- Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio a Strasburgo. Imagoeconomica
L’ultimo mantra del fronte sovranista/populista, declinato nelle sue varie sfumature, è servito: la Francia sfrutta l’Africa attraverso il signoraggio monetario del franco Cfa e, in questo modo, drena risorse, impoverando quei Paesi da cui la gente scappa per venire in Italia. Spesso e volentieri, morendo nel Mediterraneo.
Semplicistico. Di fatto, falso come una banconota del Monopoli. Ma efficace a livello mediatico e, soprattutto, social. Se infatti la questione del franco africano o Cfa è meramente legata a una questione di bilanciamenti di riserve cui la Banca centrale francese fa da garanzia rispetto al rischio sui cambi, quindi nulla che dreni risorse agli investimenti in loco, più interessante è come la vera colonizzazione in atto in Africa stia bellamente passando sotto silenzio. E non da oggi. Esattamente, dalla fine di luglio del 2012, quando a Pechino si tenne il 5° Forum di Cooperazione Cina-Africa, ribattezzato poi dagli analisti geopolitici “Conferenza di Pechino” per la sua importanza strategica, paragonata appunto alla Conferenza di Berlino del 1885, in cui nacque di fatto l’Africa post-coloniale con logica spartitoria delle grandi potenze.
Primo dato interessante: a quel Forum, l’unico soggetto privato che fu invitato rispondeva al nome di Goldman Sachs. Secondo, la Cina annunciò investimenti in Africa per 20 miliardi nei tre anni successivi, un tassello nel mosaico di investimenti partiti nel 2010 nel Continente africano per un ammontare di 101 miliardi, 90 dei quali legati direttamente a costruzioni e risorse naturali, fra cui 7,5 miliardi di progetti minerari con Sud Africa e Zambia, come mostrano questi grafici.
- Stratfor
Il secondo dei quali, qui sotto, mostra la magnitudo dell’intervento cinese in Africa. E, soprattutto, l’accelerazione di quella che assume con il tempo sempre più il carattere di una colonizzazione. Ma, occorre essere sinceri, senza sparare un proiettile. E, soprattutto, nella gran parte dei casi, salutata con gioia e soddisfazione dai governi locali.
- John Hopkins Sais/Credit Suisse
Quali conseguenze, però? Il grafico parla chiaro e schematizza i dati al riguardo elaborati dalla China-Africa Research Initiative della Johns Hopkins School of Advanced International Studies, in base ai quali la Cina ha “prestato” un totale di 143 miliardi di dollari a 56 nazioni africane, soprattutto attraverso l’operatività della Export-Import Bank of China e della China Development Bank. A livello settoriale, quasi un terzo dei prestiti sono andati a finanziare progetti legati ai trasporti, un quarto all’energia e il 15% verso le risorse minerarie di vario genere (e utilizzo, dai processori di smartphone e pc fino agli idrocarburi).
Soltanto l’1,6% del totale stanziato è andato a programmi educativi, sanità, tutela ambientale, alimentazione e settore umanitario.
Insomma, Pechino non fa mistero delle finalità della sua missione africana: il comparto commodity e commercio, innanzitutto.
E anche la scelta dei principali beneficiari degli aiuti non è casuale, visto che sono sette i Paesi – Angola, Camerun, Kenya, Repubblica del Congo, Etiopia, Sudan e Zambia – che pesano per i due terzi degli stanziamenti cumulativi cinesi nel 2017, con l’Angola che da sola ha beneficiato del 30%, pari a 43 miliardi di dollari o il 35% del suo Pil. L’Angola, nemmeno a dirlo, è piena di petrolio. Non a caso, recentemente proprio quel Paese ha stretto un ulteriore accordo loans-for-oil con Pechino, la quale è ben felice di aver siglato un contratto più che vantaggioso per la fornitura di greggio, a fronte del debito legato al settore infrastrutturale che strangola il governo di Luanda.
Stando a uno studio dell’Fmi dell’aprile 2018, in base ai dati a disposizione a fine 2017, circa il 40% delle nazioni a basso reddito dell’Africa sub-sahariana erano in condizioni debitorie fuori controllo o a forte rischio di non sostenibilità delle dinamiche dei conti pubblici, fra cui l’Etiopia, la Repubblica del Congo e lo Zambia. E questo Pechino lo sa bene. Talmente bene che nel settembre 2018, parlando al Forum triennale di Cooperazione Cina-Africa, Xi Jinping in persona – senza che alcun governo o esponente politico occidentale avesse nulla da eccepire – arrivò a definire gli investimenti cinesi in Africa with no strings attached, quindi senza un doppio fine o alcun obbligo accessorio per i governi che li ricevevano e annunciò altri 60 miliardi di dollari di stanziamenti entro il 2021. Peccato che nell’arco di nemmeno un mese, la verità fece capolino, ancorché silenziata. Se la Kenya Railways Corporation farà default sul prestito concessogli con tanta magnanimità e disinteressatamente dalla Exim Bank of China, lo strategico porto di Mombasa diventerà cinese. Al centro della disputa, il cosiddetto Madaraka Express, ovvero una linea ferroviaria interamente finanziata e costruita da cinesi, i cui costi sono lievitati in maniera folle durante i lavori, spingendo molti osservatori esterni a questionarne l’attuabilità e la validità a livello finanziario. Pechino non fece un plissé: in base agli accordi con il governo del Kenya, in caso di fallimento le autorità cinesi avrebbero pieno diritto a un ricorso e alla facoltà di rivalersi su assets sotto il controllo del debitore. Ma oltre a Kenya e Angola, anche lo Sri Lanka ha avuto un esempio pratico del concetto di no strings attached cinese, visto che l’incapacità di ripagare in pieno il debito da 8 miliardi di dollari legato a progetti infrastrutturali contratto con Pechino, ha garantito a quest’ultimo nel dicembre del 2017 l‘ottenimento per una sua sussidiaria statale di una quota di controllo per 99 anni in leasing operativo del secondo porto del Paese, Hambantota.
