’esser trattato; necessità, quest’ultima, confluita nell’emanazione della legge n. 248 del 4 agosto 2006, di cui l’art. 36, recante Misure urgenti per il contrasto del lavoro nero e per la promozione della sicurezza nei luoghi di lavoro, qualifica il lavoro nero come «[…] l’impiego di personale non risultate dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria».
Alla luce del dettato normativo citato, il sommerso comprende tutte quelle prestazioni sconosciute alla PA (rendendo, de facto, impossibile la determinazione del reale andamento dell’economia nazionale), esercitate da manovali non registrati presso alcun centro per l’impiego e, dunque, privi di qualsivoglia copertura tanto previdenziale quanto contributiva.
Trattandosi, come evidente, di un fenomeno invisibile, non è agevole ottenere una stima sull’economia sommersa che possa risultare quanto più prossima al reale; tuttavia, un dato risulta incontrovertibile, ed è quello che, elaborato dalla UIL per il Ministero del Lavoro, ha condannato, nel 2009, la Calabria all’infelice “primato del lavoro nero”: nell’anno citato, infatti, la Regione s’è distinta per un tasso di irregolarità del 24% il quale ha prodotto un fatturato sommerso di circa 5,5 miliardi di euro, con picchi raggiunti a Vibo Valentia e a Reggio Calabria, dove, rispettivamente, il 25,8% ed il 24,7% dei lavoratori operava in nero[1].
A ciò si aggiunga che, dagli anni Novanta ad oggi, la presenza dei lavoratori immigrati nelle campagne italiane è accresciuta a dismisura, passando, in base ai dati forniti dall’Istituto Nazionale di Agraria (INEA), da 23.000 braccianti nel 1989 a ben 172.000 nel 2007; un incremento, quest’ultimo, che evidenzia la rilevanza dei migranti per l’economia nazionale, in quanto i medesimi sono i soli, oggigiorno, a prestarsi alle attività stagionali nei campi. Quanto enunciato si riflette poi nel dato ISTAT che, nel 2007, ha posto la Calabria al primo posto (non nel Meridione ma nell’Italia intera) per il ricorso al lavoro agricolo irregolare (27,3% contro il 24,2% nazionale); dato, questo, dal quale si deduce che «il lavoro sommerso, prima di essere uno dei tanti mali della Regione Calabria, è anche un problema tutto italiano che costituisce il volto cupo del capitalismo, […] che forse nessuno vuole guardare»[2]
2. Il settore agricolo in Calabria e nella Piana di Gioia Tauro
In Calabria, l’agricoltura ha un peso pari al doppio della media nazionale in termini occupazionali e di reddito generato; specificamente, sono ivi presenti circa 137.000 aziende agricole, che costituiscono l’8,5% del totale nazionale, i cui tratti caratteristici sono la conduzione familiare e la specializzazione[3] nelle colture legnose: il 72% della forza lavoro è infatti costituito da membri del nucleo familiare, mentre il lavoro non familiare pesa per il 24% (di cui il 14% è composto da immigrati); nove aziende su dieci, inoltre, si dedicano esclusivamente alle colture legnose, tra cui olive, agrumi e vite, a scapito del settore zootecnico[4].
In particolare, la preminenza assunta dalle colture legnose determina il fabbisogno di manodopera solo in determinati mesi dell’anno: soprattutto nella fase della raccolta, non riuscendo a fronteggiare il lavoro con la sola manodopera familiare, tanto le piccole aziende (fino a 10 ettari di superficie agricola) quanto quelle medio-grandi (dai 10 ai 50 ettari), debbono far ricorso al lavoro non familiare, per più della metà composto da manodopera straniera[5].
Quest’ultima assume un ruolo rilevante anche nel settore zootecnico, il quale impiega circa 1.300 unità[6], pur presentando caratteristiche difformi dal settore agricolo: gli immigrati sono infatti ivi destinati a mansioni che necessitano d’esser adempiute quotidianamente, quali la cura di stalle e bestiame; tuttavia, tanto l’estesa giornata lavorativa quanto la magra paga hanno reso poco desiderabile il lavoro nella pastorizia agli occhi dei lavoratori autoctoni, i quali sono stati rimpiazzati da braccianti originari, per lo più, dell’India e del Pakistan[7].
Quanto agli immigrati di origine africana, invece, questi sono impiegati nei settori delle colture arboree (olive e agrumi) e di quelle ortive (pomodori, finocchi, patate) prevalentemente nei periodi di raccolta, soggiacendo ad orari di lavoro rigidamente lunghi (la media è di 10 ore al giorno) e a fronte di compensi al di sotto del minimo sindacale (25 euro al giorno circa)[8]. Al Meridione, dunque la presenza di braccianti sottopagati costituisce elemento dirimente ai fini della conduzione della raccolta a termine: mentre al Nord, infatti, tale fase è stata, nel tempo, sottoposta a radicali processi di meccanizzazione, al Sud, la medesima, continua ad esser svolta a mano[9].
Nonostante il settore agricolo offra opportunità di lavoro (in Calabria come in tutto il Meridione), i disoccupati autoctoni, soprattutto se di giovane età, difficilmente sono disposti ad accettare un impiego nei campi, citando, tra le cause dell’indisposizione, la retribuzione inadeguata, l’impossibilità di far carriera e l’inesistenza di garanzie contrattuali; invero, l’offerta di lavoro nel settore agricolo, risultando precaria, pesante, pericolosa, poco pagata e penalizzata socialmente, è oggigiorno soddisfatta da una quota di braccianti immigrati che, di anno in anno, si arricchisce in modo consistente.
Il Leogrande ha, non a caso, fatto ricorso alla formula «Rivoluzione antropologica del Mezzogiorno rurale»[10] per descrivere il notevole incremento di stranieri impiegati nell’espletamento, non di tutte ma solo di parte, delle mansioni nei campi, tra cui la l’allevamento del bestiame, la coltivazione in serra, la raccolta di pomodori, angurie, fragole; si è innescata, sì, una rivoluzione, ma in termini sostitutivi, in quanto il trattamento che in passato era riservato ai c.d. cafoni[11] è oggi vissuto dalla manodopera straniera: i cafoni, dunque, parlano oggi una lingua diversa, sono di carnagione più scura data la loro provenienza, ma le condizioni di vita che caratterizzano questo bacino di manodopera non hanno conosciuto alcun miglioramento rispetto ad un secolo fa.
Oltre che dall’assenza di canali di reclutamento regolari, la sostituzione della manodopera locale con quella straniera è stata favorita dal carattere stagionale delle colture intensive specializzate, le quali abbisognano di braccianti per ettaro impiegati in modo aritmico durante l’anno[12]; la stagionalità, dunque, vincola il lavoratore ad un’estrema flessibilità, tanto nella gestione delle ore di lavoro quanto negli spostamenti[13], per poter seguitare il ciclo delle colture, di cui la raccolta, sovente, si concentra in un arco temporale compreso tra i quaranta e i sessanta giorni[14]: invero, non è infrequente che il medesimo bracciante sia impegnato, tra novembre e marzo, a Rosarno per la raccolta degli agrumi e in Sicilia per quella dei tuberi, e di seguito nel casertano per quella degli ortaggi[15]; ancora, in estate, nel salernitano per cogliere pomodori e pesche e nel materano per la raccolta dei meloni, per (poi) spostarsi, in autunno, in Puglia per la raccolta di uva e olive e, infine, nuovamente a Salerno a raccogliere finocchi[16].
Nella Piana di Gioia Tauro, l’agricoltura rappresenta il settore di punta dell’economia locale: ne è il riflesso la presenza, sul territorio, di piccole aziende[17], che impiegano una quantità di lavoro per ettaro maggiore rispetto alla media regionale[18], il cui core business è la coltura degli agrumi.
