La Sardegna non è leghista
di JACOBIN ITALIA (Danilo Lampis)
Analizzando i flussi elettorali, la narrazione di un’isola ormai feudo della Lega si rivela fragile. Il voto è sempre più fluido e disponibile al cambiamento, e in un contesto non pacificato l’attuale potere è tutt’altro che inscalfibile
La Sardegna è improvvisamente diventata un feudo della Lega? L’alternativa passa dalla riproposizione di ricette dimostratesi inefficaci? Un’analisi delle tendenze di queste elezioni può aiutarci a leggere meglio i cambiamenti avvenuti in seno alla società sarda, permettendoci di ipotizzare alcune strade per la costruzione di un’alternativa in grado di unire le istanze per la risoluzione della drammatica questione sociale e quelle dell’irrisolta “questione sarda”.
I dati e i flussi elettorali
Il centrodestra ha ottenuto 365.000 voti, con un incremento dei voti assoluti del 24,6% rispetto alle regionali del 2014 e del 35,2% rispetto alle politiche del 2018. Molti media raccontano di un boom fuori misura, ma a ben vedere non è così: Soru, eletto nel 2004 con il centrosinistra, ottenne 487.692 voti, Cappellacci, eletto nel 2009 con il centrodestra, 502.084 voti. Il nuovo presidente di centrodestra Solinas, in termini di voti assoluti (che esulano il rapporto con la percentuale di astensione), non ha compiuto un cataclisma politico. Rispetto alla provenienza dei suoi voti il quadro dipinto da Swg è il seguente: il 55% dei suoi elettori aveva già votato centrodestra alle ultime politiche, il 20% si era astenuto, il 20% aveva votato M5S, il 3% aveva scelto la coalizione di centrosinistra e il 2% altri partiti. Il centrodestra quindi è sicuramente riuscito a mobilitare una parte degli astenuti e a rubare una buona percentuale ai 5 Stelle.
Il centrosinistra elesse Pigliaru nel 2014 con 313.000 voti. Nelle elezioni politiche del 4 marzo 2018 scese a 154.000 voti, mentre alla sua sinistra Leu ne raccolse 27.000. L’attuale candidato di centrosinstra Zedda, con la sua coalizione, ha fatto il “Massimo” per reggere la baracca ma non è bastato a cancellare nella memoria collettiva 5 anni di malgoverno: la coalizione ha raggiunto 251.000 voti: -19,81% di voti assoluti rispetto a 5 anni fa, +38,67% rispetto alle politiche. Il 23% dei voti a Zedda è arrivato da chi alle ultime politiche aveva scelto il Movimento 5 Stelle, il 51% da chi il 4 marzo 2018 aveva già votato centrosinistra, il 20% da chi si era astenuto. Solo l’1% da chi in precedenza aveva optato per il centrodestra, mentre il 5% da chi aveva scelto altri partiti. Quindi oltre al recupero degli astenuti, anche Zedda è stato in grado di raccogliere molti delusi dai 5 Stelle, a conferma che si tratta di un elettorato che non si sposta automaticamente verso la Lega in questa fase di progressivo arretramentoI 5 Stelle passano dai 369.000 voti delle politiche del 2018 agli 85.000 di queste regionali. L’emorragia in termini assoluti è del 77%, ovvero di 284.000 voti. Con la legge elettorale che avvantaggiava le coalizioni e con l’eco dei ripetuti errori romani, il Movimento ha smesso di essere una potenziale spina nel fianco del vecchio/nuovo bipolarismo. Secondo l’analisi dei flussi solo un quinto degli elettori di un anno fa ha confermato il voto, mentre il 42% si è astenuto, il 17% ha scelto Solinas, il 14% Zedda e il restante 7% ha optato per gli altri candidati. Di fronte a questi dati sono tragicomici i loro festeggiamenti per l’ingresso in Consiglio regionale.
Le liste indipendentiste e autonomiste raccolgono complessivamente il 7,5% dei voti. Nel 2014, seppur posizionate diversamente con alcune interne alle coalizioni, queste liste ottennero complessivamente il 22,7% dei voti. Al di là delle mancanze sul piano comunicativo, dello scarso radicamento sui territori e nelle amministrazioni comunali, il risultato è perlopiù frutto di una legge elettorale antidemocratica e fatta a misura per minare la possibilità che tali istanze trovino rappresentanza in consiglio regionale, imponendo la soglia del 5% alle liste e del 10% alle coalizioni e favorendo una polarizzazione dell’opinione pubblica verso il “voto utile” verso uno dei due blocchi maggioritari. In ogni caso, nonostante alcuni buoni programmi e liste anagraficamente giovani, nell’insieme si sono dimostrate inadeguate ad affrontare il “momento populista” e a radicare con un lavoro di più lungo periodo le proprie risposte in seno alla società sarda mostrandosi come una valida alternativa di governo.
