Il terrorista di Strasburgo non ha niente a che fare con l’Islam
di LINKIESTA (Alberto Negri)
Handout / AFP
La cosiddetta “Generazione Isis” è fatta di giovani di seconda generazione che non conoscono le tradizioni dei paesi d’origine. È un impulso non religioso ma nichilista. Ed è staccato dai posti in cui il fanatismo religioso è radicato territorialmente
Perché lo fanno? E’ la domanda che viene posta dopo ogni attentato di stampo jihadista o comunque riconducibile a elementi radicali che si ispirano all’Islam estremista o all’Isis. È anche il caso di Strasburgo e di Cherif Chekak, 29 anni, cittadino francese, origini algerine e di cui la polizia sapeva tutto, al punto che lo aveva inserito insieme al fratello nella famose schede “S”, quelle dei radicalizzati e dei possibili terroristi, sfuggito all’arresto il giorno stesso in cui ha sparato nel cuore di Strasburgo. Uno scacco tremendo per la gendarmeria francese che lo cercava per tentato omicidio durante una rapina.
Cherif appartiene a quella che lo studioso francese Olivier Roy definisce la Generazione Isis. Il profilo emerge dalle centinaia di casi esaminati in questi anni a partire dal 1995, anno in cui ci furono i primi attentatori, fino ai responsabili delle stragi di Charlie Hebdo e del Bataclan del 2015. Olivier Roy propone una chiave di lettura sconcertante: non è l’integralismo islamico la prima causa di questo terrorismo ma un disagio tutto giovanile, un’esigenza folle, violenta e fuori controllo di rottura generazionale. Certo per compiere questa rottura c’è bisogno di un pretesto. E questi giovani lo trovano facilmente nell’odio puro ostentato dall’Isis, che ha ormai perso la propria territorialità in Siria e in Iraq ma che continua a mantenere una sua fascinazione, attraverso il web o la radicalizzazione in carcere.
Nei jihadisti francesi, ma non solo tra loro, il fine non è una società ideale come quella del Califfato ma dare un senso alla loro vita, una sorta di nichilismo
La sconfitta militare dell’Isis, annunciata dopo la caduta di Mosul in Iraq e di Raqqa in Siria, non ha messo fine né alla minaccia degli attentati, né soprattutto all’appeal che questa sigla sembra possedere agli occhi di un certo numero di giovani, anche europei. Così come del resto in passato la sconfitta di Al Qaida in Afghanistan nel 2011 e l’uccisione in Pakistan del suo fondatore Osama bin Laden non mise fine all’esistenza di un’organizzazione terroristica e di guerriglia che ispira ancora diversi gruppi tra cui quelli asserragliati a Idlib nella Siria del Nord.
Si possono così rintracciare alcune caratteristiche. La prima è che quasi tutti gli attentatori, circa il 60%, sono di seconda generazione, nati in Francia e francofoni. Due gli aspetti fondamentali. Il primo è che sono giovani non inseriti in comunità sociali, politiche o religiose, in poche parole non frequentano molto neppure le moschee. Si tratta di individui in cerca di una rivincita nei confronti di una società che non li considera abbastanza e che si costruiscono un’immagine di loro stessi eroica rispetto a una realtà ben diversa.
La seconda caratteristica è la “deculturazione”: parlano poco arabo e non praticano la religione con regolarità. Anzi forse questo è l’aspetto più interessante: non c’è stata una trasmissione della tradizione culturale religiosa di origine tra padri e figli.
In poche parole si rifanno a un Islam ridotto all’osso e a slogan semplici e ripetitivi ma non hanno legami veri e profondi con il mondo musulmano. La loro è una religione senza cultura. È interessante osservare che in Germania dove la maggioranza di musulmani sono turchi è assai difficile trovarne uno di loro che compia attentati: quasi tutti i figli dei turchi parlano e leggono il turco, seguendo gran parte delle tradizioni. Paradossalmente ma non troppo è proprio un forte legame culturale con le origini che frena il terrorismo o le derive radicali.
Si rifanno a un Islam ridotto all’osso e a slogan semplici e ripetitivi ma non hanno legami veri e profondi con il mondo musulmano. La loro è una religione senza cultura
In Francia i protagonisti del terrorismo di marca islamica spesso sono passati per la criminalità e le gang giovanili prima di conoscere una rapida conversione religiosa: la loro traiettoria di adesione all’Isis o al jihadismo si accompagna, e si nutre, di un’evidente fascinazione per la morte che, non a caso, rappresenta spesso l’epilogo del loro percorso che si conclude con un attentato suicida o con l’uccisione, cui non cercano di sottrarsi, da parte delle forze dell’ordine. E la stessa finalità del loro terrorismo si esaurisce nel gesto, soprattutto se ha contenuti simbolici ed è ripreso dai social media e dalla rete.
Nei jihadisti francesi, ma non solo tra loro, il fine non è una società ideale come quella del Califfato ma dare un senso alla loro vita, una sorta di nichilismo che nasce dal vuoto individuale e da quello lasciato dal fallimento delle vecchie ideologie novecentesche. Macron è un nemico vago, simbolico, e non possono neppure trovare riferimenti nel movimento dei gilet gialli. Il jihadismo nichilista e la protesta sociale sono destinati a non incrociarsi.
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