Ancora oggi, alla vigilia del 2023, la minaccia passa per le due formazioni che si contendono lo scettro della jihad globale Stato Islamico e Al Qaeda. E la Siria pare essere uno degli snodi in cui si gioca questa partita. L’ultima notizia in ordine di tempo, la morte dell’ennesimo leader dell’Isis, ha riacceso i riflettori sul pericolo delle bandiere nere, ma anche sul fatto che nel Paese la lotta al terrore non è mai finita, e che anzi ci sono ancora fazzoletti del territorio siriano che non possono dirsi liberi dal pericolo islamista.
L’Isis e l’esercito dormiente
A fine novembre le agenzie hanno battuto la notizia che il leader dell’Isis, Abu al-Hasan al-Hashimi al-Qurashi è stato ucciso in combattimento. Secondo gli Usa Abu al-Hasan sarebbe morto a metà ottobre inseguito a uno scontro tra membri dello Stato islamico e ribelli del Free Syrian Army nella zona di Daraa, un centro nel Sud del Paese nel territorio di confine tra Siria e Giordania.
La morte del leader islamista è avvenuta in concomitanza con l’annuncio di una vasta operazione anti Isis che le forze regolari di Damasco hanno lanciato nel Sud del Paese insieme a ex elementi ribelli dell’Fsa. Quasi in contemporanea canali dello Stato islamico hanno confermato la morte del leader. Per il gruppo si tratta del terzo leader ucciso nel Paese. In origine era toccato ad Abu Bakr al-Baghdadi, morto nell’ottobre 2019, poi a febbraio di quest’anno era toccato al successore Abu Ibrahim al-Qurashi. Entrambi uccisi nella provincia di Idlib, l’unica ancora fuori dal controllo delle forze di Damasco.
La guida dei taglia gole sarebbe passata ora a Abu al-Hussein al-Husseini al-Qurashi, un nom de guerre dietro al quale ci sarebbe uno degli ultimi veterani del gruppo. Tra il 2017 e 2019 la formazione ha perso via via il controllo del grande Califfato edificato tra Siria e Iraq, ma non per questo ha smesso di essere una minaccia.
Secondo l’Annual Threat Assessment realizzato dalla United States Intelligence Community, l’entità che racchiude le 17 agenzie del governo federale che si occupano della sicurezza e che viene guidata dal Direttore dell’Intelligence nazionale, i leader dell’Isis continuano a portare avanti il progetto di creare un Califfato tra Siria e Iraq e che soprattutto negli ultimi anni stiano lavorando per ricostruire le proprie capacità, al momento logorando gli avversari e controllando porzioni di territorio limitate.
La strategia è quella di dare priorità ad attacchi contro obiettivi militari e civili così da fiaccare le forze di sicurezza di Damasco e Baghdad ma anche continuare a mantenere una certa rilevanza tra i sostenitori globali del gruppo. Questo risponderebbe a due finalità: tenere alta la tensione etnico-settaria in questi due Paesi e soprattutto resistere al ritorno di Al Qaeda sul fronte dell’attrazione di nuovi miliziani.
Uno degli strumenti attraverso cui l’Isis spera e pensa di poter tornare a contare all’interno della galassia jihadista è quello del “capitale umano”. Il crollo del Califfato non ha infatti risolto il problema degli uomini fedeli all’ideale delle bandiere nere. Ad oggi almeno 10 mila combattenti sono detenuti nei territori delle forze curde appoggiate degli americani. Di questi 5 mila sono siriani, 3 mila iracheni e altri 2 mila foreign fighters.
Questo “esercito in attesa”, come l’ha definito il generale Michael E. Kurilla, comandante dello USCENTCOM, è “sparpagliato” lungo una serie di carceri in tutto il Nord della Siria, in quello che è stato definito come la “più grande concentrazione di terroristi del mondo”. Questo esercito rappresenta solo una parte del problema.
