Perché dopo la crisi del 2008 l’agenda neoliberale è ancora dominante?
di ECONOMIA E POLITICA (Massimo De Minicis)
La crisi del 2008 ha dimostrato che le politiche economiche mainstream sono dannose e fallimentari, ma la “retorica” neoliberale riesce ancora dominare il dibattito e le istituzioni e ad imporre pericolosamente la sua agenda.
Dalla metà degli anni ’90, nel sistema a capitalismo avanzato, una crescente interdipendenza e accresciuta competizione tra le nazioni, identificata nel concetto teorico della globalizzazione ha determinato le basi concettuali per identificare nello stato sociale del periodo post-bellico europeo un lusso non più sostenibile: “nel dibattito svedese, è normale ritenere che l’egualitarismo degli anni ’70 non sia sostenibile e che l’uguaglianza debba, in una certa misura, essere sacrificata sull’altare dell’efficienza” (Crouch, Streek 1996).
Negli stessi anni gli ambienti politici dell’Unione europea hanno rappresentato un costante discorso teorico secondo cui la globalizzazione esponeva i paesi comunitari ad una serie di sfide di fronte alle quali dovevano essere riorganizzate le modalità di governance del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Ciò sembra aver determinato una serie di vincoli esterni per le forme istituzionali prodotti attraverso un processo di persistente normalizzazione di tali presupposti teorici. Si è andata, così, consolidando una sorta di traiettoria neoliberale (Baccaro, Howell, 2011) che ha percorso anche i processi di integrazione europea per rispondere in maniera efficace agli imperativi dell’economia globale. Procedendo a rideterminare il peculiare “modello sociale europeo” emerso e consolidatosi nel primo dopoguerra (Hay, 2003). Una serie di posizioni ideali, che prefiguravano nella variante neoliberale di integrazione comunitaria la forma migliore per rispondere ai nuovi imperativi economici, hanno assunto effetti costrittivi e vincolanti per le società europee in assenza di manifeste conferme empiriche: “gli effetti reali dei discorsi economici sulla globalizzazione sono qualcosa di indipendente dalla veridicità delle analisi” (Hay, 2001). Nelle analisi di Streek (2009) e Hay (2001) questa dinamica viene evidenziata con chiarezza. Per Streek, infatti, per comprendere la reale natura dei cambiamenti istituzionali nel modello welfaristico e delle relazioni industriali, dalla metà degli anni ’90, vi è l’esigenza di spostare l’attenzione dalle forme istituzionali e dalle loro logiche al capitalismo e alle sue logiche. Non è, quindi, la naturale evoluzione delle istituzioni che determina una certa composizione del welfare ma è quella del capitale in quanto succedersi di politiche capitalistiche e semmai la storia degli ideali neoliberali che precedono e determinano queste politiche. Forme ideali si sono così istituzionalizzate determinando una azione normalizzante di assetti preesistenti non associabili alle logiche del pensiero neoliberale, un cosiddetto effetto roll back 1 sulle forme istituzionali preesistenti. Il risultato è stato una trasformazione dello stato sociale del dopoguerra che è stato ridefinito anche come uno “stato della concorrenza” (Hay, 2003), workfare o welfare capitalistico finanziario2. Politicamente tale processo si è affermato tramite la diffusione del concetto teorico della terza via3, in cui la globalizzazione si affermava sempre più come una forma retorica che da desiderabile diveniva costrittiva. Sollecitati a delineare la politica economica del partito Tony Blair e Gordon Brown risposero con una serie di dichiarazioni che hanno segnato un significativo allontanamento dalla politica precedente del laburismo. Questo riorientamento strategico era chiaramente inserito nel contesto di un discorso di globalizzazione. Il messaggio era semplice. Le pratiche politiche e le ideologie che servirono a sostenere il “liberalismo incorporato” del periodo post-bellico (fordista-keynesiano) non erano più fattibili né desiderabili (Hay, 2003). Tale presupposti teorici di normalizzazione delle istituzioni verso le esigenze del pensiero neoliberale e gli interessi del capitalismo finanziario globalizzato furono standardizzati nei paesi anglosassoni essenzialmente tramite la retorica della globalizzazione. In altri contesti europei un diverso concetto teorico, ricomprese questi concetti teorici, il processo di integrazione europea dagli anni ’90: “l’Unione europea si trova di fronte a un cambiamento epocale derivante dalla globalizzazione. Queste sfide influenzano ogni aspetto della vita delle persone e richiedono una trasformazione radicale dell’economia e della società europea” (Conclusioni presidenziali, Consiglio europeo speciale di Lisbona, marzo 2000).
