Il G20 non serve per il documento finale ma per capire qualcosa degli equilibri mondiali. Ovviamente dipende da che parte si guarda. Se iniziamo dall’Europa (in piena crisi declinista) la osserviamo pressata da tre lati. Contro di essa è in atto una “guerra commerciale” da parte degli Stati Uniti, stanchi del dissesto della bilancia commerciale. Trump (ma lo faceva anche Obama, con stile diverso) rimprovera all’Ue di vendere troppo e comprare troppo poco. L’accusato principale è sempre la Germania ma anche l’Italia (essenzialmente un sub-fornitore dei tedeschi) è presa di mira. Inoltre Trump ci rimprovera di spendere poco per la difesa (vedi Nato) e di rifornirci di energia dai suoi concorrenti, come la Russia. Anche quest’ultima vuole indebolire l’Europa seppur con metodi più tradizionali: una “guerra territoriale” tramite l’invasione dell’Ucraina, il riarmo, le minacce militari. Infine la Cina è in rotta di collisione con l’Europa tramite una “guerra economica”: Pechino vuole divenire la “fabbrica del mondo” e toglierci il primato manifatturiero, utilizzando metodi meno aggressivi ma non per questo meno azzardati, come la sottrazione di tecnologia per imitazione.
Si tratta di tre reazioni all’ultima svolta della globalizzazione, quella che crea problemi a tutti. Gli Usa puntano sul riequilibrio (se non il blocco) del commercio mondiale per recuperare forza lavoro. Benché primi in tecnologie avanzate, gli americani stentano in numerosi settori manifatturieri. Ma la politica di Trump è smentita dall’interno: mentre lui cerca di riacquistare posti di lavoro, la General Motors annuncia licenziamenti. Forse “too little, too late” anche nella guerra dei dazi contro la Cina.
I russi guardano alla globalizzazione con la diffidenza delle tradizionali potenze territoriali. Per loro lo spazio è più importante dei processi: è l’unico vero atout della Federazione. Creare distanza con gli avversari è giocare sull’estensione geografica, una risorsa geopolitica sempre valida. Su questa si innesta la “guerra dei tubi”: farsi fornitore unico di gas per i vicini per mantenere il controllo.
La Cina reagisce alla nuova fase puntando al primo posto manifatturiero globale: con la popolazione che possiede, è consapevole che potrà resistere a lungo (il tempo è la sua vera risorsa, più della misura che è sempre a doppio taglio) solo sorpassando tutti. Altrimenti il numero (della popolazione da sfamare) le si ritorce contro.
Per questo l’Europa è il principale terreno di gioco delle tre grandi potenze globali: il luogo dove c’è più sedimentazione di ricchezza, know how, tecnologia, produzione e commercio. Di conseguenza l’Europa è anche il continente che ha maggior bisogno di energia e di sbocchi di mercato.
Ma pressando l’Europa, i tre grandi soffrono di contraddizioni interne. Gli Usa vogliono un’Europa indebolita ma non troppo, altrimenti perderebbero l’aggancio alla placca euroasiatica a favore dei russi. Allargare l’Atlantico a dismisura significherebbe restare privi dell’unico vero partner economico all’altezza. Per Washington quindi va bene l’Europa “grande mercato” ma non politica. Il guaio è che l’energia Usa (da venderci al posto del gas russo) costa il 30% in più e manderebbe all’aria i nostri fragili equilibri finanziari. Infine l’area euro è troppo legata a quella del dollaro (vedi le borse), per regalarla ad altri.
Dal canto suo la Russia sa di non poter andare troppo oltre con la “pressione militare”: a corto di mezzi finanziari, ha pur sempre un enorme problema demografico di invecchiamento. Il suo spazio asiatico è già riempito di cinesi: con cosa colmare il resto? Infine la Cina è troppo esposta con il debito americano e non avrà (per molto tempo ancora) un mercato interno capace di sostituire quello estero. Pechino è consapevole che la Road and Belt Initiative (costruita per commerciare con il mondo) resta fragile: può essere strozzata in qualsiasi punto. Basta una imprevedibile guerra locale o un banale sciopero di portuali (senza parlare di terrorismo) per mandare in tilt intere direttrici di commercio mondiale, sempre veloce nel cercare nuovi sbocchi. Pechino sa anche che le assonanze culturali non la favoriscono e che l’India non è poi così lontana dal divenire un nuovo attore strategico.
Ecco perché per le tre grandi potenze vale la regola: pressare l’Europa ma non troppo…Ciò lascerebbe spazio per una reazione politica Ue se fosse realmente unita e lucida. Tuttavia per ora ciascuno Stato-membro perde tempo ripiegato su di sé.
Nel cubo di Rubik geopolitico c’è posto anche per l’Africa: non ricca come l’Europa e non ancora in grado di divenire partner commerciale, possiede tuttavia molte risorse che andrebbero tirate fuori, sfruttate, spedite, spostate, valorizzate. Qui si pone il grande tema africano: come lavorare con gli africani in modo da ottenere il massimo? Il vecchio sistema “mordi e fuggi” non funziona più: i cinesi sono stati i primi a capirlo. Occorre farsi partner, lasciare qualcosa, costruire infrastrutture, coinvolgere l’Africa. Ma il reale coinvolgimento è permettere all’Africa di produrre: non relegarla solo al terziario o ai servizi, per quanto avanzati siano. Non bastano banche, logistica, trasporti o energia: ci vuole trasformazione, magari nel settore agribusiness dove l’Africa ha il vantaggio competitivo della terra coltivabile libera (oltre 200 milioni di ettari). Vincerà la nuova corsa all’Africa chi metterà in campo una reale joint-venture di questo tipo e su vasta scala. È l’unico modo per fare un “piano Marshall” convincente. L’Europa potrebbe farlo suo, se non fosse malata di sonnambulismo.
In questa rete di relazioni incrociate trovano spazi le potenze mediane, come Turchia, Corea, Messico e Brasile (ora un po’meno), Indonesia e soprattutto un nuovo “grande” come l’India. Nell’intreccio globale esiste sempre la possibilità di crearsi delle nicchie favorevoli. Il vantaggio di tali Paesi è pari alla loro capacità di muoversi rapidamente sullo scacchiere mondiale, cogliendo al volo le occasioni. È esattamente ciò che manca all’Europa. Tutto questo si svolge in attesa della prossima (incipiente) rivoluzione tecnologica, quella della robotizzazione o del 5G (cioè delle cose che dialogano fra loro), dell’intelligenza artificiale. Harari dice che siamo seduti lungo il “fiume cibernetico”: da soli potremmo essere alla sua mercé, assieme potremmo addomesticarlo. Ecco alla fin fine a cosa servono le riunioni multilaterali: ad incontrarsi e leggere negli occhi dell’altro le medesime avidità o le stesse preoccupazioni.
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