Nonostante tale preminenza, tuttavia, le aziende che ivi operano sono ancor oggi ben distanti dalla modernizzazione che ha conosciuto il settore agricolo nel Settentrione, caratterizzandosi per una dotazione d’impianti obsoleti e per una struttura organizzativa disorganica; fattori, questi, che hanno fortemente inciso nel generare e rafforzare un legame di dipendenza con l’industria trasformativa, considerata unico sbocco possibile per dare continuità alla raccolta (prima) e alla fornitura (poi) di agrumi. Il medesimo rapporto di dipendenza ha, tuttavia, acuito la crisi del settore agrumicolo che affligge la Piana fin dagli anni Ottanta[19] e che, la Coldiretti, ha stimato abbia cagionato, solo negli ultimi quindici anni, la perdita di oltre seimila ettari di coltivazioni[20]: l’industria di trasformazione, infatti, forte d’esser l’unica fonte di sopravvivenza per le aziende produttive, ha, nel tempo, profittato del proprio potere di mercato per imporre alle suddette aziende un prezzo di vendita degli agrumi di 0,08€/kg, che non permette neppure di coprire i costi di produzione che, mediamente, si attestano intorno ai 0,15€/kg.
Per sopravvivere in un mercato sempre più internazionale, pur di non ricorrere ad investimenti atti a meccanizzare la produzione agricola[21], gli imprenditori agricoli hanno agito riducendo il costo dell’unico fattore produttivo sul quale hanno pieno controllo: la forza lavoro.
Un impiego nel settore agricolo si rivela, per certi versi, congeniale per talune categorie di stranieri: l’insufficienza dei controlli è, infatti, vantaggiosa per tutti quei migranti i quali non sono in possesso di un regolare permesso di soggiorno, così come (vantaggiosa) risulta la facilità d’accesso ad alloggi di fortuna per coloro che, non potendo stipulare un contratto d’affitto regolare a causa del soggiorno irregolare o della misera paga, sono disposti ad accamparsi insieme ad altri braccianti, sopportando indegne condizioni di vita in spazi insalubri[22].
Non è un caso che sia stato stimato che il 40% circa degli immigrati in Calabria viva una situazione di disagio abitativo grave o estremo[23], confinato in ghetti e sottoposto ad un regime di «seclusione»[24] il quale «rafforza la sovrapposizione di lavoro, tempo libero, riposo e più in generale la riproduzione della vita quotidiana […] in un unico luogo»[25]:
invero, questi, costretti a vivere nel medesimo spazio ristretto tanto il turno di lavoro quanto le (esigue) occasioni legate al tempo libero, si ritrovano lontani da tutto e tutti, confinati in uno stato di eccezione «[che] non è una dittatura, ma uno spazio vuoto di diritto, una zona di anomia in cui tutte le determinazioni giuridiche sono disattivate»[26].
I migranti che si stabiliscono in questi distretti rurali della clandestinità[27] non differiscono gli uni dagli altri solo per il paese d’origine, facendo, ognuno di essi, riferimento ad una situazione amministrativa sovente irregolare relativa tanto all’ingresso quanto al soggiorno in Italia[28]: la distanza dagli agglomerati urbani, invero, determinando, di riflesso, l’inefficacia di ispezioni e controlli, rende le aree rurali il nascondiglio ideale per coloro i quali, pensando di incontrare uno Stato meno vigile, in realtà, sovente, s’imbattono in tessuti sociali ciecamente violenti.
Scenario di svariate ed inimmaginabili aggressioni è stata la Cartiera di Rosarno: prima dei fatti del 2010, infatti, oltre seicento operai alloggiavano in quella che avrebbe dovuto essere la fabbrica Modul System[29]per la produzione di moduli per telescriventi ma che, in realtà, non essendo mai entrata in funzione, è stata adibita a rifugio (prevalentemente) invernale per la manodopera impegnata nella raccolta degli agrumi; nel 2009, tuttavia, quando un’ordinanza comunale ha disposto che fosse murata[30], i braccianti sono stati costretti a muovere verso un ex oleificio, l’Opera Sila, a 5km dal centro-città, trovando riparo nei silos per l’olio[31].
Quel che è avvenuto a Rosarno ciclicamente si ripete in altre aree del Mezzogiorno, richiamando l’attenzione sulla condizione di sfruttamento cui sono sottoposti i braccianti e rendendo la questio sulla rivoluzione antropologica enucleata dal Leogrande più evidente al Sud piuttosto che al Nord; tuttavia, episodi di limitazione della libertà personale e di violazione dei diritti umani sono sempre meno circoscritti alle regioni meridionali e, anzi, caratterizzano oggi l’intero settore agricolo a livello nazionale[32].
3. I fatti di Rosarno
Nella Piana di Gioia Tauro, specificamente in provincia di Reggio Calabria, Rosarno conta non più di quindicimila abitanti articolati in circa cinquemila famiglie, di cui la metà vive del reddito prodotto dal lavoro nei piccoli appezzamenti agricoli proprietari.
L’area e di Rosarno e, ad essa, circostante è ben nota ai più per le condizioni di esclusione che affliggono la manodopera straniera ivi impiegata, prevalentemente nei mesi freddi, nella raccolta degli agrumi, all’interno di un sistema economico-sociale controllato dalla ‘ndrangheta attraverso la minaccia e la perpetrazione di atti di violenza generalizzata: prima della rivolta del 2010, infatti, oltre 400 immigrati erano spazialmente segregati presso la Rognetta, ex stabilimento produttivo di succo d’arancia per la Fanta, mentre altri 600, sgomberati dalla Cartiera, avevano trovato rifugio nell’ex Opera Sila.
Tra il 7 e il 9 gennaio 2010, Rosarno diviene teatro di scontri tra immigrati africani e parte della comunità autoctona; il 7 gennaio, tre braccianti, mentre procedevano a piedi sul fianco della Strada Statale 18 per far ritorno dai campi all’Opera Sila, sono avvicinati da un’auto di grossa cilindrata con a bordo due ragazzi che scaricano, con un fucile ad aria compressa, dei colpi contro i tre immigrati, provocando il ferimento alla pancia di Ayiva Saibou, rifugiato politico togolese in possesso, peraltro, di regolare permesso di soggiorno.
Sebbene il ferimento di Ayiva non avesse destato particolare preoccupazione, la volontà di reagire, che da tempo covava nelle colonie dei lavoratori ammassati in condizioni al limite della tollerabilità, non impiegò molto ad esplodere: dall’Opera Sila venne fatta giungere, ai lavoratori insediati nella Rognetta, la mendace notizia che quattro migranti fossero stati uccisi; la sera stessa, circa un migliaio di africani, marciando dai propri insediamenti, manifestò il proprio rancore rivoltandosi contro la popolazione locale e indirizzando ciecamente la collera contro le vetrine dei negozi, le automobili, i cassonetti dell’immondizia[33].
Anche la reazione dei rosarnesi, fomentati dall’infondata notizia che i rivoltosi avessero percosso una donna incinta, non tardò a manifestarsi: munite di spranghe e bastoni, ronde autonome diedero inizio ad una vera e propria caccia al nero, gambizzando, mentre erano dirette in spedizione punitiva verso l’Opera Sila, due braccianti in cammino verso il comune di Laureana di Borrello e ferendone un altro all’avambraccio con proiettili da caccia[34].
