Francia… in giallo
di MEGACHIP (Raffaele Sciortino)
L’asse franco-tedesco è normalmente considerato centrale per la tenuta politica della UE. Economicamente sbilanciato a favore del lato tedesco, risulta parzialmente compensato dal peso politico-militare di Parigi, basato sia sulla disponibilità di armi nucleari sia sul controllo neocoloniale dell’Africa occidentale[1]. Nella crisi globale, che ha pesantemente coinvolto il sistema bancario, la posizione francese si è però decisamente indebolita. Senza entrare nei particolari, basterà ricordare che l’economia francese, a differenza di quella tedesca, non ha affatto recuperato i livelli pre-crisi, anzi ne è alquanto lontana, mentre i deficit delle partite correnti, sui quindici-venti miliardi di euro l’anno, si accumulano oramai costantemente andando a incrementare il rapporto debito/PIL, salito dal 68% del 2007 al 97% del 2017. Anche il settore privato, in particolare le aziende, risulta indebitato. Il benessere da paese nordico è dunque legato all’espansione del debito non solo pubblico ma anche privato – che ha comunque finora permesso di razziare aziende di peso in giro per l’Europa – ma non può ovviare a crescenti disparità sociali e territoriali sempre più evidenti. Sul piano internazionale, le sortite nella regione mediterranea e mediorientale volte a compensare le criticità economiche – la Francia è inoltre uno dei massimi esportatori di armi al mondo – non solo non possono nascondere il velleitarismo da grandeur e la sostanziale subalternità al dispositivo militare statunitense, ma sostanzialmente sottraggono spazio a partner europei, come in Libia a spese dell’Italia, contribuendo a incrementare il caos geopolitico nell’area – in controtendenza rispetto all’approccio tedesco.
Nel 2017 la vittoria elettorale di Macron – congegnata nelle stanze alte degli apparati a evitare che sull’onda della crisi profondissima del Partito Socialista potesse affermarsi la candidatura sovranista di Le Pen figlia – segna solo una pausa momentanea nell’ascesa a scala europea dei consensi ai partiti cosiddetti populisti. La precaria situazione francese imprime infatti una svolta all’élite nella direzione, inedita, della richiesta di una maggiore condivisione delle decisioni con i partner europei. Nel discorso programmatico del settembre 2017 alla Sorbona[2] Macron insiste sulla riforma dell’eurozona, sulla necessità di un ministero unico delle finanze e di un bilancio comune, di una compiuta unione bancaria, insomma sull’esigenza di una maggiore convergenza fiscale per bilanciare le crescenti asimmetrie economiche e sociali dell’Unione. Il suo biglietto da visita, per questa richiesta chiaramente rivolta a Berlino, è il varo della legge di riforma del mercato del lavoro nella direzione di una maggiore precarizzazione, sulla falsariga delle controriforme già passate a inizio anni Duemila a Berlino grazie al governo socialdemocratico di allora. Nel frattempo, viene abolita l’imposta sulle grandi ricchezze e diminuita quella sugli utili societari.
Ma a Berlino, dove ci si para dietro la complicata formazione del nuovo governo di grande coalizione, prevale la tattica dilatoria di Merkel nei confronti delle richieste francesi, che equivarrebbero alla costruzione di un meccanismo di riequilibrio nei conti economici intra-europei, visto in Germania come una nascosta mutualizzazione dei debiti e una rinuncia permanente alle riforme strutturali ritenute necessarie per i paesi meridionali.[3] L’indebolimento di Merkel e dei socialdemocratici non promette nulla di buono per le proposte cui è legata la tenuta politica di Macron. Del resto, sa se da un lato l’élite francese deve fare i conti con l’indebolimento strutturale del paese, e dunque la parziale rinuncia alla sovranità diviene una necessità, dall’altro non rinuncia a giri di valzer in politica estera, per esempio con la nuova amministrazione statunitense, che non possono che innescare la diffidenza tedesca, o a progetti per un esercito europeo non esattamente coincidenti con quelli, più cauti, di Berlino.[4]