In un certo numero di Contesti europei, è il processo di integrazione europea, quindi, (spesso nella forma dei criteri di convergenza dei parametri di Maastricht) che ha svolto una azione costrittiva per l’attuazione di riforme sociali ed economiche altrove legittimate dai termini imposti dalla globalizzazione. Così per Colin Hay (2001) la standardizzazione delle forme istituzionali proprie del neoliberalismo è avvenuta in alcuni casi, mediante il concetto della globalizzazione, sia in termini costrittivi, che nell’affermazione di progetti e soluzioni politiche contingenti e convenienti, in altri casi al concetto di globalizzazione si è avvicendato un ulteriore processo retorico quello della integrazione europea post-Maastricht, che anche in questo caso può aver assunto il valore di una inesorabile costrizione esterna o di un conveniente progetto politico contingente (Figura 1).
Fig. 1 Le forme di espressione della retorica neoliberale mediante i concetti di Globalizzazione e Integrazione Europea degli anni ’90 come vincoli costrittivi o progetti politici contingenti
Elaborazione su rappresentazione di Hay,2001
La rappresentazione grafica di Hay delinea la diversa traiettoria della retorica neoliberale in alcuni paesi europei. Dalla figura si evidenzia come per la Gran Bretagna questa sia stata unicamente invocata all’interno dei confini ideali della globalizzazione. Utilizzata per legittimare riforme interne tendenti ad affermare la liberalizzazione del welfare e del sistema delle relazioni industriali. Tale retorica è stata utilizzata sia come vincolo esterno costrittivo che come consapevole, conveniente e contingente opportunità politica. Il caso francese è, in quasi tutti gli aspetti, del tutto diverso, qui è il processo di integrazione europea che è all’origine delle riforme sociali ed economiche neoliberali dell’inizio degli anni ’90, sia come una costrizione esterna inesorabile che come una scelta politica consapevole e contingente. Per la Germania il processo di integrazione europea è nato come un progetto politico contingente e conveniente per divenire poi una inesorabile esterna condizione imposta dalla globalizzazione. Caso estremo e particolare è quello italiano. Qui l’integrazione europea imposta dalle sfide della globalizzazione è stata vista e interpretata soltanto come una costrizione esterna inesorabile, senza nessuna forma di ricerca di un consapevole consenso interno a tali politiche mediante la proposizione di un progetto politico contingente e potenzialmente modificabile. Così gli attori politici in Italia dall’inizio degli anni ’90 hanno fatto appello al processo di integrazione come a un imperativo economico esterno salvifico e modernizzante. Il processo di unificazione monetaria europea è stato scelto come unico strumento di salvezza e risanamento della salute e della competitività dell’economia e della società nazionale (Hay, 2001). Come osserva Vivien Schmidt (2002), “in nessun altro paese il discorso dell’integrazione europea ha giocato un ruolo così centrale nel promuovere la dolorosa accettazione di cambiamento dalle traiettorie ideali e politiche post-keynesiane”.
Ma questa dinamica di retorica neoliberale nella ridefinizione delle forme del welfare è ancora in atto o ha terminato il suo percorso ed è dunque storicizzabile? Alcuni (Streek, 2011; Crouch, 2009; Barba e Pivetti, 2009) sostengono conclusa l’azione delle forme istituzionali nate dalla retorica neoliberale. Questo è avvenuto per la non più prorogabile sostenibilità delle condizioni macroeconomiche che avevano dato vita allo strumento che ne garantiva la stabilità, il keynesismo privatizzato4 (Crouch, 2009, 2011; De Minicis, 2017; 2018).
Se questa analisi è vera, ci chiediamo se nei primi anni post-crisi si sia sviluppata o no una generale presa d’atto di questo processo di storicizzazione delle forme retoriche e istituzionali neoliberali.
