L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha recentemente pubblicato la Relazione annuale sulle convalide delle dimissioni e risoluzioni consensuali delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri, relativa al 2017. Il documento conferma una verità già conosciuta da tempo, ma che stenta ad acquistare la dovuta risonanza nel dibattito pubblico: la crisi del lavoro sta avendo in Italia ripercussioni devastanti sia sulle condizioni economiche delle donne, sia sulla sfera familiare delle generazioni al di sotto dei quarant’anni.
Negli anni che vanno dal 2011 al 2017 le neo-madri (con figli entro i tre anni di età) che non sono tornate al lavoro sono quasi raddoppiate: da 17.175 a 30.672. Il dato si fa ancor più preoccupante se si considera che il fenomeno nello stesso lasso di tempo ha riguardato anche i neo-padri: il numero che ha dovuto abbandonare il lavoro per dedicarsi alla prole è aumentato di quasi diciotto volte, dai 506 del 2011 ai 9.066 del 2017. Questo dato, se isolato, potrebbe far pensare ad una più equa ridistribuzione del lavoro di cura fra i due sessi. Ma non affatto è così. Al maggior numero di uomini che lascia il lavoro per dedicarsi ai figli non corrisponde infatti un maggior numero di donne che riescono a mantenere il proprio impiego: piuttosto, sempre più spesso avere un figlio significa costringere un membro della coppia a rinunciare al proprio lavoro, mentre laddove entrambi i partner scelgono – o sono costretti – di dare priorità al lavoro, ciò può significare la rinuncia definitiva ad avere bambini. In totale, dal 2011 al 2017, il numero di neo-genitori che hanno dovuto abbandonare il lavoro è più che raddoppiato, e nessun indicatore lascia sperare che il dato abbia invertito la tendenza nel 2018.
In una generale condizione di precarietà e incertezza contrattuale, il 52% (20.609) dei neo-genitori che è costretta ad abbandonare il lavoro per farsi carico della cura dei figli ha meno di tre anni di anzianità di servizio, e un altro 38% (14.978) ha un’anzianità di servizio compresa fra i 3 e i 10 anni. Solo nel 10% dei casi a lasciare il lavoro per badare ai figli è qualcuno che ha un lavoro da più di dieci anni: si conferma dunque un “rapporto inversamente proporzionale tra dimissioni/risoluzioni convalidate e anzianità di servizio medio-bassa delle lavoratrici madri/dei lavoratori padri interessati”. In soldoni: più un lavoro è stabile e sicuro, più è probabile che una neo-mamma non lo perda quando ha un figlio.
Più di un terzo (15.825) dei neo-genitori costretti a lasciare il lavoro imputa chiaramente alla “incompatibilità tra l’occupazione lavorativa e le esigenze di cura” le cause dell’abbandono. Una delle conseguenze più immediate, oltre alla drammatica ricaduta nella condizione di dipendenza economica di moltissime donne, è la drastica diminuzione della propensione alla genitorialità. Se il calo demografico è ormai una costante in Italia da diversi decenni, la tendenza a non avere figli o a limitarsi ad averne uno s’è accentuata notevolmente negli ultimi anni. Nel 2017 in Italia sono nati 458.151 bambini, il numero più basso nella storia del Paese sin dall’unificazione nazionale. È significativo che diversi studi recenti – come quello di Elisabetta Santarelli del 2011 e di Francesca Fiori, Elspeth Graham e Francesca Rinesi del 2018 – spieghino la reticenza ad avere figli, o la paura di averne più di uno, non solo con le sempre più fosche prospettive economiche delle giovani generazioni, ma anche con le conseguenze psicologiche che esse generano: un “senso di instabilità delle risorse economiche” e una “pervasiva sensazione di insicurezza” vengono indicati ormai come fattori principali che bloccano la genitorialità, persino in nelle coppie che non sono fra le più duramente colpite dalla crisi, ma che temono costantemente i rischi ad essa connessi. Non a caso le linee che indicano il numero di nascite e di decessi (dati Istat relativi al Bilancio demografico nazionale e alla Natalità e fecondità per il 2017) si separano nettamente proprio a partire dal 2008, anno di inizio della crisi.