In ventiquattro ore si registrarono trentasette feriti: diciotto tra le forze dell’ordine, le quali si erano efficientemente disposte per evitare che lo scontro diretto sfociasse in una vera e propria guerriglia urbana, e diciannove tra i migranti. I rosarnesi, ritenendo che «per puro miracolo non ci [fosse] scappato il morto, da un lato e dall’altro»[35] additarono il Prefetto di non aver solertemente allontanato i lavoratori africani; tuttavia, il 9 gennaio, un bilancio di cinquantatré feriti, oltre che di centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e rovesciati sull’asfalto, ringhiere di abitazioni danneggiate, convinse le Autorità competenti a disporre la demolizione della Rognetta[36] e a trasferire la maggior parte dei migranti verso il Centro di Identificazione ed Espulsione (CIE) di Crotone e Bari, pur con non poche accuse di pulizia etnica.
Per coloro i quali ivi permasero, nel febbraio 2012, la Protezione Civile allestì, nel comune di San Ferdinando, una tendopoli che avrebbe potuto ospitare fino a 400 persone[37]; non trascorse tuttavia molto tempo prima che, nei dintorni della medesima, i braccianti stessi, non riuscendo a trovare alloggio in quella ufficiale[38], costruissero alloggi di fortuna con materiali di scarto. A seguito del rapporto, datato dicembre 2013, dell’Asl locale, la quale denunciava condizioni di promiscuità abitativa, carenza di elettricità e servizi igienici, mancanza di riscaldamento e acqua potabile, alimentazione scorretta o insufficiente, emarginazione sociale, il Sindaco Tripodi dispose lo sgombero e l’abbattimento della tendopoli: l’evento determinò lo spostamento in massa dei braccianti verso la Fabbrichetta, un rudere nei pressi di Rosarno, la quale, oltre che per la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie, presentava pessime condizioni di sicurezza, acuite dal massiccio utilizzo di bombole a gas cui gli immigrati ricorrevano per riscaldarsi e cucinare.
Attraverso l’impegno di quattro operatori della Caritas, la Regione tentò di garantire una costante attività di monitoraggio sul territorio, la distribuzione di pasti ai braccianti, la fornitura di servizi di pulizia nonché il ripristino della rete elettrica; nonostante ciò, tuttavia, molti immigrati continuarono a vivere condizioni di estremo disagio abitativo, costretti a dormire, su pezzi di cartone, per terra e senza accedere ad alcuna fonte di luce, se non quella proveniente da generatori funzionanti ad intermittenza[39]. Le circostanze convinsero la Regione a intervenire disponendo, nel 2016, l’inizio dei lavori di costruzione di una tendopoli a norma[40], la quale avrebbe potuto ospitare fino a 600 persone e (che) sarebbe stata dotata di rete fognaria, elettrica ed idrica, tende ignifughe, servizio di lavanderia e di raccolta differenziata: ebbe dunque inizio «un lungo iter burocratico col protocollo operativo sottoscritto tra la Prefettura, la Regione, la Provincia di Reggio, la Croce Rossa Italiana, i comuni di San Ferdinando e Rosarno, la Caritas diocesana di Oppido-Palmi e gli organismi umanitari di Emergency e Medu»[41] il quale, culminando nello smantellamento della vecchia tendopoli e nella realizzazione di quella nuova, avrebbe dovuto costituire il principio attuativo di iniziative atte a favorire «l’integrazione abitativa dei lavoratori migranti»[42], sulla scia di quanto stava già realizzando, poco distante da Rosarno, Mimmo Lucano nel riacese.
Quest’ultimo, invero, dal primo sbarco, avvenuto nel 1998, dei curdi sul litorale di Riace Marina, operò alacremente non limitandosi al “mero” soccorso umanitario dei richiedenti asilo ma, bensì, aspirando a contrastare, attraverso lo sviluppo di relazioni antropiche tra la sua terra e i migranti, lo spopolamento antropico che affliggeva Riace: il modello promosso dal Lucano, che nel 2004 divenne anche primo cittadino del comune reggino, favorì non solo il capovolgimento della tendenza demografica negativa e la creazione di una nuova comunità (nata dall’incontro tra autoctoni e immigrati), ma anche, e soprattutto, il rilancio dell’economia locale[43].
I fatti di Rosarno del 2010 non sono il frutto di un episodio di gratuita violenza ma, bensì, un atto di opposizione contro le ingiustizie inflitte, dagli anni Novanta, ai braccianti africani in un ambiente in cui si combinano sfruttamento e razzismo mafioso, che sovente culminano in azioni sconcertanti e perverse perpetrate da giovanetti della criminalità locale contro gli immigrati: ne sono il triste esempio il c.d. gioco dei sassi, che consiste nel riuscire a colpire gli africani da un cavalcavia, e l’andare per un marocchino, prendendo a bastonate, ai bordi delle strade, quegli sfortunati che si trovano a passar di lì. Ad ogni modo, oggigiorno, della rivolta dei migranti e della contro-rivolta dei rosarnesi restano le indelebili cicatrici nell’animo di coloro che vi presero parte e, sulle mura dell’Opera Sila, l’emblematica frase «Avoid shoting blacks. We will be remembered»[44].
4. I signori delle braccia. Il fenomeno del caporalato
Quanto accaduto a Rosarno ha posto sotto la lente d’ingrandimento un fenomeno che, da oltre un secolo, affligge l’Italia: il caporalato.
Trattasi di una forma illecita di reclutamento ed organizzazione della manodopera[45], nella quale il caporale agisce da intermediario, per conto di un imprenditore-datore di lavoro e percependo una tangente (detratta dalla paga dei braccianti), nell’assunzione di manovali giornalieri, al di fuori dei regolari canali di collocamento e senza alcun riguardo per la normativa vigente circa i salari orari minimi.
Nonostante, nel 1919, il Legislatore avesse dichiarato l’illiceità dell’intermediazione del lavoro e, di seguito, le organizzazioni sindacali avessero iniziato a contrastare fortemente il caporalato, in realtà tale si è evoluto e si è adattato alle trasformazioni economiche globali, motivo per il quale, oggigiorno, non si fatica a considerarlo tra i più limpidi prodotti della modernizzazione che hanno caratterizzato il settore agricolo: in particolare, la trasformazione capitalistica dell’agricoltura, che ha determinato il superamento del latifondo, ha, di fatto, accentuato la necessarietà della presenza di un intermediario in grado di costituire squadre di braccianti, coordinarne il lavoro nei campi ed organizzarne gli spostamenti stagionali (anche da una Regione all’altra).
In territori come quelli della Piana del Sele, agli albori del XX secolo, il caporale assunse dapprima il ruolo di mediatore sociale: questi era una figura rispettabile, sovente un esponente politico, perfettamente addentro alle dinamiche socio-territoriali e, dunque, in grado di destreggiarsi e mediare tra le istanze dei braccianti (da un lato) e dei latifondisti (dall’altro); quando, tuttavia, a seguito delle riforme agrarie, la cui ratio, come noto, risiedeva in una più equa distribuzione delle terre dai più grandi ai più piccoli proprietari, il sistema del latifondo fu surclassato, la figura del caporale mutò, seguitando alla modernizzazione dell’agricoltura e dell’industria trasformativa, le quali richiedevano manovalanza in gran numero, e continuò a rivelarsi di gran valore.
In Calabria, invece, forte della sua connessione alla ‘ndrangheta, il caporale assolve ad una funzione di moderatore delle tensioni sociali: ivi, questi è riuscito a dar vita ad un mercato del lavoro parallelo a quello regolare (che poggia sugli uffici di collocamento e sulle organizzazioni sindacali), ingaggiando manodopera iscritta presso le liste di pertinenza e/o beneficiaria di sussidi di disoccupazione, sfruttando la circostanza che, per tali manovali, un lavoro stagionale, benché sottopagato, costituisca meramente un’integrazione al reddito che già percepiscono dallo Stato[46]. In tal senso, il caporale detiene un potere assoluto sulla vita del bracciante, del cui destino egli è artefice, stabilendo chi può accedere al lavoro, l’importo della retribuzione, il luogo in cui alloggiare e, persino, procurandogli cibo e farmaci: favorito dalla misera condizione di segregazione spaziale cui i braccianti soggiacciono, il caporale è il solo punto di riferimento per quest’uomini per i quali la necessità di lavorare è l’unico contrappeso per sostenere il fardello dei ricatti cui sovente sono sottoposti.