È lo stesso Crouch che prova a problematizzare la questione in un testo dal titolo esemplificativo “The Strange no death of the neoliberalism” (2011). Il titolo del libro di Crouch trae ispirazione da un pamphlet del 1936 di George Dangerfield dal titolo “The Strange Death of Liberal England” in cui si descrivevano le cause della fine del potere dell’ideale e della retorica liberale e degli attori politici da esso ispirati all’inizio del novecento. Crouch si chiede perché dopo il 2008, con lo schianto del modello capitalistico finanziario neoliberale, questo non sia avvenuto. Affermandosi, invece, una lenta fase di contrastata no death della traiettoria neoliberista. Con una narrazione della crisi che sembra aver preso uno strano e non previsto tragitto.
La crisi finanziaria ha riguardato le banche e i loro comportamenti, ma la soluzione è stata individuata in un definitivo ridimensionamento del welfare state e della spesa pubblica. La risposta a questo enigma sta per Crouch nella natura del modello capitalistico affermatosi sulla spinta dell’ethos neoliberale, un sistema che ha portato all’affermazione di giant corporation che esercitano un’influenza diretta sugli attori politici e istituzionali mediante attività di lobbying e costruzioni di comuni interessi economici.
Ma in questa analisi quello che mi preme esaminare più profondamente e la dinamica in cui questo condizionamento si manifesta, che credo, non sia soltanto determinato dal potere e dagli interessi delle giant corporation ma derivato anche dalla particolare natura del neoliberalismo ripercorrendo, così, le osservazioni fatte sul potere costrittivo della retorica neoliberale. Negli anni post-crisi, infatti, il neoliberalismo ha saputo condurre la narrazione ideale della crisi finanziaria ancora per la sua capacità di rendere fluida, adattabile ed empiricamente non misurabile la sua azione retorica (Craig, 2015). L’enfasi neoliberale, infatti, non è da considerare come un modello teorico che dà forma ad un sistema istituzionale strutturato e pre-definito riproponibile nel tempo e nello spazio, ma è da osservare più come una propensione che produce un comune sentire. Un ethos retorico, quindi, che si presenta con una molteplicità di idee, pensieri, notizie, ricerche, analisi che convergono tutte verso lo stesso obiettivo, stabilire ancora una volta l’egemonia della logica e della governance del mercato sulla società. Presentandosi in alcuni casi in termini persuasivi, convenienti e affascinanti vedi il caso della terza via o della produzione scientifica ad esso riferibile5, in altri casi, invece, affermandosi come un vincolo esterno costrittivo, inesorabile e in alcuni casi oppressivo. Dove, infatti, i governi, per qualsiasi logica perversa, sono ancora attratti da una prospettiva macroeconomica espansiva unilaterale, allora in queste situazioni interviene l’integrazione dei mercati finanziari per assicurare una rapida emorragia dei fondi investiti. L’influenza di una tale visione non è difficile da dimostrare, come attesta il rapporto del Fondo monetario internazionale sulle “opportunità e sfide” presentate dalla globalizzazione. “I mercati finanziari internazionali servono a ‘dirigere’ i governi incoraggiando l’adozione di politiche appropriate e, infine, premiando le buone politiche” (Fondo Monetario Internazionale, 1997)” (Hay, 2003).
Ma fino a quando l’ethos neoliberale può supportare una visione della crisi a lui favorevole, riaffermando le logiche economiche e la sue retoriche normalizzanti dei sistemi sociali ed economici? Le vicende della Brexit come quelle espresse dal voto democratico nella maggioranza degli stati europei evidenziano come questa possibilità sia sottoposta a notevole pressione. Rafforzando l’idea di una crisi sempre più evidente nel rapporto tra capitalismo neoliberale e democrazia. In tal senso l’evoluzione e la natura dell’ethos neoliberale sembrano confermare l’analisi di Streek (2011) su una oggettiva e immutabile condizione di crisi della democrazia capitalistica. Così quello che sta accadendo a dieci anni dalla crisi finanziaria del 2008 per il sociologo tedesco può essere considerato come l’ultima fase di questo continuo succedersi di crisi nella democrazia capitalistica: “con il crollo del keynesismo privatizzato nel 2008, la crisi del capitalismo democratico post-bellico è entrato nel suo quarto ed ultimo stadio”. Una quarta e ultima fase in cui non sembra delinearsi ancora una stabile situazione di tregua e in cui l’ethos retorico neoliberale appare forse indebolito ma sempre vitale e belligerante, capace di rigenerarsi con forme, soggettività e concetti inaspettati e sempre più costrittivi.
*Ricercatore Inapp; le opinioni espresse nell’articolo non rappresentano necessariamente quelle dell’Istituto di appartenenza
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