Quando il capitalismo è senza capitali
di DOPPIO ZERO (Roberto Ciccarelli)
La ricchezza non è più prodotta solo dalle fabbriche, dagli oleodotti o nei megastore che vendono Tv di cinquanta pollici. La ricchezza è prodotta dalla nostra connessione alle piattaforme come Facebook. Un caso esemplare del capitalismo senza capitali tangibili dove la forza lavoro è valorizzata senza essere ricompensata con un centesimo.
Capitalismo senza capitale. L’ascesa dell’economia intangibile, di Jonathan Haskel e Stian Westlake (Franco Angeli): inchiesta sulla trasformazione del capitalismo globale.
La ricchezza non è più prodotta solo dalle fabbriche, dagli oleodotti o nei megastore che vendono Tv di cinquanta pollici. La ricchezza è prodotta da chi è interconnesso a una piattaforma – digitale e materiale, immateriale e logistica (i due aspetti sono inseparabili). Sempre, 24 ore su 24, sette giorni su sette, produciamo un valore. Siamo all’oscuro di quanto valore produciamo perché la nostra forza lavoro è occultata e la sua assenza è stata colmata ricorrendo alla finzione di un capitale che produce anche il suo antagonista: la forza lavoro. E, sicuramente, chi ne beneficia, non ce lo dirà mai e estrarrà gratuitamente questo valore per moltiplicarlo per cento o per mille. Facebook, ad esempio, attraverso il quale avrete avuto accesso anche a questo articolo.
Non è un mistero. Questa realtà è nota nelle neuroscienze e in economia. È il segreto della scuola neoclassica avere identificato, grazie alla Teoria dei sentimenti morali di Adam Smith, le emozioni, i piaceri, i dolori, i sentimenti di un soggetto concepito tuttavia come un uomo razionale, astratto dalla storia, oggetto di una continua modellizzazione matematica complessa.
Il capitale umano è socializzato
Parliamo di tre premi nobel in economia: Amos Tversky e Daniel Kahneman nel 2002, Richard H. Thaler nel 2017 che ne ha proseguito il lavoro, Jean Tirole nel 2014. Alla base del loro lavoro c’è la critica all’economia che riduce le credenze e le decisioni alle regole logiche. Basano le loro teorie su un mondo ideale dove le persone agiscono come attori razionali che sfruttano ogni opportunità per accrescere il loro piacere o beneficio. Kahneman e Tversky hanno dimostrato nel 1974 e nel 1979 che in alcuni casi le scelte e i giudizi delle persone non possono essere spiegati secondo un modello logico predefinito.
Richard H. Thaler si è allontanato dall’idea per cui l’economia deve raggiungere la stessa precisione matematica delle scienze “dure” – sempre che queste ultime ne abbiano solo una. In caso contrario, i profeti della matematica economica si riducono a pensare ai loro soggetti come “ottimizzatori” il cui comportamento è prevedibile come la velocità della mela di Newton che cade dall’albero.
Thaler parla dell’effetto di dotazione [Endowment effect]. In psicologia sociale e nell’economia comportamentale, questo concetto descrive il valore che le persone attribuiscono alle cose solo perché le possiedono. Ciò permette di valutare le cose che già si possiedono molto di più dell’oggetto identico nelle mani di qualcun altro. La legge è equiparata a un modello comportamentale chiamato “volontà di accettare o pagare” [Willingness to Accept or Pay], una formula usata per scoprire quanto un consumatore o una persona è disposto a sopportare o perdere per diversi risultati. Per l’accademia di Svezia Thaler ha dimostrato il modo in cui alcune caratteristiche umane, i limiti della razionalità e delle preferenze sociali, “influenzino sistematicamente le decisioni individuali e gli orientamenti di mercato”.
Il cuore di questa visione del mercato è la possibilità dell’errore. La norma è soggetta a una continua revisione perché riconosce in sé l’errore e cerca di razionalizzarlo attraverso un percorso di adeguamento continuo a una verità che si trova sul mercato.
“Le stesse scelte possono dipendere dal nostro umore del momento, dal nostro stress o dalla nostra fatica – ha scritto Jean Tirole – Possono soffrire di procrastinazione, la tendenza a massimizzare il nostro benessere ad un certo punto a spese del nostro benessere futuro, a volte a costo di una riduzione del nostro benessere generale: non smettiamo di fumare o bere, guardiamo troppo gli schermi, facciamo troppo poco esercizio fisico e mangiamo troppo, non sempre risparmiamo abbastanza e non investiamo abbastanza nelle relazioni umane. Siamo vittime di molti errori cognitivi”.