Diversamente da quanto erroneamente si potrebbe ritenere, il caporalato non è espressione di una forma d’agricoltura arcaica ma, bensì, è il riflesso delle trasformazioni capitalistiche che hanno investito le filiere agricole, bruscamente dirottate su mercati internazionali di cui subiscono prezzi[47] e concorrenza[48]; parimenti, si tratta di un fenomeno fortemente disomogeneo, che ha saputo (non solo) conformarsi ai tratti territoriali che hanno storicamente caratterizzato la penisola ma (anche) dimostrarsi funzionale alla gestione dei flussi migratori nazionali ed internazionali.
Tipico del rosarnese è il caporalato c.d. etnico, che si caratterizza quale sfumatura di un fenomeno sensibilmente condizionato dalla stagionalità delle colture e fortemente caratterizzato dalla gerarchizzazione delle pratiche di lavoro: la funzione di caporale è ivi ripartita tra un capo bianco, che si relaziona con gli imprenditori agricoli, e svariati capi neri ai quali è, invece, assegnato il compito di formare le squadre di braccianti[49]. Specificamente, il capo bianco è sovente un lavoratore che, negli anni, è riuscito a tessere una fitta rete di giusti contatti con gli esponenti della politica locale, che gli hanno conferito, agli occhi dei manovali, quell’autorevolezza che gli permette (da un lato) di garantire alle aziende agricole il corretto svolgimento del lavoro nei campi, di cui stabilisce orari e modalità d’esecuzione, e (dall’altro) di sottoporre a stringenti pressioni psicologiche i braccianti sfiniti, di cui peraltro determina arbitrariamente la paga giornaliera[50]; quanto ai capi neri, a ciascuno dei quali viene assegnato un ettaro in cui insiste una coltura intensiva, questi generalmente s’interessano di trovare un alloggio alla propria squadra di braccianti, il più delle volte in casolari fatiscenti, disabitati e distanti dai centri abitativi[51], ai quali (non di rado) erogano il servizio mensa (decurtandolo ulteriormente dal salario finale), destinando a tale incarico le proprie mogli.
Ancora, il capo nero medesimo è ben consapevole dei meccanismi di sfruttamento della manodopera non solo perché, a lungo, ha risieduto nel territorio ma soprattutto perché, sovente, in prima persona si è ritrovato a vivere sulla propria pelle la condizione di bracciante: sottoposta all’autorità di un caporale italiano, dunque, l’intermediazione del capo nero è, dai più, definita «di secondo livello»[52] in quanto quest’ultimo riferisce direttamente al capo bianco il quale, a sua volta, si relaziona con gli imprenditori agricoli.
Quanto alla retribuzione dei manovali, tale può essere tanto a cottimo (nel caso in cui questi fossero pagati in base al numero di cassoni riempiti) quanto a giornata, non attestandosi, in ogni caso, oltre i venti euro al giorno; ad ogni modo, non è mai l’imprenditore agricolo a pagare i manovali: in base ad un accordo previamente stipulato, infatti, egli consegna al caporale una somma di danaro la quale, decurtata dell’ammontare da quest’ultimo trattenuto, viene poi suddivisa tra i braccianti[53].
Nelle recenti forme di caporalato etnico, non è infrequente che la relazione che s’instaura tra caporale e braccianti sia tutt’altro che conflittuale: vivendo una condizione di forte disagio, i braccianti assurgono il caporale a modello di riferimento dall’indiscutibile autorità, in forza del suo esclusivo potere di mediare tra le loro ragioni ed il mondo circostante[54]; in altri casi, ove il rapporto non sfoci nell’odio cagionato dalla ripetitività dei soprusi e dal ritardo nei pagamenti, consci di non poter entrare direttamente in contatto con l’imprenditore agricolo, i braccianti considerano la figura del caporale quale strumentale all’attività d’intermediazione nel procurar loro lavoro, vitto e alloggio. In entrambi i casi, comunque, il caporale non è che uno degli ingranaggi di un collaudato meccanismo di sfruttamento che, strutturato su regole proprie, coinvolge imprenditori, aziende e organizzazioni criminali.
5. La legge Rosarno. Ratio Legis e risultati fallimentari
Nel 2009, l’Unione Europea ha emanato la c.d. Direttiva Sanzioni[55] che poneva un veto all’impiego di lavoratori migranti extra-europei in condizione di irregolarità e disponeva provvedimenti sanzionatori verso i datori di lavoro negligenti.
La Direttiva, sorretta dal presupposto che «la possibilità di trovare lavoro nell’Unione europea, pur non avendo lo status giuridico richiesto»[56] costituisse un fattore d’attrattiva per tutti i migranti irregolari, imponeva agli Stati membri di vietare, mediante la propria legislazione nazionale, il reclutamento dei suddetti e di punire severamente i datori di lavoro irrispettosi del dettame normativo, comminandogli sanzioni pecuniarie ed amministrative (finanche penali[57]), tra cui l’esonero dalla partecipazione agli appalti pubblici e dai fondi europei, nonché il ritiro delle autorizzazioni necessarie all’esercizio dell’attività d’impresa; ancora, gli Stati membri erano chiamati ad assicurare l’esistenza di canali attraverso i quali i lavoratori migranti potessero sporgere denuncia, direttamente o mediante il ricorso alle organizzazioni sindacali, contro i datori di lavoro ed ottenere l’esecuzione della sentenza (anche nel caso in cui fossero stati rimpatriati nel proprio paese d’origine[58]) al fine di conseguire la corresponsione delle retribuzioni arretrate, congiuntamente ai contributi previdenziali[59].
Al fine di dare attuazione alla Direttiva Sanzioni, il Legislatore italiano ha emanato, nel luglio 2012[60], il Decreto Legislativo n. 109[61], ai più noto come Legge Rosarno, che istituiva meccanismi di tutela dei migranti irregolari vittime di sfruttamento lavorativo; prima d’esso, il Testo Unico sull’Immigrazione già vietava il ricorso ai braccianti clandestini, punendo il datore di lavoro con una sanzione pecuniaria di cinquemila euro per ogni lavoratore irregolarmente impiegato ed il carcere per un periodo da sei a mesi fino a tre anni[62]. Alle suddette sanzioni, la Legge Rosarno ha aggiunto l’obbligo, in capo al datore, di farsi carico degli oneri relativi al rimpatrio del lavoratore[63] e, inoltre, ha individuato, nelle seguenti tre condizioni lavorative[64], la sussistenza del carattere «di particolare sfruttamento»: «[…] (a) i lavoratori reclutati sono in numero superiore a tre; (b) i lavoratori reclutati sono «minori in età non lavorativa»; (c)[65] i lavoratori reclutati sono sottoposti alle altre condizioni lavorative di particolare sfruttamento di cui al terzo comma dell’articolo 603-bis del codice penale»[66].
Oltre al fatto che il primo dei requisiti enunciati, peraltro di natura quantitativa, delinea un regime in base al quale lo sfruttamento è considerato “grave” nel solo caso in cui, a subire tale condizione, siano più di tre persone (non bastandone una), è da evidenziare come le “condizioni lavorative di particolare sfruttamento” disposte dalla Legge Rosarno appaiano più restrittive di quelle descritte nella Direttiva, considerato che la disposizione italiana in oggetto non contempla né i casi di sfruttamento lavorativo derivanti da discriminazione razziale né l’ipotesi di cui all’art. 2 della Direttiva, che sussista «una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide […] sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana»[67].