La politica sarda resta ampiamente debitrice – soprattutto dai tempi della presidenza Soru – di istanze provenienti storicamente dai movimenti sardisti, autonomisti e indipendentisti diventate pian piano maggioritarie, come al tempo stesso si possono osservare nella società processi di identificazione nuovi, ibridi e per nulla folklorici, tesi alla costruzione di una nuova idea di sardità non subalterna. Eppure, chi dovrebbe teoricamente rappresentare tutto questo ad oggi non riesce a connetterlo con il senso comune delle classi popolari e a tradurlo in forza politica consistente
Trionfa l’astensione, soprattutto tra i giovani
La maggioranza dei sardi è sfiduciata dall’attuale rappresentanza politica. L’astensionismo è sempre più strutturale e neanche Lega e 5 Stelle riescono a scalfire la tendenza. È impossibile fare i veggenti sulla composizione dell’astensione, però una cosa è certa: mezza Sardegna non è rappresentata dall’attuale quadro partitico, due terzi dell’isola non sostengono Solinas. L’astensione è vertiginosa tra i giovani nati tra il 1980 e il 1996, tra cui raggiunge il 59%. Tra coloro che di questa fascia di età hanno votato, il 43% ha scelto Zedda, il 31% Solinas, l’11% Desogus, il 15% le altre liste indipendentiste. In generale i giovani si sentono lontani da una politica percepita in larga misura come vecchia, monolitica, maschile, senza visione e incapace di formare nuove classi dirigenti, preferendo dare spazio a giovani burattini buoni solo per un restyling di facciata.
Sbaglia chi pensa che l’obiettivo immediato debba essere quello di riportare al voto gli astenuti e i giovani. Ci sono vaste praterie sociali non presidiate e non organizzate che, di fronte a un’alternativa credibile e radicalmente nuova, potrebbero mobilitarsi, ma non immediatamente sul piano elettorale. La politica non si fa solo sotto elezioni, ma è costruzione paziente di legami, solidarietà e potere dal basso. È, per chi vuole una Sardegna democratizzata, giusta e con meno disuguaglianze, innanzitutto una costruzione della società laddove oggi prevalgono il risentimento, la paura e l’individualismo, ingredienti essenziali per l’affermarsi dei populismi di destra.
Il voto d’opinione alla Lega e la sua debolezza
Dall’analisi del voto non si vede una particolare specificità sarda. L’isola è pienamente inserita nelle dinamiche nazionali ed europee e premia il leader che oggi sembra rispondere maggiormente all’esigenza di una politica che “fa”, che primeggia – almeno a parole – su tutto ciò che minerebbe la “sicurezza” e la protezione paranoica dei cittadini “proprietari”: Matteo Salvini. A dispetto dell’inconsistenza di quasi tutti i suoi candidati, la Lega raccoglie sia un voto di protesta verso il centrosinistra e verso i 5 stelle che un voto di fiducia verso il leader nazionale. La Lega, oggi, non ha bisogno di essere presente sul territorio e di avere candidati che portano voti. I dati sono chiari: nella circoscrizione di Cagliari il partito ha ottenuto 24.436 preferenze, mentre i candidati (20 in tutto) ne hanno sommate 7.793 (31,89% del totale); sulla stessa linea, a Sassari i candidati hanno ottenuto il 32,85%; a Oristano il 39,36%; a Nuoro il 67,06%; in Gallura il 44,17%; nel Sulcis il 33,10%; nel Medio Campidano il 36,8%; in Ogliastra il 68,22%. Insomma, checché ne dicano i leghisti sardi, essi dipendono dall’immagine del leader populista d’oltremare, dal suo stato di salute politica. Ora funziona, ma non è detto che vada sempre così. In poche parole, in Sardegna la Lega conta veramente poco, è soltanto un palloncino gonfiato da Salvini.