In questo quadro, nel novembre 2018, non sorprende e però sorprende la mobilitazione dei gilets jaunes, venuta su in maniera spontanea, tramite social media e incontri informali autorganizzati da comuni cittadini, contro l’aumento delle tasse sui carburanti, ma ben presto ampliatasi a una contestazione del carovita e delle nuove povertà nonché della stessa presidenza Macron – come mostrano le manifestazioni organizzate agli Champs-Élysées parigini. Non sorprende tenuto conto della tradizionale combattività e capacità di protagonismo dei francesi su temi sociali generali – dal Maggio ’68 al grande sciopero nazionale dei trasporti del ’95, per nominare solo i picchi più noti e importanti. Ma quello che sorprende è che, questa volta, non scende in piazza la Francia di gauche, della sinistra sociale e politica, con le sue modalità, le sue reti e i suoi riti consolidati. La mobilitazione dei gilets jaunes sembra in grande, con una portata cioè nazionale, quello che in piccolo si è dato cinque anni prima con il movimento dei cosiddetti forconi o del #9D in Italia, si colloca cioè dentro la tendenza neopopulista dal basso che abbiamo analizzato nella terza parte (v. il movimento No Tav). È così per la composizione sociale neoproletaria, erroneamente interpretata o liquidata come interclassista, dei partecipanti, per la provenienza territoriale periurbana[5] e niente affatto rurale, per le forme di aggregazione e di lotta – che di fatto si presentano come uno sciopero sul territorio -, per il carattere cittadinista delle istanze contro uno stato vessatorio o assente, per la intrinseca politicità delle rivendicazioni proprie di chi non è comunità ma aspira a costruirla, dunque anche per le ambiguità immancabilmente presenti, qui e là, dalla presenza di militanti di estrema destra a qualche esternazione dal sottofondo razzista[6]. Si potrebbe continuare, ma i fatti si svolgono proprio mentre scriviamo, dunque dobbiamo limitarci a prime impressioni – senza poter entrare nel merito delle profonde implicazioni politiche di questi sviluppi – impressioni che però, crediamo, rappresentano una conferma dell’ipotesi di lettura in merito a quanto abbiamo chiamato neopopulismo.[7]
L’asse europeo, insomma, scricchiola e vacilla anche e forse più sul fronte occidentale. E la cosa importante – nella prospettiva di una divaricazione futura tra istanze dal basso e formazioni politiche sovraniste che se ne fanno rappresentanti nel quadro istituzionale – è che una mobilitazione sociale di questa portata spaventa tutti: le élites europeiste e globali, per ovvi motivi, ma anche, in diverso modo, proprio quelle formazioni che vorrebbero limitare le manifestazioni di scontento ai soli momenti elettorali per gestirne la portata all’ombra di una rinnovata pace sociale. Eppure, senza sporcarsi le mani con il conflitto sociale, le formazioni sovraniste non sono in grado di andare molto avanti, così come è stato per il riformismo d’antan.[8] Il caso italiano ne è un chiaro esempio.
[1] V.Mariamawit Tadesse, The CFA Franc Zones: Neocolonialism and Dependency, Agosto 2018.
[2] Vedi qui.
[3] Avverte del rischio di un indebolimento eccessivo di Macron all’interno un documento della DGAP, istituto tedesco di politica estera vicino ai conservatori, dell’aprile 2018.
[4] Leggi l’articolo.
[5] V. su questo aspetto la lucida intervista al demografo francese Hervé Le Bras, Il Manifesto, 25 novembre 2018.
[6] Sono, questi ultimi, gli aspetti su cui immancabilmente si è lanciata la stampa mainstream.
[7] Interessanti le reazioni della sinistra ufficiale nella provincia italica, meno incarognite che nel caso del #9D: conta senz’altro il diverso peso della mobilitazione francese e un contesto che nel frattempo si è spostato di molto in avanti – ma vale pur sempre la regola che le cornamuse in Irlanda fanno tanto folk song, mentre gli zampognari di Matera…
[8] Di nuovo, qui si può notare che un termine di confronto utile per comprendere le dinamiche neopopuliste attuali in relazione al nesso lotte-organizzazione-sistema politico – pur nelle sostanziali differenze di contesto che abbiamo messo in luce nella terza parte – è il riformismo storico e non il fascismo: questo ha dovuto sconfiggere sul campo la classe operaia prima di poter accedere allo stato e tagliare i rami secchi dell’élite di allora; quello ha dovuto convogliare la lotta proletaria contro la classe dominante, elemento primario, nell’alveo di un capitalismo riformato.
Fonte: https://megachip.globalist.it/politica-e-beni-comuni/2018/12/08/francia-in-giallo-2034659.html
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