In queste teorie il protagonista non è più l’homo oeconomicus, ma un soggetto molto più mobile e contraddittorio, vissuto e dolente che ha inglobato un’altra creatura delle scienze umane: l’homo socialis. All’individuo è riconosciuta l’appartenenza a una società. L’economia comportamentale oggi ragiona su un’antropologia che apre l’esperienza dell’essere al mondo alla trasmissione della cultura e delle convinzioni, alla ricerca dell’identità e alla cura dei problemi derivanti dall’appartenenza a un gruppo; al rompicapo della fiducia negli altri e persino alle “narrazioni” che circolano nelle reti sociali e modificano l’idea di autorità, influenzando la politica e il discorso pubblico, anche quello economico.
Cosa può la nostra forza lavoro
Conoscere l’economia comportamentale è necessario per comprendere il segreto del capitalismo contemporaneo. La psicologia, e le passioni, del soggetto sono al centro della scena economica e di quella politica. Le scelte imprevedibili rispetto alla classica analisi costi-benefici sono il risultato di una facoltà specialissima di cui le teorie analizzate non tengono in conto. È la forza lavoro, la facoltà a disposizione di ogni essere umano. Di solito è considerata solo come una capacità di lavoro.
La declinazione che ne ha dato Marx è affascinante. La forza lavoro è:
– la facoltà che produce tutti i valori d’uso;
– è incarnata nella “personalità vivente” di ogni essere umano;
– è la potenza generatrice incarnata nell’unità del corpo e della mente di ogni singolo eccede l’appartenenza sociale e il ruolo produttivo ed è sussunta;
– considera la vita come un mezzo per esprimere la sua potenza, non come strumento per appropriarsi di un oggetto, un bene, una merce sul mercato.
La filosofia della forza lavoro permette di comprendere l’intuizione degli economisti comportamentali su basi completamente diverse. La forza lavoro è il soggetto delle loro teorie, ma nella forma rovesciata di un capitale umano da valorizzare nel mercato, considerato il luogo dove le passioni del soggetto trovano cittadinanza. Ciò che vivo è il capitale (umano), non la personalità vivente della forza lavoro.
In Forza Lavoro, il lato oscuro della rivoluzione digitale e in Capitale Disumano, la vita in alternanza scuola lavoro ho operato un contro-rovesciamento: ciò che oggi è viva la facoltà di produrre tutti i valori d’uso in una vita, l’individualità sociale che eccede la mera capacità di calcolo, e di quantificazione, in un valore di scambio. Il capitale deve mettere al lavoro la facoltà della forza lavoro, la base del processo di valorizzazione che eccede ogni possibile quantificazione e, anzi, ne è la base produttiva, logica e storica. A sua volta la forza lavoro cerca modi non sempre lineari, né felici, per opporsi e resistere in uno scenario di impoverimento radicale, drammatica crescita delle differenze di classe.
Capitalismo senza capitali
Il problema della creazione del valore in un capitalismo che valorizza la forza lavoro è affrontato nel libro di Jonathan Haskel e Stian Westlake che definiscono il Capitalismo senza capitale una “economia intangibile” (Franco Angeli). Gli autori cercano di rispondere a queste domande: chi crea il valore? Chi lo estrae, chi lo distrugge e come lo si distribuisce in un’economia che ha individuato una nuova sorgente del valore nelle attività immateriali, cognitive, simboliche, linguistiche dell’essere umano?
Sono attività che non possono essere riducibili a cose, proprietà o beni materiali, né possono essere semplicemente scambiate come merci fisiche, ancorate a giurisdizioni specifiche, difficili da regolamentare e tassare. Per Haskel e Westlake il capitalismo è senza capitali tangibili. Ciò non esclude che i capitali siano ben più numerosi di quelli che rinviano a un immaginario che lo identifica con un oggetto: il denaro sonante in cui nuota zio Paperone. Questa ontologia del capitale, la sua astrazione o iper-realtà che integra e modifica il capitalismo reale, è stata definita come capitalismo cognitivo, capitalismo immateriale, capitalismo dell’astrazione, finanz-capitalismo, e molte altre formule suggestive.