Il Psd’Az (Partito sardo d’azione, in coalizione di centrodestra), si dimostra invece un partito vecchio stampo, non solo per il suo proverbiale trasformismo. Il passaggio dal 4,7% delle regionali 2014 al 9,9% di queste non è il risultato di una rinnovata spinta sardista. I paragoni di Solinas con i tempi del “vento sardista” del governo Melis degli anni Ottanta sono inconsistenti, completamente fuori luogo. Piuttosto, è il frutto dell’aver candidato “portatori” di voti provenienti da diversi partiti in crisi, sommata alla vecchia presenza sul territorio e a un candidato presidente benedetto da Salvini. Si conferma come un partito vecchio stampo perché ha poco voto d’opinione e molto strutturato in base alla forza dei candidati: nel collegio di Cagliari questi ultimi hanno sommato 30.766 voti, il 100% della lista. A Sassari i candidati hanno fatto il 71,26% del voto; a Nuoro il 99,70%; a Oristano il 95,57%; in Gallura il 100%; nel Sulcis il 97,20%; nel Medio Campidano il 78,08%; in Ogliastra il 100%. Il Psd’Az potrebbe far contare questi dati per l’attribuzione dei nuovi ruoli di Governo regionale, ma sarà difficile vista la manifesta subalternità verso il leader padano.
In generale, i dati dicono una cosa: oggi non basta il radicamento per vincere una competizione elettorale, serve anche il voto d’opinione provocato da una logica politica agonistica e populista. È un dato di non poco conto in un’isola dove il voto, soprattutto per la frammentazione demografica, è sempre dipeso dalla presenza di “raccoglitori di voti” nei paesi e dalle reti varie di clientele. Anche in Sardegna il voto è sempre più fluido, meno controllabile (soprattutto tra le giovani generazioni), nondimeno disponibile al cambiamento (rileggere i flussi per rendersene conto) qualora gli attori deludano le aspettative. Nonostante il risultato a favore di Salvini, è un dato nuovo e positivo. Chi “tira” ha possibilità di scalfire i blocchi consolidati, allineando nuovi bisogni e istanze sociali, senza dover per forza bussare alle porte della vecchia classe dirigente.
La persistenza del conflitto città-campagna
Queste elezioni sono leggibili anche da un punto di vista geografico. A uno sguardo generale si riscontra un voto che – fatte salve le diverse eccezioni dovute alla distribuzione territoriale dei candidati e a territori come la Gallura – premia il centrodestra nei piccoli paesi, che sono quelli maggiormente colpiti dalla crisi, dallo spopolamento e dai tagli dei servizi. Il governo uscente di centrosinistra del presidente Pigliaru è stato percepito come centralista, Cagliari-centrico, incapace di valutare le peculiarità territoriali in nome di politiche ragionieristiche sulla riorganizzazione degli enti locali e sulla sanità.
Ciò che emerge è che, pur nell’assenza di un vero radicamento territoriale, l’infornata di candidati del centrodestra ha raccolto un malcontento diffuso e geograficamente connotato. Tutti sappiamo – compresa forse la maggioranza di coloro che li hanno votati – che questo Governo regionale sarà ancora più compiacente verso gli interessi dei poteri forti, aprendo alla sanità privata, alla cementificazione delle coste e a tanto altro che andrà a danneggiare soprattutto i piccoli centri. Ma dopo 5 anni di timidezza verso i governi nazionali – se non di allineamento imbarazzante in occasione del referendum costituzionale –, scelte dannose, incapacità di stare sui territori e di comprenderne le ragioni, è normale che il popolo votante abbia scelto un’alternativa a prescindere dalle contraddizioni e debolezze. Sembra strano che paesini di 1.000 abitanti diano una fiducia così alta a un centrodestra a trazione Lega Nord, ma avviene in una condizione di democrazia “a bassa intensità”, esercitata nella maggior parte del territorio soltanto in vista delle scadenze elettorali. Chi avrà l’energia e il coraggio di strutturare una nuova proposta di radicale alternativa a quanto visto finora non potrà che fare i conti con i piccoli paesi, immaginando nuove forme di governo, servizi e distribuzione del potere. Soprattutto dovrà ascoltare i “margini” e non i centri storici delle città.
L’importanza della guerra di posizione
I risultati elettorali non vengono dal nulla. Come abbiamo evidenziato, quelli del centrodestra arrivano da un lato dalla delusione per il centrosinistra, dall’altro dalla potente logica politica populista salviniana, dal governo locale, da diversi notabili e dal presidio di pezzi di società civile. I diversi fattori illuminano un dato: il centrodestra ha costruito e stabilizzato un blocco politico-culturale capace di conquistare pezzo dopo pezzo un decente consenso ben prima della conquista della direzione politica. Ha i soldi, gli staff comunicativi, i pezzi di potere economico e finanziario, le reti clientelari. È inscalfibile? Tutt’altro! Ma le proposte politiche che vorranno confrontarsi con questo blocco, dovranno fare i conti con tutti gli ingredienti della politica contemporanea. Se te ne manca qualcuno (è difficile avere le stesse disponibilità finanziarie del centro-destra), devi quantomeno avere una macchina da guerra comunicativa, una legittimità sui territori attraverso il governo locale, influenzare e dirigere pezzi di associazionismo diffuso e tanto altro. Cosa più importante: devi essere protagonista di iniziative sociali, mutualistiche, solidali, eventi ludici; devi mettere in connessione competenze fresche al servizio di progetti da realizzare qui e subito, senza attendere la presa del potere.