Ancora, la definizione di “condizioni lavorative di particolare sfruttamento” non risulta neppure conforme a quella di “sfruttamento lavorativo”, di cui all’art. 603-bis[68] del Codice penale, qualificato dalla sussistenza di quattro fattori:
«[…] (a) la sistematica retribuzione dei lavoratori in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o […] sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
(b) la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; (c) la sussistenza di violazioni della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale; (d) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative particolarmente degradanti»[69].
Dunque, in più parti, la Legge Rosarno ha tralasciato l’attuazione di disposizioni-chiave della Direttiva Sanzioni o ne ha compresso la portata applicativa, determinando dei vuoti normativi che hanno significativamente minato l’efficacia della Legge nell’assolvere alla sua ratio: tutelare i lavoratori migranti vittime di sfruttamento. In primis, la Legge non è riuscita né a creare quei “canali sicuri” che favorissero i braccianti clandestini a denunziare i propri datori di lavoro (tanto direttamente quanto mediante il ricorso ai sindacati o ad altre organizzazioni della società civile)[70], né (è riuscita) a porre in essere quei meccanismi tali da assicurare ai suddetti lavoratori il pagamento delle retribuzioni arretrate, anche nei casi in cui i migranti fossero tornati al paese d’origine o rimpatriati[71]; in secundis, la Legge Rosarno non ha istituito, a carico dei datori di lavoro che sfruttino migranti irregolari, sanzioni amministrative aggiuntive, quali l’esonero dalla partecipazione agli appalti pubblici, il rimborso di (talune o tutte) le prestazioni o le sovvenzioni o gli aiuti pubblici concessi, la cessazione dell’attività d’impresa con, annesso, il ritiro delle licenze necessarie allo svolgimento della medesima[72].
Da quanto asserito, non è eccessivo ritenere che la Legge Rosarno non sia stata in grado di annullare quelle criticità che impediscono, ai lavoratori migranti irregolari, di accedere alla giustizia: così com’è necessario considerare che la transitorietà tipica delle relazioni lavorative nel settore agricolo (peraltro tipicamente basato sulla stagionalità della raccolta) renda ostica l’identificazione, da parte del lavoratore sfruttato, del proprio datore di lavoro, parimenti bisogna riconoscere quanto sia inusuale che un clandestino conosca le generalità del suddetto datore, dal momento che sovente capita che quest’ultimo cambi ogni giorno o che un caporale agisca illecitamente da intermediario tra le parti. Ancora, il requisito della cooperazione nel procedimento penale contro il datore di lavoro contrasta con l’elemento della mobilità connaturato nel lavoro dei braccianti agricoli: questi, infatti, sovente seguono, in giro per l’intero Paese, le esigenze stagionali della raccolta, stabilendosi in Calabria in inverno per la raccolta degli agrumi, per poi muovere verso la Puglia, in estate, per quella dei pomodori e delle angurie; a tal proposito, basta aver consapevolezza della durata media di un procedimento penale in Italia per dedurre le difficoltà in cui incorrerebbe un lavoratore migrante se dovesse stanziarsi, nel medesimo luogo, tanto a lungo da poter riuscire a collaborare con la giustizia.
Il medesimo diritto di accesso alla giustizia è stato, inoltre, significativamente indebolito da quando, nel maggio del 2008, il governo italiano ha varato una serie di misure legislative emergenziali note sotto il novero di pacchetto sicurezza il quale, al fine di «contrastare fenomeni di illegalità diffusa legati all’immigrazione illegale e alla criminalità organizzata»[73], ha istituito il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato[74], in forza del quale ogni pubblico ufficiale[75] che abbia preso conoscenza di una situazione migratoria irregolare sia obbligato a denunziarla presso le autorità giudiziarie competenti. Ne conviene che qualsiasi lavoratore intenzionato a denunciare un abuso o un sopruso si espone fortemente al rischio d’esser accusato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio italiano, detenuto e, infine, rimpatriato; una fattispecie, questa, che acuisce la riluttanza e la ritrosia di quei lavoratori che, pur intenzionati a cooperare con la giustizia, sono consci d’esser suscettibili d’identificazione quali migranti irregolari.
La Legge Rosarno non ha affrontato, con le dovute misure, il fenomeno dello sfruttamento lavorativo in Italia, partecipando anzi alla compromissione dell’efficacia di qualsivoglia intervento atto ad alleviare la condizione di sfruttamento che affligge sempre più migranti, disposti, pur di sopravvivere, a soggiacere a circostanze disonorevoli e disdicevoli; è ad oggi innegabile, dunque, che la Legge rappresenti l’ennesimo tentativo fallito di compiere quei «passi necessari verso un modo più completo di affrontare le serie violazioni dei diritti dei migranti presenti nel paese»[76].
Conclusioni
Addurre le «cause dei drammatici fatti di Rosarno»[77] alla natura aggressiva dei clandestini (da un lato) e al razzismo dei calabresi (dall’altro) costituirebbe nulla più che un’interpretazione superficiale e completamente inadeguata ai fini della piena comprensione dell’evento.
Il cuore del problema risiede invero nella crisi di un settore, quello agricolo, sul quale insiste gran parte del sistema produttivo della Calabria: le aziende locali dell’agro-alimentare risentono fortemente di quella penuria normativa che riflette manifestamente l’insensibilità istituzionale verso l’adozione di politiche mirate a valorizzare un territorio prospero di risorse e di cui esaltarne l’elevata qualità e la tipicità: esemplare è, al riguardo, la soluzione cui, dopo i fatti del 2010, è giunto un gruppo di agricoltori i quali, intenzionati a «rispondere alla sofferenza costruendo speranza e opportunità»[78], hanno costituito l’Associazione SOS Rosarno.
In un contesto in cui gran parte del potere di mercato è detenuto dalla Grande Distribuzione e dalle Multinazionali, l’Associazione fa del ricorso alla filiera corta e alla vendita diretta al consumatore i propri punti di forza: specificamente, se, da un lato, la filiera corta permette ai produttori di conseguire un apprezzabile margine di guadagno[79], dall’altro la conoscenza diretta tra produttore e consumatore, oltre che offrire a quest’ultimo la possibilità di acquistare prodotti etici[80], favorisce un confronto continuo sulla qualità dei prodotti medesimi[81].
In un territorio in cui, più e più volte, la conduzione di iniziative di sviluppo etico è stata fortemente osteggiata, SOS Rosarno ha saputo imporsi dapprima come realtà consapevole delle esigenze delle comunità locali e, in seguito, a livello nazionale, come modello cui attingere per strutturare un percorso coerente col principio della sovranità alimentare[82] e distante da qualsivoglia forma di sfruttamento della manodopera straniera.
È dall’agricoltura, dunque, che bisogna ripartire non solo «per rilanciare l’economia locale»[83] ma soprattutto per riuscire a tenere il passo dei frenetici e massicci cambiamenti che la globalizzazione produce; e non si può che farlo indirizzando gli investimenti pubblici verso il rinnovamento dei processi produttivi del settore agricolo, (verso) l’implementazione delle colture biologiche e delle dotazioni infrastrutturali, di cui la Regione è indubbiamente carente.
Quanto alle misure atte a contrastare e ridimensionare il lavoro sommerso, necessarie alla parziale risoluzione delle criticità che affliggono tanto la Piana di Gioia Tauro quanto quella del Sele o di Sibari, oggi più che mai si richiede che le istituzioni non si limitino a sporadici interventi emergenziali ma, piuttosto, a garantire quella presenza costante sul territorio che possa favorire gli interessi di tutti i players della filiera.