Le difficoltà economiche e l’impossibilità di delegare una parte del lavoro di cura ai servizi sociali o alla rete di sostegno familiare stanno costringendo molte neo-madri fuori dal mercato del lavoro, in condizioni spesso di dipendenza economica. È diffusissima la piaga sociale delle “dimissioni in bianco”, che molte sono costrette a firmare al momento dell’assunzione e che “si attivano” all’annuncio della gravidanza al datore di lavoro, ed è rilevante anche il numero di donne che è costretta “volontariamente” a fare un passo indietro perché i tempi di lavoro e maternità sono sempre meno conciliabili o perché i costi d’assistenza (asilo nido o baby-sitter) sono proibitivi. Il dato è tanto più preoccupante perché emerge da un contesto che fa già registrare, soprattutto per le regioni meridionali, i livelli europei più alti di disoccupazione femminile, e questo nonostante il Global Gender Gap Report del 2018 certifichi che le donne italiane sono quelle che hanno tassi d’istruzione terziaria più alti al mondo.
E ad illuminare un futuro percepito come sempre più oscuro non aiutano certo né le improvvisate iniziative come il Fertility day dell’ex ministra Beatrice Lorenzin, né le derive neo-oscurantiste come il decreto che porta il nome del senatore leghista Pillon. Al contrario, entrambe queste tendenze non fanno che aumentare il senso di insicurezza, sviando dai problemi economico-sociali di fondo e puntando ipocritamente il dito contro le donne e le giovani famiglie. L’azione di Lorenzin partiva dall’assunto che a bloccare e ritardare il desiderio di fare figli fosse una sorta di lassismo delle giovani generazioni, quella di Pillon da una bigotta e retriva concezione della donna e dei rapporti familiari, incompatibile con una visione laica, libera ed egualitaria della società. Ciò che tanto il primo atteggiamento quanto il secondo evitano di mettere in rilievo – e tantomeno di affrontare – sono le reali ragioni economiche che impediscono di progettare il futuro.
In generale le iniziative del governo giallo-verde, propagandate come manovre per il popolo, stanno mostrando limiti evidenti. Ad esempio, le condizioni del reddito di cittadinanza voluto dal M5S, che impongono lo spostamento a centinaia di chilometri da casa per accettare lavori incerti – pena la perdita del reddito stesso – non aiutano di certo. Come mostra la Relazione dell’Ispettorato Nazionale, infatti, fra le principali motivazioni addotte per lasciare il lavoro spicca l’“l’assenza di parenti di supporto”, indicata da 11.792 neo-genitori, e spesso legata proprio all’emigrazione interna e quindi alla distanza dalla famiglia d’origine. Forzare giovani famiglie a scegliere fra il reddito o l’allontanamento dal proprio tessuto sociale di riferimento non sarà d’aiuto. E non aiutano nemmeno le spinte della Lega per l’“autonomia differenziata delle regioni a statuto ordinario”: la legge “spacca-Italia”, assegnando a poche regioni del nord maggiori risorse in sanità ed educazione e lasciando a piedi il resto del paese, non farebbe che aggravare la situazione degli asili nido, la cui carenza nel 2016 veniva indicata da ben 6.239 neo-genitori come motivazione che li aveva spinti a lasciare il lavoro per accudire i figli. Sempre dalla Lega arriva inoltre l’emendamento alla legge di bilancio che sancisce il “diritto” per le gestanti lavoratrici, dietro permesso del medico, di posticipare tutti e cinque i mesi del permesso di maternità a dopo il parto, rimanendo così al lavoro fino all’ultimo giorno di gravidanza. Il provvedimento, come ha fatto notare la responsabile CGIL per le politiche di genere Loredana Taddei, “non garantisce la libertà alle lavoratrici, né tantomeno tutela la salute della gestante e quella del nascituro”, piuttosto “mina la libertà delle donne, soprattutto di quelle più precarie e meno tutelate”.
