Gli anniversari che preoccupano la Cina
di LIMES (Giorgio Cuscito)
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Il 2019 della Cina sarà segnato da significativi anniversari geopolitici, dal rallentamento dell’economia e dall’approfondirsi del duello con gli Usa. La combinazione di questi fattori metterà alla prova la leadership del Partito comunista e del suo segretario Xi Jinping, che lo scorso anno ha accentrato ulteriormente il potere decisionale eliminando il limite dei due mandati per la carica di capo di Stato.
Il 1° ottobre la Repubblica Popolare compirà 70 anni. L’evento scandirà l’avvicinamento al centenario della sua fondazione, orizzonte temporale entro cui la nazione cinese dovrà “risorgere”, come prefigurato da Xi. Di qui a ottobre, due eventi spingeranno le forze di sicurezza cinesi a elevare la soglia di attenzione.
Il primo è il centenario del movimento 4 maggio. Quel giorno del 1919, i cittadini dell’allora Repubblica di Cina protestarono contro il governo per non aver ottenuto la restituzione dello Shandong durante la stesura del Trattato di Versailles, al termine della prima guerra mondiale. Quell’evento accrebbe il nazionalismo nel paese. Tra i giovani scesi in piazza vi era anche Mao Zedong, futuro fondatore della Repubblica Popolare.
Poi ci sarà il 30° anniversario delle proteste di piazza Tiananmen, che ricorrerà il 4 giugno. Al centro di entrambi questi eventi storici vi era l’Università di Pechino. Ciò spiega perché Qiu Shuiping, ex capo dell’ufficio del ministero per la Sicurezza dello Stato a Pechino, sia stato nominato segretario di Partito dell’ateneo. Evidentemente Xi non vuole che emergano nuove “tempeste politiche”, terminologia usata in Cina per alludere ai fatti di Tiananmen. Il presidente l’ha menzionata sia nel discorso d’inizio anno sia in quello realizzato per festeggiare i 40 anni dal lancio della politica di riforma e apertura.
Pechino intensificherà gli sforzi per innalzare la qualità della vita degli abitanti e ridurre il divario di ricchezza tra costa ed entroterra. Il Partito deve garantire il benessere per preservare il consenso. Durante il discorso d’inizio anno, Xi ha detto che nel 2018 dieci milioni di abitanti sono stati elevati dalla soglia di povertà. Entro il 2020, lo stesso dovrebbe accadere ai restanti 30 milioni. Nel 2019 l’economia cinese potrebbe tuttavia subire un nuovo rallentamento. Il tasso di crescita del pil dovrebbe infatti scendere dal 6,6 al 6,2%. Misure per stimolare la crescita nel breve periodo sono già sul tavolo, ma il miracolo del modello trainato da esportazioni e investimenti si sta esaurendo. Xi ha annunciato una nuova fase di riforme che favorisca i consumi interni, il settore privato e l’apertura alle aziende straniere, ma non ha ancora introdotto cambiamenti paragonabili a quelli attuati da Deng Xiaoping quarant’anni fa.
Malgrado l’accentramento decisionale registrato negli ultimi due anni, il presidente potrebbe non essere ancora riuscito a liberarsi completamente di quelli che nel Partito, nelle Forze armate e nel tessuto economico cinese vorrebbero preservare lo status quo. Lo scorso anno, sono state arrestate 23 “tigri” (funzionari di alto rango), cinque in più rispetto al 2017. Quest’anno la campagna anticorruzione avviata nel 2013 dovrebbe proseguire con la medesima intensità.
Sul fronte sicurezza, Pechino intensificherà la “sinizzazione” del Xinjiang, regione più occidentale del paese e popolata dagli uiguri, turcofoni e musulmani. I campi di rieducazione per i presunti individui radicalizzati sono aumentati e nel 2018 hanno attirato le critiche dell’Onu e degli Usa. Pechino ha da poco invitato un numero ristretto di giornalisti a visitare il Xinjiang e ha detto di essere disposta ad accogliere anche i funzionari delle Nazioni Unite, a patto che “rispettino il diritto cinese e le procedure di rilievo” ed “evitino di interferire nelle questioni domestiche”. Tradotto: non potranno ispezionare a loro piacimento la regione.
Nel Xinjiang, la soglia di attenzione sarà particolarmente alta nella settimana del 5 luglio, quando ricorrerà il decimo anniversario dalle violenze di Urumqi. Nel 2009, qui le tensioni tra uiguri e han e il conseguente intervento delle forze di polizia causarono la morte di circa 200 persone.
Le tecniche di monitoraggio utilizzate nel Xinjiang potrebbero essere applicate in altre parti della Cina. A inizio gennaio, il governo ha approvato un piano quinquennale per “sinizzare” l’islam, cioè adattarlo agli usi e costumi della maggioranza han. Il Gansu (abitato dai musulmani hui) ha firmato un accordo di collaborazione antiterrorismo con il Xinjiang e Hong Kong sta studiando le sue tecniche di monitoraggio.
Non passerà inosservato neanche il sessantennio dalla fuga del Dalai Lama in India, che cadrà il 17 marzo. Nel corso di questi anni, Pechino si è assicurata il controllo del Tibet, ma la presenza del leader spirituale buddista in India resta una ferita aperta nei rapporti con Delhi, oggi preoccupata dagli investimenti cinesi nell’Oceano Indiano.