Questo amplissimo dibattito permette di comprendere il senso del titolo del libro di Haskel e Westlake: un processo che ha deformato, e messo in crisi, i meccanismi familiari di un’economia di mercato. Prendiamo il caso dell’economia digitale: un prodotto o processo digitale intangibile può essere replicato e condiviso un numero infinito di volte senza costi aggiuntivi. Ciò ha reso possibile la rapida espansione commerciale dei giganti della rete come Facebook: l’azienda che non produce contenuti, ma guadagna sulla capacità della nostra forza lavoro di produrli in maniera gratuita. Un caso esemplare del “capitalismo senza capitali” dove la forza lavoro è valorizzata al massimo senza essere ricompensata nemmeno con un centesimo.
Haskel e Westlake raccontano anche le politiche urbane a cui porta questo modello economico basato sulla cooperazione produttiva e la fecondazione incrociata delle idee nelle metropoli diffuse di cui la Silicon Valley in California è il modello. I pionieri di un’economia immateriale traggono beneficio dall’intimità geografica, anche se il loro lavoro vola nella rete globale. Questo modello accelera radicalmente la polarizzazione sociale e l’impoverimento di massa. I padroni della rete si riuniscono in fortini ad alto reddito dove i costi degli alloggi salgono vertiginosamente e milioni di persone perdono la possibilità di accedere alla casta superiore in una società organizzata gerarchicamente. Sempre di più le cronache raccontano San Francisco, ad esempio. Una città dove si sono moltiplicati i miliardari digitali insieme a una crisi sociale e abitativa mai vista.
Questa organizzazione del capitale è lo straordinario motore che alimenta una diseguaglianza radicale e una profonda frustrazione tra gli esclusi. La destabilizzazione del patto tra gli istituti della democrazia liberale e costituzionale e quelli del capitalismo industriale è definitiva e irreversibile. La rabbia delle comunità che si sentivano lasciate indietro nella marcia verso la globalizzazione è stato un fattore significativo nell’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e nel referendum sul Brexit nel Regno Unito. Questa analisi, largamente sopravvalutata, va messa alla prova della crescita straordinaria registrata negli Stati Uniti sin dagli anni di Obama, e oggi di Trump. Se la disoccupazione è ai minimi termini, la crescita dei salari reali è molto in ritardo e irrilevante, in un’economia che produce precari a tempo indeterminato. Ovvero: riproduce le premesse della crisi di cui Trump è la continuazione, non il rimedio.
Tanto meno l’alternativa va individuata nel messaggio contraddittorio della Silicon Valley. Quel mix di libero spirito hippie e zelo imprenditoriale yuppie degli imprenditori alla Steve Jobs o Mark Zuckerberg è impotente, anzi è una delle cause, della produzione di diseguaglianze nel capitalismo senza capitali. Anche le sperimentazioni di un reddito di base universale condotte nella Baia di San Francisco non risolvono le contraddizioni dell’anarco-capitalismo di questa cultura che predica una libertà dell’individuo e la sua contemporanea dipendenza dall’economia delle piattaforme.
Haskell e Westlake si soffermano sulla democratizzazione della governance in uno stato innovatore che collabora con le multinazionali dell’innovazione, non sui rapporti di potere che impediscono tale democratizzazione. E nemmeno sulle cause di ciò che produce la ricchezza estorta alla forza lavoro costretta a inseguire la propria sopravvivenza in condizioni disperate. L’abisso tra chi ha e chi non ha, tra chi si percepisce imprenditore di sé e chi non è all’altezza di questo modello – la “disuguaglianza della stima” la definiscono Haskell e Westlake – colpisce tanto le condizioni di lavoro quanto quelle sociali e morali che devastano l’individuo costretto a stare sul mercato, valutato e punito a seconda della sua capacità di auto-governare la possibilità di errore ricorrente nelle sue condotte sul mercato.
Il riconoscimento della centralità della forza lavoro è la premessa di una trasformazione radicale che antepone all’impresa le donne e gli uomini che producono il suo valore. Prima del capitale umano, ovvero dell’incarnazione del corpo in un capitale fisso dotato di protesi come l’Iphone, viene la forza lavoro che mette in relazione chi usa smartphone, Pc o i post su Facebook.
Fonte: https://www.doppiozero.com/materiali/quando-il-capitalismo-e-senza-capitali
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