Di contro, bisogna parimenti riconoscere che l’assenza di tutele in favore dei lavoratori, soprattutto se immigrati, è giovata da quella frammentarietà che contraddistingue le aziende irregolari e che, di certo, non favorisce l’intervento delle organizzazioni sindacali nel salvaguardare i diritti dei suddetti; a ciò si aggiunga poi il ruolo di primissimo piano giocato dalla ‘ndrangheta nell’acuire la clandestinità, attraverso il traffico di permessi di soggiorno irregolari ancor prima dello sfruttamento del lavoro nero.
Giacché «i flussi migratori rappresentano un prezioso capitale umano per [efficientare] la produttività»[84], le leggi sull’immigrazione, piuttosto che disporre misure per contrastare il fenomeno, dovrebbero favorire l’acquisizione della cittadinanza da parte degli extra-comunitari e, solo in seguito, il loro regolare inserimento nel mondo del lavoro. D’altro canto, la gente di Calabria è ben nota per la sua ospitalità nei confronti degli stranieri; ne è l’esempio Riace, paese dell’accoglienza[85] distante solo 60km da Rosarno, in cui, grazie all’impegno profuso dall’ex sindaco Domenico Lucano, sono state attivate pratiche di inclusione che hanno costituito l’impulso alla rivitalizzazione di servizi e mestieri che rischiavano di scomparire per sempre: è il caso della raccolta differenziata porta-a-porta[86], dei servizi scolastici[87], ma anche della realizzazione di attività d’impresa basate sulla lavorazione artigianale del legno, del vetro soffiato e pressofuso, della ceramica, delle confetture[88].
Quanto esposto restituisce fiducia nella possibilità tanto di allestire una pacifica convivenza tra le comunità locali e gli immigrati quanto di contrastare il lavoro sommerso, a condizione che le misure (in tal senso) indirizzate vadano di pari passo con politiche sull’immigrazione volte a osteggiare la clandestinità: ad ogni modo, è indubbio che tutto ciò debba avvenire al cospetto di un potere centrale che deve tornare ad esser presente in una Regione che, troppo a lungo, ha vissuto in uno stato di mesto isolamento.
[1] M.C. Donato, Il lavoro nero in Calabria: prospettive per l’emersione dopo i fatti di Rosarno, Osservatorio sul Mezzogiorno, Anno I n. 2, pp. 2-3.
[2] Ivi, p. 2.
[3] Più che a livello regionale, la specializzazione si rileva a livello territoriale: in particolare, in provincia di Reggio Calabria e nella Piana di Sibari si coltivano prevalentemente agrumi e ulivi, nella Piana di Lamezia (prevalentemente) ulivi, mentre nella Piana di Gioia Tauro si concentra il 40% circa dell’intera produzione agrumicola calabrese. Cfr. Inea, Indagine sull’impiego degli immigrati in agricoltura in Italia, 2010, pp. 342-343.
[4] Cfr. Istat, 6° censimento dell’agricoltura in Calabria. Risultati definitivi, 2012, consultabile al link http://www.istat.it/en/files/2013/02/Agricoltura-Focus-calabria.pdf.
[5] Sono circa 11.000 i lavoratori stranieri in Italia non registrati presso l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale (INPS) e, di questi, oltre 8.000 sono impiegati nel settore delle colture arboree, cfr. Inea, L’agricoltura nella Calabria in cifre, 2012, pp. 33-37.
[6] Cfr. Inea, L’agricoltura nella Calabria in cifre, 2012, pp. 33-37.
[7] Generalmente, i braccianti sono assunti dagli imprenditori agricoli per 102 giorni all’anno; in tal modo, essi possono avviare le pratiche per ottenere il sussidio di disoccupazione o per il ricongiungimento familiare, seppur, nella realtà, si ritrovano a lavorare durante l’intero anno.
[8] Tale cifra che non rappresenta neanche la metà del salario legale minimo.
[9] D. Perrotta, Ghetti, broker e imperi del cibo. La filiera agro-industriale del pomodoro nel Sud Italia, in Cartografie sociali. Rivista di sociologia e scienze umane, (I) 2016, p. 262.
[10] L’espressione è stata utilizzata da Alessandro Leogrande in un’intervista, datata 23 novembre 2008, per Fahrenheit a cura di Marino Sinibaldi; per l’intervista cfr. https://www.raiplaysound.it/audio/2018/11/Il-mondo-di-Leogrande—Uomini-e-caporali—23112008-1f113114-3bf8-4eeb-941f-d0fc867795b4.html.
[11] È l’epiteto, questo, col quale oltre un secolo fa si faceva riferimento ai braccianti meridionali.
[12] Essendo, la raccolta, l’operazione che, su tutte, abbisogna di lavoro operativo, ne consegue che le aziende agricole che si specializzano in una o più colture intensive debbono disporre di braccianti in abbondanza in determinati periodi dell’anno: ciò ha determinato il consolidamento di un meccanismo sociale che garantisse agli imprenditori agricoli, all’occorrenza, la quantità di forza lavoro necessaria. Cfr. J.P. Berlan, Agriculture et migrations, Revue européenne des migrations internationales, vol. 2, n.3, 1986/12, p. 15.
[13] L’elevata mobilità dei braccianti e la propensione ad accettare impieghi faticosi e scarsamente retribuiti sembra poter suggerire che questi non abbiano una famiglia al seguito poiché entrati in modo irregolare nel Paese. Cfr. C. Colloca, A. Corrado, La globalizzazione delle campagne. Migranti e società rurali nel Sud Italia, Franco Angeli, Milano 2013, pp. 33-34
[14] J.P. Berlan, Agriculture et migrations cit., p. 15.
[15] Tale avviene solitamente nella stagione primaverile.
[16] C. Colloca, A. Corrado, La globalizzazione delle campagne cit., pp. 33-34.
[17] Trattasi di aziende, prevalentemente, a conduzione familiare e che detengono, in media, una superficie agricola di un ettaro.
[18] G. Marenco, Lo sviluppo dei sistemi agricoli locali. Strumenti per l’analisi delle politiche, Edizioni Scientifiche Italiane, Collana Manlio Rossi Doria, vol. 10, 2005, p. 49.
[19] A. Corrado, Migrazioni e problemi residenziali nelle Piane di Calabria, in G. Osti, F. Ventura (a cura di), Vivere da stranieri in aree fragili, Liguori Editore, Napoli 2012, pp. 111-112.
[20] A. Camilli, La filiera sporca delle arance italiane comincia a Rosarno, consultabile al link https://www.internazionale.it/reportage/2016/04/15/arance-italia-rosarno.
[21] A. Corrado, D. Perrotta, Migranti che contano. Percorsi di mobilità e confinamenti nell’agricoltura del Sud Italia, in Mondi Migranti, n. 3/2012, p. 2.
[22] E. Pugliese, Diritti violati. Indagine sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in aree rurali del Sud Italia e sulle violazioni dei loro diritti umani e sociali”, Cooperativa sociale Dedalus, 2012, pp. 34-35.
[23] Alisei Cooperativa Sociale, Sotto la Soglia. Indagine conoscitiva sul disagio abitativo degli immigrati presenti nell’Italia Meridionale, 2007, p. 15.
[24] F. Gambino, Il momento dell’accampamento. L’illusione del transito in una provincia del Nordest italiano, in F. Gambino, Migranti nella tempesta: avvistamenti per l’inizio del nuovo millennio, Ombre Corte, Verona 2003, p. 101.
[25] Ibidem.
[26] G. Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringheri Editore, Torino 2003, p. 66.
[27] F.S. Caruso, Tra agricoltura californiana e migrazioni mediterranee: cause ed effetti delle rivolte del bracciantato migrante di Rosarno e Castel Volturno, in M. D’Agostino (a cura di), Migrazioni e confini, Rubettino, Soveria Mannelli 2016, p. 60.