A luglio un dossier delle Nazioni Unite ha messo nero su bianco come al momento la struttura decentrata del gruppo lasci margine per condurre attacchi sanguinosi, ma soprattutto che, al di là della massa di detenuti, ci sia ancora una grossa fetta delle energie jihadiste libere di muoversi attraverso il confine poroso tra Siria e Iraq. Secondo le stime ci sarebbero tra i 6mila e 10mila combattenti concentrati nelle aree rurali tra i due Paesi.
Il nuovo volto di Al Qaeda
Il complesso caos siriano ha rappresentato anche un’occasione d’oro per un’altra formazione jihadista, Al Qaeda. L’organizzazione creata da Osama Bin Laden oltre una trentina di anni fa, negli anni post-11 settembre ha cambiato pelle molte volte e oggi ha tanti volti quanti sono quelli delle sue formazioni decentrate.
Una di queste è quella che oggi controlla una porzione di territorio siriano, il gruppo Hayat Tahrir al Sham (HTS), una formazione che tiene in pugno quasi tutta la regione di Idlib. Nata dalla fusione di gruppi minori insieme all’ex fronte al Nustra, secondo stime dell’Onu è in grado di gestire la regione grazie a un esercito composto da oltre 10 mila miliziani, molti siriani, ma tra i quali militano anche dei combattenti stranieri.
Il gruppo negli ultimi mesi ha mostrato una certa forza, ma soprattutto una capacità di proiettarsi al di fuori della zona sotto il suo controllo. Per un breve periodo ad ottobre Hayat Tahrir al Sham è è stata in grado di entrare nella città di Afrin, nel nord del Paese, mettendo in seria difficoltà tutto il cappello delle opposizioni al regime di Damasco che controlla l’area dopo l’intervento militare turco nel 2018. Alla fine l’occupazione della città è durata poco anche grazie a un ultimatum arrivato direttamente da Ankara, ma è stato la dimostrazione di un gruppo in salute.
Accanto alle capacità militari che ne fanno uno dei gruppi più tenuti di tutto il nord della Siria, HTS da tempo ha lavorato a un forte rebranding per mostrarsi come una forza di opposizione a Damasco credibile cercando in ogni modo di edulcorare il passato qaedista. Anche per questo ha preso di mira un’altra formazione terroristica che opera nel nord della Siria, Hurras al-Din (HAD).
Considerata un’emanazione di Al Qaeda, HAD è nata nel 2018 da una costola dell’ex fronte Al Nusra; è guidata da Abu Humam al-Shami (noto anche con il nome di Faruq al-Suri), tra i fondatori del fronte e storico esponente di Al Qaeda. Secondo le stime Hurras al Din conta ha poche migliaia di affiliati e colpisce raramente, anche se le intelligence dei Paesi occidentali ritengono che al suo interno esista un sottogruppo formato solo da combattenti stranieri e che operi per effettuare attentati fuori dal Paese.
Sempre stando al dossier Onu la leadership di Al Qaeda avrebbe dato l’odine di lasciare la Siria per spostarsi in Afghanistan ma al momento nessun miliziano ha lasciato il Paese. A conferma della pericolosità del gruppo anche il fatto che tra il 2020 e 2021 al-Shami è entrato a far parte del comitato Hittin, un organo interno ad al Qaeda che si occupa della gestione delle leadership globale del gruppo.
Negli ultimi tre anni Hurras al-Din è stata bersagliata con una serie di campagne aeree mirate in particolare dagli Stati Uniti, ultimo raid in ordine di tempo quello compiuto a giugno contro uno dei leader del gruppo nella regione di Idlib.
Il Pentagono considera quelle formazioni come un’emendazione diretta di Al Qaeda e sottolinea come queste stiano usando quella porzione di Siria come un porto sicuro all’interno del quale i miliziani riescono a coordinarsi con affiliati esterni per pianificare operazioni fuori dalla stessa Siria. La prova che oltre all’Afganistan talebano anche la Siria rimane un porto sicuro per il terrore.
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