Eppuregli ambiti su cui agire sono chiari: politiche di accesso alla casa, servizi di welfare e assistenza, figure di garanzia che vigilino sul rispetto dei diritti delle madri-lavoratrici, equiparazione dei permessi di maternità e paternità. Vale la pena ricordare che attualmente in Italia un padre ha diritto ad un’astensione obbligatoria e remunerata dal lavoro di soli cinque giorni, ma non è previsto un vero e proprio congedo di paternità se non in casi particolarissimi (per morte o grave infermità della madre, abbandono del figlio o mancato riconoscimento del neonato da parte della madre, o affidamento esclusivo del figlio al padre; hanno qualche agevolazione in più i padri che lavorano come dipendenti pubblici, che hanno diritto a 30 giorni di permesso retribuiti nell’arco dei primi tre anni di vita del bambino). L’UE dal canto suo ha da pochissimo trovato un’intesa per una direttiva che imporrà a tutti i paesi implementare entro tre anni misure che garantiscano 10 giorni di congedo di paternità retribuito al 100% e due mesi di congedo parentale intrasferibile, ma non è chiaro con che percentuale di retribuzione. Resta da capire inoltre come sia possibile per i singoli stati recepire direttive che implicano una maggiore spesa pubblica e protezione sociale nel regime di ferrea austerità di cui l’UE è feroce guardiana.
Non è andata meglio con i governi precedenti a trazione PD, che pure hanno di tanto in tanto lanciato iniziative che – se regolarizzate – avrebbero potuto agire sulle cause strutturali del problema. Come osservava un anno fa Elena Barazzetta, però, molte delle iniziative di welfare messe in campo negli ultimi anni (Bonus mamme domani,Voucher baby-sitter,Buono asilo nidi) hanno avuto carattere troppo occasionale e confusionario per arginare davvero i problemi della genitorialità e dell’autonomia delle madri. Quegli stessi governi hanno inoltre accentuato la preoccupante tendenza legislativa di allargamento delle competenze del welfare aziendale, con “sgravi contributivi alle imprese del settore privato che prevedono istituti di conciliazione tra vita professionale e privata nei contratti aziendali”.
Le misure che possono portare ad una reale libertà di scelta per le donne (fare figli non può mai essere un obbligo, ma deve poter essere una possibilità) e a prospettive più serene per le giovani coppie sono innanzitutto di natura economica e sociale, ma non passano di certo per la delega di un ancor maggiore potere economico e contrattuale alle imprese. In un contesto di austerità e mancanza di investimenti pubblici, ogni politica volta al benessere sociale rischia di rimanere lettera morta. E tuttavia, ci sono alcune misure sulle quali si può puntare per cominciare ad invertire la rotta. Si può, ad esempio, seguire l’esempio spagnolo: nella recente legge di bilancio, il governo dei socialisti e di Podemos ha inserito una norma che entro il 2021 equiparerà progressivamente i permessi di maternità e di paternità, portandoli entrambi a 16 settimane remunerate al 100% del normale salario. Allungare e parificare i permessi di maternità e paternità, rendendo quest’ultimo obbligatorio e non trasferibile potrebbe sortire un duplice effetto: da un lato, riconoscendo il diritto individuale al lavoro per ognuno dei genitori, ridurrebbe le possibilità di ricatto a cui sono sottoposte le donne nel mondo del lavoro (se entrambi i sessi sono tenuti ad astenersi dal lavoro per usufruire del proprio permesso, un datore di lavoro può avere minore propensione a discriminare una donna); dall’altro, permettendo agli uomini di vivere in maniera più serena la paternità, li coinvolgerebbe maggiormente nel lavoro di cura, propiziando un cambio socio-culturale.
Come ribadito più volte da Senso Comune, questione economica, questione di genere e questione sociale sono fra loro intrecciate. Nascondere questa verità basilare dietro operazioni di pinkwashing o pretesi ritorni ai valori “naturali” della famiglia sono due strategie opposte e complementari per evitare di affrontare i problemi reali.
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