Sul piano tecnologico, la Cina intensificherà gli sforzi per diventare “autosufficiente” (zili gengsheng). La Cina vuole ridurre la dipendenza dalla filiera produttiva a stelle e strisce per evitare che Washington ostacoli i suoi progressi nel campo dell’intelligenza artificiale – essenziale per lo sviluppo economico e militare – danneggiando i suoi giganti tecnologici. Basti pensare a quanto sta accadendo a Zte e Huawei, entrambe considerate una minaccia alla sicurezza nazionale statunitense.
Il primo ordine dato da Xi all’Esercito popolare di liberazione (Epl) nel 2019 è stato di “essere pronti alla battaglia”. Lo scorso anno, l’Epl ha condotto 18 mila esercitazioni. Pechino potrebbe incrementare tali attività per accumulare esperienza di combattimento reale e mostrare i muscoli agli Usa. La Cina potrebbe aumentare le operazioni nel Mar Cinese Meridionale, che ha puntellato con isole artificiali ben attrezzate per usi militari e civili. Pechino vuole dominare questo bacino d’acqua per proteggere la costa da potenziali attacchi nemici, assicurarsi il controllo dei traffici commerciali che lo attraversano e instillare in Taiwan l’idea per cui la riunificazione spontanea è l’unica soluzione per evitare un conflitto a cavallo dello Stretto di Formosa.
Nel celebrare i 40 anni dal “messaggio ai compatrioti di Taiwan“, il 2 gennaio Xi ha messo in chiaro che la Cina “deve essere e sarà” riunificata”, ma non ha introdotto sostanziali novità rispetto a quanto già affermato in passato. L’annessione dell’isola è un passo indispensabile del “risorgimento” della nazione. L’uso della forza resta un’opzione, ma Xi vorrebbe che Formosa accettasse la formula “Un paese, due sistemi” (yiguo, liangzhi), che regola i rapporti con le ex colonie di Hong Kong e Macao. Tale sistema conferisce loro maggiori libertà politiche, economiche e sociali rispetto al resto della Cina. Allo stesso tempo determina la loro progressiva integrazione nel suo sistema politico ed economico. Se Taiwan abbracciasse questo modello rinuncerebbe alla sua indipendenza de facto. La presidente taiwanese Tsai Ing-wen ha per ora respinto il piano di Xi, convinta che la Cina non attaccherà l’isola nel timore che Usa e Giappone intervengano.
La Cina è insomma oberata dalle sfide di natura domestica. Per questo vuole che i negoziati commerciali in corso con gli Usa vadano a buon fine prima del 1° marzo, giorno in cui (salvo ulteriori rinvii) cesserà la “tregua” commerciale concordata da Trump e Xi a dicembre. Anche se Washington e Pechino trovassero un accordo, ciò non basterebbe a rovesciare la parabola discendente delle relazioni sino-statunitensi. Gli Usa vogliono indurre la Cina al declino colpendola sul fronte economico-tecnologico prima che questa ne eguagli la potenza. Washington potrebbe adottare nuovi dazi contro i prodotti cinesi, ostacolare le attività dei colossi tecnologici e accentuare le offensive mediatiche contro la Cina in merito alla tutela dei diritti umani. Tali circostanze potrebbero indurre Pechino a rivalersi sulle aziende Usa nella Repubblica Popolare e a usare gli attacchi statunitensi per rinvigorire il sentimento di appartenenza nazionale. Così da distogliere lo sguardo dei cittadini dai problemi endogeni.
Pechino coltiverà i rapporti con la Corea del Nord affinché non entri nella sfera d’influenza degli Usa. La quarta visita di Kim Jong-un in Cina (8-10 gennaio) non pare casuale. Kim ha festeggiato a Pechino il suo compleanno mentre nella capitale cinese erano in corso i negoziati commerciali sino-statunitensi. Un incontro tra il dittatore di Pyongyang e Trump potrebbe avvenire a breve e Xi vuole usare la Corea del Nord come leva negoziale nel dialogo con Washington.
Per la Cina, l’evento di politica estera più importante del 2019 sarà il secondo forum della Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta), previsto a fine aprile. Per ora l’iniziativa infrastrutturale cresce malgrado l’opposizione degli Usa, le preoccupazioni dell’Ue per la penetrazione del Dragone in Europa, i timori dei paesi più fragili per la “trappola del debito”. Pechino potrebbe ricorrere ad alcuni aggiustamenti per impedire che tali fattori compromettano l’iniziativa nel lungo periodo. Resta da vedere se questi si tradurranno in una maggiore attenzione alla qualità e alla trasparenza dei progetti o se avranno solo un ruolo cosmetico.
Vladimir Putin sarà l’ospite d’onore del forum di aprile. La sua partecipazione rimarca il rafforzamento dei rapporti sino-russi in chiave anti-Usa. Washington non potrà completare l’accerchiamento dell’Impero del Centro fino a quando le due potenze eurasiatiche faranno causa comune. Eppure Pechino e Mosca non sono alleate e nel lungo periodo i loro interessi potrebbero confliggere in maniera più evidente. Magari in Asia Centrale o nell’Artico, area in cui la Cina sta consolidando il proprio ruolo, in attesa che lo scioglimento dei ghiacci sblocchi la “via della seta polare” verso Occidente.
Fonte: http://www.limesonline.com/rubrica/cina-2019-anniversari-taiwan-usa-xinjiang
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