Una delle tante incontestabili verità del dibattito pubblico italiano riguarda il modo in cui i poteri sono ripartiti fra gli enti locali. La litania che sentiamo ripetere da anni è che, sostanzialmente, le regioni rappresentino l’unica forma di autonomia locale possibile. Tanto è vero che le province, radicate nel tessuto storico italiano da quasi due secoli, sono state spazzate via (nella sostanza) senza neanche troppo dibattito. Eppure vale la pena fermarsi un attimo su questo tema, che nulla ha di scontato.
Le regioni – tranne quelle a statuto speciale – sono un organo previsto dalla Costituzione repubblicana del ’48 (così come le province e i comuni). La loro applicazione ha tardato però fino al 1970: i partiti di governo, infatti, ritenevano poco utile istituire enti locali che in parte sarebbero finiti in mano al Partito Comunista (che, infatti, era particolarmente a favore delle regioni). Insomma, una storia perfettamente inserita nel clima di guerra fredda in cui la Repubblica ha vissuto nei suoi primi decenni di vita.
Nel 1970 le Regioni sono state finalmente istituite, ed hanno oggi alle loro spalle quasi cinquant’anni di vita: un periodo sufficiente per iniziare a formulare qualche giudizio. Bisogna però menzionare almeno due altri passaggi importanti nella storia delle regioni italiane. In primo luogo, il 1995. In quell’anno, fra le rovine della Prima Repubblica, venne approvata la legge Tatarella che modificava il sistema elettorale delle regioni a statuto ordinario in senso straordinariamente presidenzialista e maggioritario. È stato questo un passaggio importante, perché ha rafforzato in maniera inedita il ruolo dell’esecutivo regionale sopra quello delle assemblee regionali democraticamente elette. Il secondo passaggio fondamentale è stato il 2001, quando la riforma costituzione promossa dal Governo Amato (ma elaborata da quello D’Alema) ha ampliato le competenze regionali, formalizzandole anche dal punto di vista costituzionale.
Cosa ha provocato questa accelerazione regionalista? In primo luogo, a partire dal 1970 si è insediata a capo delle regioni una classe politica che per decenni ha cercato una motivazione per giustificare la propria esistenza. Grazie alla generosità di questa classe politica, gli studi sull’importanza amministrativa delle regioni, sulla storia “primordiale” di ogni regione, sul dialetto (passato da locale – come sempre era stato – a “regionale”) si sono così moltiplicati. Si sa, tutte le identità collettive di massa sono in qualche modo delle “comunità immaginate”, costruite in gran parte da attori politici. Nel caso delle identità regionali, questo sforzo di creazione di identità è stato particolarmente impressionante, considerate le energie economiche ed intellettuali spese. Le istituzioni regionali sono così riuscite a creare piano piano delle identità regionali prima largamente inesistenti, o comunque non attivate politicamente. Questo sforzo, portato avanti inizialmente dai partiti tradizionali (Dc, Pci e Psi in particolare), ha avuto un incredibile ritorno di fiamma con la nascita di movimenti politici indipendentisti e regionalisti – che specialmente nell’Italia settentrionale sono riusciti a sostituirsi ai vecchi partiti di governo.
L’altro fattore che ha facilitato l’affermarsi del regionalismo è stato il progressivo crescere di potere dell’Unione Europea. La Comunità Europea prima e l’Unione Europea poi hanno storicamente individuato nelle regioni l’organo amministrativo “perfetto” a cui gli stati nazionali avrebbero dovuto prima o dopo uniformarsi. In controluce, possiamo individuare anche qua il peso dell’egemonia politica della Repubblica Federale Tedesca, l’unico stato europeo organizzato nel secondo dopoguerra in senso regionale. Ma l’Unione Europea ha avuto anche un motivo più strettamente politico per alimentare i regionalismi: molto semplicemente, essi minano la forza politica degli stati-nazionali, che dell’Unione Europea sono il principale competitor. Non per caso i regionalismi sono stati per lungo tempo la punta più avanzata del movimento per l’integrazione europea: la loro forza si è basata sull’Unione Europea tanto quanto quella dell’Unione Europea si è basata sulla loro funzione anti-statale. Non si tratta per forza di una dinamica negativa: essa può essere negativa o positiva a seconda dei regionalismi/nazionalismi in questione.