Stesso destino, di fatto, capitato al nuovo porto di Gwadar in Pakistan, direttamente sullo strategico Golfo di Oman: il 90% delle sue revenues, infatti, per contratto di finanziamento finiscono a un operatore cinese, la China Overseas Port Holding. Non a caso, l’infrastruttura è la punta di diamante del cosiddetto China-Pakistan Economic Corridor (Cpec), a sua volta inserito nel mega-progetto infrastrutturale cinese conosciuto come One Belt, One Road o Maritime Silk Road.
Insomma, un palese esempio di investimento senza doppio fine. Quasi a fondo perduto. Ma se la Cina si muove forza quattro in Africa, garantendo finanziamenti che spesso sono finalizzati a una logica quasi da strozzinaggio verso governi corrotti e indebitati e riservando alle necessità dei popoli – quelli che scappano – solo le briciole di quegli investimenti, gli Usa non sono da meno. Ma preferiscono colonizzare attraverso la presenza militare, a sua volta garantita e quasi benedetta degli autoctoni in nome della lotta al terrorismo e al fondamentalismo.
Di fatto, un do ut des verso Washington che si sostanzia in un’implicita assicurazione sulla vita da future esportazioni di democrazia. Il 2 agosto scorso, prendendo il comando dello US Army Africa o Africom (Us African Command), il generale Roger L. Cloutier fu molto chiaro rispetto alle finalità della presenza statunitense: “Hit the ground running“.
E nonostante gli Usa non stiano combattendo ufficialmente alcuna guerra in Africa, nel Continente sono presenti circa 7.500 militari americani (inclusi circa 1.000 contractors privati), oltre 4mila dei quali sono dispiegati nell’Africa dell’Est, con la Somalia che da sola ha visto raddoppiare il numero di divise Usa sul suo suolo in un anno. In generale, solo l’anno scorso i militari statunitensi erano meno di 6mila. Particolarmente attive sono le forze specali, fra cui reparti dei marines e Navy Seals, le quali attualmente stanno operando circa 100 missioni in 20 nazioni africane: stando al settimanale Vice, annualmente sono 3.500 le operazioni di militari Usa nel Continente africano, una media di 10 al giorno e qualcosa come il 1.900% di aumento negli ultimi dieci anni. Particolarmente importante è l’operatività della sorveglianza tramite i droni, la quale contempla anche missioni operative di intelligence di raid oltre-confine. In tal senso e con tale finalità, è in costruzione un’enorme base a Agadez, la più grande città del Niger centrale, dalla quale quest’anno decolleranno i primi MQ-9 Reaper, droni con un capacità d’azione di 1.850 chilometri, capaci di offrire supporto logistico per operazioni nell’Africa del Nord e dell’Ovest e armati con bombe GBU-12 e missili aria-terra Hellfire.
- La base Usa ad Adagez (Niger). AP
Attualmente in Niger sono presenti circa 800 militari statunitensi, il tutto con una base droni già operativa e quella di Agadez in costruzione: se per The Hill, quest’ultima “rappresenta l’infrastuttura militare dell’aeronautica Usa più grande di tutti i tempi”, Business Insider ha confermato che “la presenza Usa in Niger è seconda solo a quella dell’unica base militare permanente degli Stati Uniti in Africa, Camp Lemmonier a Djibouthi“.
E questi due grafici mettono la questione in prospettiva, spiegando il motivo per cui gli Usa nel 2014 hanno siglato di corsa con il governo di quel Paese un rinnovo ventennale dell’utilizzo del complesso e promesso lavori di espansione e ammodernamento per oltre 1,4 miliardi di dollari.
- Reuters
Djibouthi è il punto di osservazione e controllo perfetto su uno dei chokepoint di passaggio del traffico petrolifero più importanti del mondo, lo stretto di Bab El-Mandeb con i suoi ormai 4,7 milioni di barili di greggio transitanti ogni giorno. Non a caso, nel 2017 la Cina ha strappato al governo di Djibouthi – pagando un prezzo molto alto a livello di investimenti in una nazione con meno di 1 milione di abitanti, fra cui la costruzione di porti, strade, aeroporti e una ferrovia diretta e ultramoderna verso la capitale dell’Etiopia, Addis Abeba – il via libera per una sua base nell’area della capitale, proprio come contraltare e sorvegliante di Camp Lemmonier.
Avamposto che ufficialmente servirà come supporto logistico a missioni sotto l’egida dell’Onu e per operazioni anti-pirateria ma che per la rivista The Diplomat formalmente garantirà alla Cina la sua presenza almeno fino al 2026 e con fino a 10mila soldati di stanza.
- The New York Times
Detto fatto, a marzo dello scorso anno gli Usa hanno siglato un accordo militare con il Ghana – spacciato per memorandum d’intesa sui termini di operatività nel Paese – che include la costruzione di strutture militari da parte dell’esercito statunitense, decisione che ha suscitato la protesta della popolazione.
Proprio sicuri che la questione del franco Cfa sia così dirimente per i destini dell’Africa e la sofferenza della sua gente in fuga? Davvero, al netto della reale colonizzazione dell’Africa da parte di Cina e Usa, si tratta di un argomento che vale una crisi diplomatica con la Francia, come auspicato e prontamente ottenuto da Alessandro Di Battista?
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