[28] Ivi. È dunque possibile incontrare lavoratori stagionali subentrati nel Paese in virtù del c.d. Decreto Flussi; immigrati che, per non perdere il sussidio della Cassa Integrazione, accettano di lavorare a nero; richiedenti asilo e rifugiati; immigrati in possesso di un permesso di soggiorno sottoposto a scadenza e che hanno perso la propria occupazione nelle industrie del Nord; immigrati originari del Nord-Est Europa.
[29] La costruzione della Modul System era stata finanziata dalla l. 19 dicembre 1992, n. 488 per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno.
[30] Quando fu denunciato lo stato della Cartiera, l’unica risposta delle istituzioni fu, in base ad una logica repressiva, la quale sembrò essere anche la soluzione più sbrigativa, la disposizione dello sgombero, senza prevedere alcuna alternativa per gli africani che ivi dimoravano. Al riguardo, si vd F.S. Caruso, Tra agricoltura californiana cit., p. 61.
[31] A. Mangano, Tutte le case degli africani di Rosarno, 2017, consultabile al link https://www.terrelibere.org/tutte-le-case-degli-africani-di-rosarno/.
[32] Osservatorio Placido Rizzotto, Agromafie e Caporalato, terzo rapporto, Edizioni Futura, 2016, pp. 42-43.
[33] Cfr. Corriere.it, A Rosarno la rivolta degli immigrati, consultabile al link http://www.corriere.it/cronache/10_gennaio_07/rosarno-rivolta-immigrati_4649d878-fbd4-11de-a955-00144f02aabe.shtml?fr=correlati.
[34] Cfr. R. Cosentino, Quando aiutare gli immigrati diventa pericoloso, Archivio Storico del Manifesto, ediz. 13/01/2010.
[35] A. Mangano, Gli africani salveranno l’Italia. Tra la rivolta di Rosarno e razzismo quotidiano, la resistenza alle mafie dei lavoratori stranieri. In un’Italia che tollera ormai troppo, il valore irriducibile di chi non accetta le regole del sopruso. E che può cambiare il Paese, Bur Rizzoli, 2010.
[36] Anche l’Opera Sila venne fatta sgomberare senza, tuttavia, che fosse stato predisposto un idoneo piano di accoglienza per i braccianti; fu solo un anno più tardi, nel 2011, che, in località Testa dell’Acqua, venne installato un campo container con una capacità di circa 150 migranti: tutti gli altri avrebbero proseguito a peregrinare tra i ruderi della zona. Cfr. Medici per i Diritti Umani (Medu), Terra Ingiusta. Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri in agricoltura, 2015, pp. 16-17.
[37] Cfr. Rete Campagne in Lotta, Rosarno, tre anni dopo. Dentro e oltre lo stato d’eccezione permanente, consultabile al link https://gliasinirivista.org/?s=Rosarno+tre+anni+dopo.
[38] Ogni anno, da ottobre ad aprile, nella Piana di Gioia Tauro si stabiliscono fino a duemila braccianti per la raccolta degli agrumi.
[39] Cfr. Medu, Terra Ingiusta cit., pp. 19-20.
[40] I lavori termineranno solo nell’agosto 2017.
[41] P. Lojacono, Apre la nuova tendopoli per i migranti, 2017, consultabile al link http://www.gazzettadelsud.it/news/calabria/256077/apre-la-nuova-tendopoli-per-i-migranti.html.
[42] Ibidem.
[43] Tale si è sostanziato nella creazione di nuovi posti di lavoro e nella compartecipazione, di riacesi e migranti, in attività quali la raccolta dei rifiuti porta-a-porta (coordinata dalle cooperative Eco-Riace e L’Arcobaleno), il rilancio dell’agricoltura (con la produzione dell’olio di Riace), il recupero di mestieri a rischio di estinzione (il tombolo, il ricamo, la tessitura della ginestra al telaio, la lavorazione del vetro), fino all’avviamento di un ambulatorio medico con servizi di telemedicina (coordinato dall’associazione Jimuel). Cfr. G. Galera, L. Giannetto, G. Pisani, Una e tante Riace. Sotto assedio l’accoglienza che funziona, Impresa Sociale 4/2021, p. 85.
[44] Cfr. https://www.agoravox.it/Avoid-Shooting-Blacks-Le-arance.html.
[45] Il settore in cui il caporalato si è maggiormente diffuso è quello agricolo, cui fa immediatamente seguito quello dell’edilizia. Sebbene, dunque, il fenomeno sia stato convenzionalmente associato all’arcaica cornice delle campagne meridionali, in cui, invero, si sono registrati i più gravi episodi di sfruttamento e xenofobia, la sua origine risiede nella diffusa pratica d’intermediazione che, nel XIX secolo, si compiva nel Settentrione, al fine di reclutare manodopera da impiegare nelle risaie.
[46] D. Perrotta, “Vecchi e nuovi mediatori. Storia, geografia ed etnografia del caporalato in agricoltura” in «Meridiana, Rivista di storia e scienze sociali», (79) 2014, pp. 192-193.
[47] Il prezzo di vendita dei beni agricoli, tra l’altro, incide fortemente sull’ammontare dei salari, in quanto il costo del lavoro è il solo fattore sul quale gli imprenditori possono esercitare pressione per assicurare un futuro all’azienda: se il mercato impone prezzi di vendita dei beni agricoli molto bassi, questi è costretto a mantenere i salari altrettanto bassi. Cfr. E. Pugliese, “Immigrazione e diritti violati. I lavoratori immigrati nell’agricoltura del Mezzogiorno”, Ediesse, Roma 2013, p. 40.
[48] D. Perrotta, Vecchi e nuovi mediatori, cit., p. 31.
[49] Ivi, p. 213.
[50] Osservatorio Placido Rizzotto, “Agromafie e caporalato”, 2016, p. 39.
[51] Il potere dei caporali è tanto più saldo quanto maggiore è la distanza tra gli alloggi dei braccianti e gli insediamenti abitativi: in questi casi, infatti, relegati in ghetti isolati, i braccianti non possono che far riferimento ai caporali per soddisfare qualsivoglia esigenza, finanche legata all’acquisto di farmaci e viveri. Cfr. E. Pugliese, “Diritti violati. Indagine sulle condizioni di vita dei lavoratori immigrati in aree rurali del Sud Italia e sulle violazioni dei loro diritti umani e sociali”, Cooperativa sociale Dedalus, 2012, p. 40.
[52] Ibidem, p. 44.
[53] È doveroso precisare che quanto pagato dal caporale è nettamente inferiore a quanto questi ha precedentemente ricevuto dall’imprenditore agricolo; tuttavia, il pagamento dei salari minimi si è osservato solo nei rari casi di lavoro regolare. Cfr. E. Pugliese, Diritti violati cit., p. 38.
[54] Fanno riflettere le testimonianze, raccolte dal Perrotta, di braccianti aspiranti a divenire autisti dei caporali, o loro assistenti; Cfr. D. Perrotta, Il caporalato come sistema. Un contributo sociologico, in E. Rigo (a cura di), Leggi, migranti e caporali, Pacini Editore, Pisa 2016, p. 19.
[55] Trattasi della Direttiva 2009/52/Ec del Parlamento Europeo del Consiglio del 18 giugno 2009, che ha introdotto norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
[56] Amnesty International, Lavoro sfruttato due anni dopo. Il fallimento della “Legge Rosarno” nella protezione dei migranti sfruttati nel settore agricolo in Italia, Index: Eur 30/007/2014, Novembre 2014, p. 9.
[57] In base alla Direttiva Sanzioni, è sanzionato penalmente il datore di lavoro che impieghi simultaneamente un numero significativo di migranti irregolari, (che impieghi) migranti vittime di tratta o minori e che sottoponga i lavoratori a “condizioni di particolare sfruttamento”; quest’ultime, in particolare, si verificano quando “vi è una palese sproporzione rispetto alle condizioni di impiego dei lavoratori assunti legalmente, che incide, ad esempio, sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori ed è contraria alla dignità umana”. Cfr. Art. 9.1, Direttiva 2009/52/Ec.
