La trappola della culturizzazione della politica
Di SENSO COMUNE (Robert Pfaller)
Mentre sul piano politico gli stati occidentali ignorano bruscamente i bisogni elementari dei popoli, sul piano culturale mostrano una sempre più raffinata sensibilità. A questo livello promuovono la “sensibilizzazione” e implementano istituzioni ad essa conformi.
Sul piano politico non si attua nulla per combattere la grave diminuzione dei salari reali, che la metà della popolazione ha dovuto subire negli ultimi decenni. Si abbandonano i disoccupati a misure come Hartz IV – al riguardo è significativo che l’attuale governo austriaco di destra-destra stia prendendo a esempio questo programma della socialdemocrazia di Schröder. Il sentimento che i figli non potranno essere più ricchi dei loro padri si è diffuso persino all’interno della classe medio-alta. Questa erosione economica è dovuta anche alla cogestione (Mitbestimmung) dei democratici: grazie ad accordi internazionali come il trattato di Maastricht si sono realizzate realtà sottratte a qualsivoglia controllo democratico. Anche a riguardo delle questioni di politica estera dell’UE buona parte della popolazione condivide il sentimento di non aver mai vissuto ad alcun livello politico una costruzione della volontà democratica.
Al contrario, sul piano della cultura si mostra, proprio ora, una incredibile comprensione per preoccupazioni ancora così piccole o per sensibilità – soprattutto per quelle che sono collegate con questioni come l’identità etnica, culturale, religiosa o sessuale. Si discute apertamente sulle cosiddette microaggressioni, consigliando di evitare parole o gesti che possano ferire qualcuno (per lo più protratti a lungo, prima che effettivamente qualcuno si senta in qualche modo ferito), e si riflette con piena serietà su quanti sessi ci possano essere e se sia sufficiente una porta del bagno oppure no.
Le postmoderne politiche dell’identità non rappresentano una compensazione attenuante, bensì un vieppiù attivo contributo alla produzione neoliberale di crescente disuguaglianza. Questa è la tesi, insita nel concetto di “neoliberismo progressista”, sviluppato dalla filosofa Nancy Fraser. Il postomoderno è il programma culturale del neoliberismo. Questa tesi è corroborabile con almeno due argomenti. In primo luogo realizza un potenziamento della cura dell’individuo per la propria identità, in direzione di una massiva “desolidarizzazione” (Entsolidarisierung) e distruzione delle questioni decisive. Coloro che si preoccupano per la loro identità entrano in una “competizione vittimistica” (Opferwettbewerb) in cui cercano di superarsi l’un con l’altro tramite la cosiddetta “intersezionalità” (Intersektionalität). Con ciò diventano maggiormente incapaci di riconoscere che ci sono interessi più importanti di quelli dell’identità e che, per il perseguimento di questi interessi sarebbe necessario allearsi con le altre identità.
Nel frattempo è stata diffamata una conquista decisiva dell’emancipazione borghese. L’odio fomentato dalle politiche dell’identità per “gli uomini bianchi eterosessuali“ punta infatti verso il programma generale politico ed etnico dell’universalismo borghese. I borghesi avevano considerato – prima classe nella storia a far ciò – se stessi non come classe particolare, bensì come classe generale (allgemeine Klasse) (la classe lavoratrice la seguirà più tardi), e avevano concepito la loro liberazione non solo come propria, bensì come liberazione dell’intera società. L’istituzione di un sistema legale che prescinda dalla persona singola e un approccio civile che mantenga la questione dell’ ‘”identità” sullo sfondo sono i successi propri della classe borghese. Allo stesso tempo, questi costituiscono il bottino attorno al quale ogni volontà di emancipazione di quei gruppi identitari deve combattere. Al contrario, denigrare l’impersonalità della legge e l’habitus del comportamento civilizzato, sulla scorta della politica identitaria, contribuisce alla polverizzazione neo-liberista, alla re-feudalizzazione e alla re-tribalizzazione della società.
Esattamente nella misura in cui il neoliberismo ha privato le persone della prospettiva di un avvenire migliore, la propaganda della politica identitaria è venuta in suo aiuto e ora fa si che essi, invece di guardare avanti, si guardino indietro: chi non ha più un “avvenire” (Zukunft), ha bisogno di più “radici” (Herkunft [letteralmente: provenienza, NdT]). E chi non può più sperare di diventare qualcosa di interessante, deve semplicemente reclamare di essere qualcosa di prezioso e vulnerabile.
In secondo luogo, nei ricchi stati occidentali, il neoliberismo ha portato alla distruzione del ceto medio. Questo aveva raggiunto, durante il periodo keynesiano nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, un certo benessere e prestigio, mentre la classe media inferiore formata da lavoratori e impiegati subì ingenti danni tanto in termini di salario reale, quanto in termini di prestigio sociale. Una si è presa cura della redistribuzione economica, l’altra di quella culturale. I precedenti impegni di emancipazione come neo-marxismo, femminismo o anti-razzismo erano praticati principalmente a livello di cultura e trasformati in campi di attività non impegnativi come la decostruzione, la teoria di genere e gli studi postcoloniali. Essi hanno perciò perso di rilevanza sociale, ma hanno con ciò acquisito raffinatezza e complessità – e soprattutto “valore distintivo” (Distinktionswert). In più, con tutte queste cose, nate originariamente dalla miseria degli sfruttati, si poteva improvvisamente mostrare di essere qualcosa di migliore. La politica dell’identità ha redistribuito verso l’alto, alle élite, la sofferenza sociale e il suo riconoscimento.