In assenza di conflitto i più poveri (se votano) scelgono la “protezione”
Tra i ceti popolari Solinas fa il pieno (57% dei voti), Zedda si ferma al 26%, Desogus all’11%, gli altri candidati al 6%. Passando ai ceti medi, Solinas è al 46%, Zedda al 31%, Desogus al 14%, gli altri al 9%. Tra le classi agiate prevale sempre il candidato di centrodestra (47%), ma il sindaco di Cagliari è più vicino (35%), poi Desogus (10%) e gli altri (8%). I dati si commentano da sé: nella fase populista, al di là del voto “vecchio stampo” che scaturisce dal rapporto diretto tra candidato ed elettore, le classi popolari (che preferiscono non votare, l’astensione è al 53%, mentre tra quelle agiate è al 40%), in assenza di altre frontiere discorsive consolidate, aderiscono all’unica frontiera populista esistente: quella della “sicurezza” contro i “pericoli” esterni, in primis i migranti. Ciò è anche il frutto di un centrosinistra che ha portato avanti perlopiù politiche neoliberiste, non conducendo nell’isola una battaglia generale per il lavoro degno, per un ammodernamento del tessuto produttivo, per nuove politiche redistributive, per una nuova distribuzione dei poteri, contrattando a testa alta con lo Stato centrale nuovi margini di autonomia utili a risolvere storici problemi economici e politici che compongono la “questione sarda” contemporanea.
Eppure, la società sarda non è pacificata: l’isola in quest’ultimo decennio ha visto diverse lotte su diverse questioni, dall’occupazione militare al depotenziamento degli ospedali e al dimensionamento scolastico, ma nessuna di queste è riuscita a diventare un simbolo tale da attivare la maggioranza della società. A parte il referendum sul nucleare e la lotta dei pastori, che hanno effettivamente scosso l’isola, ciò che manca non è solo una proliferazione dei terreni di lotta, ma soprattutto la definizione di un discorso in grado di articolarli senza minarne le differenze. La strada è difficile, ma esiste potenzialmente un’alternativa al discorso xenofobo delle destre. Si tratta di un’alternativa radicata nei problemi veri dell’isola e potenzialmente molto più potente della narrazione artificiale proposta da Salvini.
Una nuova presa di parola
Una politica emancipativa in Sardegna non può esistere senza tenere assieme il conflitto contro l’“alto”, ovvero contro chi concentra ricchezze e proprietà e contro i “centri” politico-economici nazionali e regionali che mantengono l’isola in una condizione di subalternità politica ed economica. Occorrerà saper distinguere le macerie dell’attuale rappresentanza politica largamente incapace di rispondere alle istanze dei sardi, dalle rovine della storia di un’isola attraversata da importanti conflitti sociali, l’ultimo dei quali è stato quello dei pastori. Solo raccogliendo il meglio delle rovine, sgombrando il campo dalle macerie, e dunque avendo il coraggio di costruire passo dopo passo una nuova proposta in grado di connettere questione sarda e questione sociale, si riuscirà a immaginare un futuro alternativo al bipolarismo passivizzante. La domanda è come democratizzare l’isola, riportando il potere in basso per redistribuire ricchezze e nuovo lavoro di qualità, legato alle potenzialità del territorio isolano. Vanno identificati nuovi strumenti e campi d’azione, senza semplificare il tutto con la riproposizione di soluzioni politiche vecchie sul piano della costruzione e della proposta.
Forse proprio le giovani generazioni, che come visto si dimostrano molto più libere dalla zavorra delle macerie, hanno la possibilità di raccogliere le rovine migliori di una lunga storia di lotte per la giustizia sociale e per progressivi spazi di autogoverno, utilizzando l’immaginazione per inventare un futuro alternativo a quello apparentemente irreversibile che ci viene presentato.
*Danilo Lampis, sardo, è uno studente della laurea magistrale di scienze filosofiche dell’Università di Bologna.
Fonte: https://jacobinitalia.it/la-sardegna-non-e-leghista/
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