[58] Cfr. Art. 6.2-4, Direttiva 2009/52/Ec.
[59] Cfr. Art. 6.1, Direttiva 2009/52/Ec.
[60] Pochi mesi prima, il Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale, esprimendo la propria apprensione «per la mancanza di un’appropriata protezione legale dei migranti», aveva ammonito l’Italia di «modificare la propria legislazione, così da permettere ai migranti senza documenti di rivendicare i diritti derivanti da occupazioni precedenti e di presentare denunce indipendentemente dalla situazione migratoria»; al riguardo, cfr. Osservazioni conclusive del Comitato per l’Eliminazione della Discriminazione Razziale, Italia, Un Doc. Cerd/C/Ita/Co/16-18, 9 marzo 2012, par. 23.
[61] Decreto Legislativo n. 109 del 16 luglio 2012, (Legge Rosarno). Trasposizione della Direttiva 2009/52/Ce del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 giugno 2009 per implementare la Direttiva 2009/52/Ce che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare.
[62] Cfr. Art. 22.12, Decreto Legislativo 286/98 (Testo Unico sull’Immigrazione).
[63] Cfr. Art. 1.1.b, Legge Rosarno, introduzione all’art. 22.12-ter del Decreto Legislativo 286/98.
[64] In presenza di una di queste tre condizioni, e qualora il lavoratore migrante irregolare abbia denunciato il proprio datore di lavoro, la Legge Rosarno gli riconosce il diritto di ottenere un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Cfr. Art. 1.1.b, Legge Rosarno, introduzione all’art. 22.12-quater del Decreto Legislativo 286/98.
[65] La disposizione di cui al punto (c) aggiunge ai casi di cui ai punti (a) e (b) « l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori intermediati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro». Cfr. Amnesty International, Novembre 2014, p. 12.
[66] Cfr. Art. 1.1.b, Legge Rosarno, introduzione all’art. 22.12-bis del Decreto Legislativo 286/98.
[67] Cfr. Art. 2.i, Direttiva 2009/52/Ec.
[68] Tale dispone, peraltro, che la circostanza che vi siano più di tre lavoratori sfruttati costituisce una mera aggravante e non un requisito ai fini dell’individuazione del reato di intermediazione illecita e di sfruttamento del lavoro. Cfr. Amnesty International, Novembre 2014, p. 12.
[69] Cfr. Art. 603-bis.2, Codice Penale.
[70] Cfr. Art. 13, Direttiva 2009/52/Ec.
[71] Cfr. Art. 6.2-4, Direttiva 2009/52/Ec.
[72] Cfr. Art. 7, Direttiva 2009/52/Ec; cfr. anche Asgi, Osservazioni allo schema di Decreto Legislativo recante attuazione della Direttiva 2009/52/CE che introduce norme minime relative a sanzioni e a provvedimenti nei confronti di datori di lavoro che impiegano cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, 14 maggio 2012, p. 3.
[73] Cfr. Preambolo, Decreto-legge n. 92/2008 del 23 maggio 2008, “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, Gazzetta ufficiale n. 122 del 26 maggio 2008. Il Decreto-legge n. 92/2008 è stato convertito in legge e parzialmente modificato dalla L. n. 125/2008 del 24 luglio 2008, “Conversione in legge, con modifiche, del Decreto Legge n. 92 del 23 maggio 2008, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, Gazzetta ufficiale n. 173 del 25 luglio 2008.
[74] Cfr. Art. 1.16 Legge n. 94/2009 del 15 luglio 2009, “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, Gazzetta ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009, che modifica il Decreto Legislativo n. 286/1998 del 25 luglio 1998, “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, Gazzetta ufficiale n. 191 del 18 agosto 1998.
[75] Sono ivi compresi tutti i dipendenti pubblici, gli impiegati presso le autorità locali, i docenti ed ogni altra persona che ricopra una carica pubblica. In base agli artt. 361-362 c.p., l’unica significativa eccezione a tale obbligo di legge si applica ai medici e agli altri operatori del campo sanitario.
[76] Cfr. Amnesty International, Novembre 2014, p. 20.
[77] M.C. Donato, Il lavoro nero in Calabria cit., p. 5.
[78] Cfr. http://www.sosrosarno.org/chi-siamo.html.
[79] SOS Rosarno ha stabilito un prezzo di vendita degli agrumi che si aggira intorno a 1,40€/kg: tale garantisce un reddito adeguato agli agricoltori, i quali non si vedono costretti a tagliare i costi di produzione, su tutti il costo del lavoro, per conseguire profittabilità dalla vendita.
[80] F. Olivieri, Sovranità alimentare e autogestione. L’alternativa di SOS Rosarno allo sfruttamento dei braccianti immigrati, dei piccoli agricoltori e dei territori, in M. D’Agostino (a cura di), Migrazioni e confini, Rubettino, Soveria Mannelli 2016, p. 69.
[81] Non si trascuri inoltre che l’eliminazione di notevoli passaggi lungo la filiera, tra cui il ricorso alla Grande Distribuzione, determina una maggior celerità nella ricezione dei pagamenti in favore dei produttori.
[82] A. Corrado, Sovranità alimentare: la proposta alternativa della Via Campesina, consultabile su https://agriregionieuropa.univpm.it/it/content/article/31/22/sovranita-alimentare-la-proposta-alternativa-della-campesina.
[83] M.C. Donato, Il lavoro nero in Calabria cit., p. 6.
[84] Ibidem.
[85] Così recitava la cartellonistica stradale posta in prossimità dell’ingresso nel comune della Locride. In seguito alle elezioni comunali del 2019 e alla vittoria amministrativa di Antonio Trifoli (lista civica di centro-destra “Riace rinasce” – dal 26-5-2019), il cartellone posto all’entrata del borgo viene sostituito con un nuovo pannello recante l’immagine dei Santi Medici, Cosma e Damiano, con la frase “Benvenuti a Riace. Il paese dei Santi Medici e Martiri Cosimo e Damiano. L’amministrazione comunale in occasione del 350esimo (1669-2019), anniversario dell’arrivo delle Reliquie di San Cosimo a Riace”.
[86] Tale è stata attuata in modo sostenibile, mediante l’impiego di somari la cui presenza sul territorio è stata, in questo modo, preservata.
[87] La combinazione tra invecchiamento della popolazione autoctona, contrazione del tasso di fecondità e conseguente crisi delle nascite aveva già determinato lo svuotamento delle aule della scuola dell’infanzia e di quella secondaria di primo grado, minacciando anche la scuola primaria del borgo collinare di Riace Marina. Come conseguenza della Riforma Gelmini del 2008, se non fossero sopraggiunti i migranti, non solo gli istituti scolastici riacesi avrebbero dovuto chiudere. Al riguardo, si vd: L. Gaffuri, Ama il profugo tuo: migranti e territorio ritrovato a Riace, Agei – Geotema, vol. 61, 2015, p. 55, n. 8.
[88] Affinché il processo d’integrazione potesse ritenersi completo, il Lucano si attivò per garantire ai migranti il conseguimento dell’autosufficienza economica: d’accordo con l’Amministrazione comunale, dunque, fu incentivata la creazione di laboratori artigianali (tra i quali la Bottega del vetro artistico, la Bottega del commercio equo-solidale, il Bazar etnico) all’interno dei quali erano impiegati, fianco a fianco, nelle attività di produzione e vendita sia i riacesi che gli immigrati. Cfr. Y. Perfetti, M. L. Ronconi, Migranti, Attrattività e riuso dei centri storici. Il caso di Riace in Calabria, [Doi: 10.19246/DOCUGEO2281-7549/ 202101_02], p. 36.
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