Rogo nella tendopoli di San Ferdinando: muore migrante di 18 anni
di LA REPUBBLICA (Alessia Candito)
L’incendio si è sviluppato nel campo nella piana di Gioia Tauro forse per un fuoco acceso per riscaldarsi. La Cgil: “Situazione insostenibile che la Prefettura non affronta”. Nel campo numerosi precedenti. La risposta delle autorità: “Trasferiremo la tendopoli”
Torna la rabbia a San Ferdinando, torna la disperazione. Ancora una volta, nella tendopoli c’è un morto da piangere. E ancora una volta ad uccidere è stato il fuoco di un braciere, usato per scaldarsi da chi è costretto a dormire a terra, riparato solo da una tenda sottile nella Piana di Gioia Tauro. Per Suruwa Jaithe è stato fatale.
Nel tardo pomeriggio la situazione è rmai sotto controllo, la protesta è rientrata e i braccianti sno rientrati nella tendopoli per prepararsi alla nuova giornata di lavoro. E la prefettura ha annunciato che le tende bruciate verranno sostitutite, anche se la prospettiva rimane lo sgombero del campo e il trasferimento in altro luogo.
“Era venuto in Italia un anno fa. La sua ambizione era studiare. E adesso non c’è più”. Soumbu Jaithe, è un cugino di Suruwa. A fargli forza gli amici del fratello che gli sono vicini. Lui vive a Catania ed è arrivato in Calabria dopo avere saputo della tragedia.
Diciotto anni compiuti da poco, “Sparo”, così lo chiamavano gli amici, al freddo della notte della Piana non era abituato. Non viveva lì. Arrivato dal Gambia da solo ancora minorenne, da tempo era inserito nel progetto Sprar di Gioiosa Ionica, sulla costa jonica reggina, ad una cinquantina di chilometri da San Ferdinando. Partecipava alle attività, era l’anima di un laboratorio artistico, che qualche tempo fa gli è valso anche un premio del sindaco del paese, Salvatore Fuda. Ma molti dei suoi amici e parenti non erano riusciti ad entrare nel circuito dell’accoglienza. L’Italia aveva riservato loro solo la possibilità di arrangiarsi sotto una tenda nella zona di San Ferdinando e di vendersi ogni mattina come braccianti a giornata per un euro a cassetta di arance.
Suruwa andava spesso a trovarli e a comprare del cibo africano nei piccoli spacci che nel tempo sono nati nella tendopoli. Ma l’ultima visita gli è stata fatale. Nella notte, un incendio, probabilmente originato da un fuoco o da un braciere acceso per scaldarsi, ha divorato rapidamente otto tende, trasformandole in una pira. Qualcuno ha dato l’allarme, tutti hanno lasciato in fretta e furia i loro giacigli, senza prendere nulla con sé.
Chi vive in tendopoli da tempo lo sa. La plastica con cui la maggior parte delle baracche sono costruite brucia in fretta e il fuoco uccide, per questo molti, dopo gli innumerevoli incendi che hanno distrutto il campo, hanno ricostruito il proprio rifugio in lamiera. Sono stati quelli a fare da argine, impedendo che il fuoco si estendesse rapidamente a tutto il campo.
Suruwa forse non era a conoscenza dei rischi, o forse semplicemente dormiva e non si è accorto di quanto stesse succedendo. Dalla sua tenda non è mai uscito. Impossibile tentare di soccorrerlo. I migranti hanno provato a domare l’incendio facendo la spola con secchi e bidoni dalle uniche due fontane disponibili, ma le fiamme sono diventate rapidamente un muro. Quando i vigili del fuoco e i soccorsi sono arrivati per lui non c’era più nulla da fare.
“Non so come mai fosse lì, perché si sia allontanato, era un ragazzo perfettamente integrato io so solo che dovrò chiamare sua madre per dirle che suo figlio è morto bruciato ed è inconcepibile”, si dispera Giovanni Maiolo, responsabile dello Sprar di Gioiosa in cui Suruwa era inserito.
A San Ferdinando in mattinata invece, insieme alla disperazione, è montata la rabbia. Cassonetti buttati giù, proteste, poi la decisione di marciare insieme alla Cgil in corteo verso san Ferdinando, dove il prefetto ha convocato una riunione d’urgenza. “Non possiamo vivere così – gridavano i migranti – quanti morti servono per capirlo?”.
Nel gennaio scorso, un’altra ragazza, Becky Moses, è morta bruciata nella baracca in cui dormiva. Pochi mesi dopo è toccato a Soumayla Sacko, ammazzato a colpi di fucile mentre stava tentando di recuperare del materiale per costruire un riparo. Due anni prima, a perdere la vita era stato Sekinè Traorè, 26enne maliano ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere. “Non siamo bestie” hanno scandito sotto il Comune, chiedendo soluzioni. “Qui si muore o di fuoco o di freddo – si dice in piazza – ma è giusto, è umano? È questa la democrazia?”.
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