Una ragione decisiva per questo sviluppo potrebbe risiedere nel fatto che dagli anni 80 i partiti di centro-sinistra in Europa e oltremare non si sono più distinti dai loro avversari conservatori e neoliberisti, per quanto riguarda la politica economica. L’unica differenza sopravvissuta doveva quindi essere marcata al livello culturale. Questa “culturalizzazione” (Kulturalisierung) della politica di sinistra ha fatto sì che problemi fondamentalmente economici venissero trattati solo sul piano della sovrastruttura ideologica – come se a questo livello si potesse fare qualcosa per risolverli. Quando, per esempio, lo stato sociale, che aveva rappresentato una necessità, all’interno delle richieste del movimento femminista degli anni 70, fu smantellato negli anni 80 attraverso programmi di austerità, si “risarcirono” (entschädigte) le donne con la “Binnen-I” [una strategia linguistica tedesca, usata per scrivere le forme plurali delle “funzioni pubbliche” o delle “mansioni”, atta a evitare il plurale maschile in presenza di oggetto designato sessualmente misto, NdT] e altre complicazioni verbali simili.
L’odio provato dagli abitanti delle città operaie e dei distretti lavorativi caduti in rovina contro la cosiddetta “sinistra culturale” (Kulturlinke), può, su questo sfondo, diventare comprensibile. La sinistra culturale è non ingiustamente percepita come una élite distinta, che può permettersi il lusso di atteggiamenti “umani” e con ciò declassare gli elementi restanti. La pseudopolitica simbolica contribuisce in modo non irrilevante alla perdita della connessione dello strato inferiore del ceto medio a quello superiore della società. Questa crescente perdita di prospettiva ha d’altra parte come suo risultato il fatto che questa classe s’impegni meno nella risalita (nach oben zu kommen), rispetto a quanto, invece, le classi a lei subordinate si sforzino per raggiungerla – come per esempio i migranti ambiziosi.
Da un lato, mentre la postmoderna politica dell’identità riduce costantemente le persone a varie appartenenze e origini, dall’altro, adottano il pathos preborghese e illuminato della “messa al bando dei pregiudizi” (Beseitigung von Vorurteilen) e propagandano l’accesso al mercato senza ostacoli per tutti e la concorrenza leale. Tuttavia, in condizioni di partenza sempre più disomogenee, tale politica non è equa, ma crea ulteriore ingiustizia. Perché essa abolisce del tutto la concorrenza, addebitando essa, più che il lavoro, diversi handicap, effettivi o presunti.
Ma anche nelle condizioni più favorevoli, la politica di “non discriminazione” non può creare giustizia: come ha giustamente osservato il teorico e attivista dell’emancipazione dei neri negli Stati Uniti d’America, Adolph Reed, in una società del genere, l’1% della popolazione avrebbe ancora il controllo del 90% delle risorse. I colori della pelle e le sessualità sarebbero solo distribuite in ugual modo sopra la disuguaglianza. D’altra parte, se questo piano inclinato fosse più piatto o addirittura orizzontale, la discriminazione sarebbe resa più difficile o addirittura impossibile: non ci sarebbero più posti impari per disperdere i vari gruppi.
Se si affrontano i problemi dell’identità e della classe dal lato dell’identità, di solito nessuno dei due trova soluzione. Ma se li si affrontano dal lato della classe, molto spesso li si risolverà entrambi. Perché in una società che si sta muovendo verso l’uguaglianza, le persone non si preoccuperanno più delle loro identità. Non presteranno più attenzione a ciò che dovrebbero essere, ma a ciò che potrebbero diventare.
Robert Pfaller è professore di filosofia e studi culturali presso l’Università di Arte e Design di Linz. Tra le sue opere principali vi sono Interpassivität. Studien über delegiertes Genießen, 2000 (Interpassività, Studi sul piacere delegato), Die Illusionen der anderen, 2002 (Le illusioni degli altri), Wofür es sich zu leben lohnt. Elemente materialistischer Philosophie, 2012 (Per cosa vale la pena vivere, elementi di filosofia materialista). La sua ultima opera, Erwachsenensprache (2017, Linguaggio per adulti: sulla sua scomparsa dalla politica e dalla cultura) approfondisce i temi trattati in questo articolo.
Da www.jpg-journal.de, 13. 8. 2018. Traduzione a cura di Giulio Menegoni
Fonte: https://www.senso-comune.it/rivista/in-teoria/la-trappola-della-culturizzazione-della-politica/
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