Ritornando al caso italiano, il regionalismo si è alimentato con un uso mitologico della storia della Penisola. I regionalisti hanno infatti individuato negli stati pre-unitari le origini ultime delle regioni come unità politiche, culturali e perfino nazionali. Ovviamente, la storia si rivela – alla prova dei fatti – sempre più complessa dei suoi usi (ed abusi) politici. Non è questo il luogo per passare in rassegna la mitologia del regionalismo italiano, per altro parecchio differenziata. Basti sottolineare come gli stati pre-unitari fossero completamente privi di identità nazionale intesa in senso moderno, anche in una fase primordiale. Non per niente il Risorgimento fu praticamente in tutta Italia – e qua risiede un altro mito da sfatare – un processo storico che coinvolse ampie strati della popolazione. Una Rivoluzione tradita, certo, pagata sulla propria pelle proprio da quei contadini meridionali che erano insorti contro i Borboni per la divisione delle terre promessa da Garibaldi. Ma non si è certo trattato di un processo storico imposto in punta di baionetta dai Savoia, come vorrebbero i regionalisti.
D’altro canto, considerati nella loro esistenza politica, gli stati regionali pre-unitari erano molto diversi da quello che sono oggi le regioni. Essi erano puntellati di autonomie locali – di carattere feudale, oligarchico e perfino popolare – che si auto-amministravano quasi completamente. Il potere statale si limitava nei periodi ordinari all’estrazione di risorse sotto forma di tasse, all’emissione di moneta e alla politica estera. Una realtà difficilmente immaginabile al giorno d’oggi, in cui l’amministrazione ed il potere pubblico si basano sull’uniformazione e la centralizzazione statale affermatesi nell’Ottocento.
I regionalisti, immersi nella loro mitologia, non riescono però a vedere come gli stati pre-unitari fossero enti in cui il centro politico aveva pochissimo potere sulle comunità locali. E, stupidamente, oggi chiedono un regionalismo fortemente accentrato, in cui a decidere tutto è il potere centrale. In Veneto, per esempio, la regione ha proibito alla provincia di Belluno di tenere un proprio referendum sull’autonomia, in questo caso realmente locale, analogo proprio a quello che Zaia sta promuovendo per la regione (cioè per se stesso).
Insomma, la mitologia regionalista (si) inganna sul passato, e nel far questo difende i privilegi delle oligarchie del presente. Questo però non significa che l’autonomia locale non sia da perseguire e coltivare. Portare il potere verso la gente comune, renderla responsabile del proprio destino è stato l’impegno di generazioni di democratici. Il problema è che le regioni – soprattutto quelle da milioni di abitanti – non potranno mai avere questo ruolo di promozione del potere popolare.
Il perché è presto detto: basta guardare alla storia di questi cinquant’anni di governo regionale. Si tratta di una storia di sprechi, scandali, accentramento di potere, grandi opere imposte dall’alto sulle comunità locali. E non potrebbe essere altrimenti. Le regioni – per come si sono configurate fino ad oggi – rappresentano, sostanzialmente, dei piccoli Stati nello Stato. Con tutti i difetti di uno Stato, ma senza nessuno dei suoi pregi. Perché mentre lo Stato nazionale ha un’opinione pubblica corrispondente – che, bene o male, esercita un controllo popolare sul potere -, i mini-stati regionali non li controlla nessuno. Nella vita di ogni giorno, la gente è interessata (quando riesce ad interessarsi) a due livelli: uno di comunità (comune o aggregazione di comuni); ed uno statale, remoto ma fondamentale nella vita di ogni giorno (lo Stato nazionale). Le oligarchie regionali rimangono così a gestire un potere di fatto statale senza alcun controllo dal basso. E da qui derivano gli scandali, i disastri, gli sprechi a cui le regioni ci hanno abituato.
Una vera autonomia locale, insomma, non potrà mai essere regionale. Se questa verrà non potrà che essere municipale o – tutt’al più – provinciale. Solo a questo livello il potere politico corrisponde ad un vero controllo popolare. Basti pensare alla sanità: perché un servizio così centrale nella vita di ogni giorno non può essere governato da cittadini eletti a livello di Asl invece che da nominati dall’amministrazione regionale? Un’autonomia municipale risponderebbe poi ad una della caratteristiche di “lungo periodo” della storia della penisola italiana, quell’orgoglio municipale (da sempre bollato dagli oligarchi come “campanilismo”) che è un fattore profondamente radicato nelle comunità locali.
Certo, l’autonomia municipale non garantirebbe da sola un potere politico articolato in termini popolari e democratici. Rimane aperta – per esempio – la questione del presidenzialismo senza contrappesi dei comuni attuali. E rimane impellente la necessità di inserire in Costituzione la consultazione delle comunità locali per ogni opera pubblica che ne interessi il territorio. Ma se veramente vogliamo costruire una democrazia in cui a contare sia la gente comune e non le oligarchie, non potremo che passare sopra il cadavere delle regioni. Per una patria in cui le autonomie municipali siano la colonna fondante del potere popolare.
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