Requiem per l’università. Un’azienda iperburocratizzata
di ROARS (Sergio Ferlito)
Modellata secondo schemi organizzativi aziendalistici e schiacciata dal peso insostenibile di una burocratizzazione telematica onnipresente e sempre più invasiva, l’Università sta morendo. Sta morendo nell’indifferenza generale; e sta morendo – spiace dirlo – con il fattivo contributo, forse non del tutto inconsapevole, di coloro ai quali questa veneranda istituzione dovrebbe stare più a cuore: il corpo docente e dirigente. E con l’Università stanno morendo i valori culturali, sociali e politici alla cui elaborazione e trasmissione essa è stata preposta per secoli. Aziendalizzazione e teleburocratizzazione sono i nomi del morbo letale che sta uccidendo l’Università.
Diciamolo subito: non è una malattia soltanto italiana. Nell’età della globalizzazione sono pochi i problemi esclusivamente nazionali; per lo più si tratta di fenomeni planetari, benché connotati da specificità locali.
In Europa il punto d’avvio di questo percorso necrotico risale al c.d. “processo di Bologna”, così denominato perché, nel 1999, i ministri dell’istruzione dei paesi europei si riunirono proprio nel luogo in cui ha sede la più antica Università del Vecchio Continente per sottoscrivere una Dichiarazione che si proponeva di riformare in radice i sistemi d’istruzione dell’Unione. Benché non esplicitata, la spinta ideale della riforma era motivata da ragioni economiche.
L’obiettivo a cui essa mirava non consisteva nel riformare i sistemi d’istruzione al fine di renderli più adatti alla formazione culturale necessaria per comprendere e gestire un mondo complesso; il suo intento era piuttosto quello di renderli più efficienti per la crescita economica interna e più competitivi su scala mondiale. A conferma di tale orientamento, a meno di un anno di distanza dall’incontro avvenuto in una città che un tempo era chiamata “la Dotta”, i Capi di Stato e di Governo si riunirono a Lisbona per approvare un documento, noto come “Strategia di Lisbona”, il cui ambizioso progetto si proponeva di fare dell’Europa «l’economia basata sulla conoscenza [knowledge-based economy] più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile, con nuovi e migliori posti di lavoro». La via indicata a tal fine venne tracciata poco dopo, con l’avvio del c.d. “piano d’azione e.Europe”,consistente nel favorire l’uso, la diffusione e la disponibilità di reti telematiche a banda larga al fine di incrementare l’e.Governement, l’e.health, l’e.business, nonché, appunto, l’e.learning, così da far rientrare anche l’istruzione e la formazione culturale nel quadro – mi si consenta il neologismo – dell’e.tutto. Aziendalizzazione e digitalizzazione sono facce della stessa medaglia.
A distanza di poco meno di un ventennio e dopo la crisi economica più duratura e devastante che si sia abbattuta sull’economia mondiale dai tempi del 1929, si resta allibiti constatando la miopia che fin da allora attanagliava la classe dirigente europea. Se la crisi del 2008 ci ha insegnato qualcosa è che a essere in crisi non era solo l’economia reale, l’economy; era piuttosto – e continua ad esserlo – la dottrina economica studiata e insegnata nelle università di tutto il mondo, l’economics, quanto meno nella sua versione mainstream. L’aspetto più grave, allo stesso tempo meno percepito e meno dibattuto, della crisi del 2008 è che essa è il prodotto non solo, e forse non tanto, dell’instabilità congenita dei mercati, quanto di una regressione culturale che ricorda il declino dell’Impero romano e della cultura latina. Alcuni anni prima della strategia di Lisbona e con ben altra lungimiranza, David Harvey aveva segnalato che la produzione di conoscenza organizzata secondo moduli aziendalistici si stava notevolmente diffondendo e stava acquistando una base sempre più commerciale; «si consideri» – scriveva – «la non agevole trasformazione di molti sistemi universitari del mondo capitalistico avanzato dal ruolo di custodi del sapere e della saggezza a quello di produttori subordinati di conoscenza per il capitale delle grandi aziende».
Negli anni a noi più vicini, questo processo di mercificazione della cultura e aziendalizzazione dell’Università ha subito una rapidissima intensificazione che condurrà nel giro di qualche lustro alla sua definitiva estinzione. Al suo posto avremo Università on line e centri di formazione telematici nei quali un singolo docente potrà fare lezioni a un elevatissimo pubblico di studenti sparsi sull’intero territorio nazionale, o persino all’estero, che assisteranno alla lezione dallo schermo del loro computer o, più probabilmente, dal display dello smartphone: sono i MOOC (Massive Open Online Courses), corsi universitari on line e, in apparenza, gratuiti. Nel 2013 l’UE ha abbracciato con entusiasmo questo progetto e, con la benedizione del CUN e della CRUI (Consiglio Universitario Nazionale e Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), oggi nel nostro paese esistono dozzine di Università telematiche.
Il passaggio dalle Università tradizionali ai MOOC sarà meno traumatico di quanto possa credersi, e lo sarà perché poco appariscente. Già oggi, infatti, le Università che ancora mantengono le lezioni c.d. “frontali” e che preferiscono all’incontro virtuale quello reale, consentendo così a docenti e allievi di guardarsi negli occhi, sono per il resto interamente telematizzate. La distanza fra i due modelli sta diventando sempre più esigua. D’altra parte, in un’epoca in cui pressoché tutti gli Stati devono fare i conti con crescenti vincoli di bilancio, perché mai pagare gli stipendi a un nutrito corpo docente se un singolo professore può, da solo, fare lezione a una platea sterminata? O perché mai assumere docenti a tempo pieno se, analogamente a quanto avviene nelle aziende, anche le Università possono ricorrere a contratti a termine e a incarichi esterni? Quanto, poi, all’accertamento dell’identità personale dello studente richiesta al momento dell’esame, essa avverrà mediante il riconoscimento dell’iride realizzato grazie a fibre ottiche installate sul display.
Ovviamente, una volta registrati, quei dati personali resteranno – insieme a mille altre tracce – in eterno nel cloud e nutriranno i big data. Algoritmi e data mining penseranno a fare il resto, cioè a elaborare perfetti profili di milioni di individui appositamente preparati per ricevere pubblicità commerciale e “spinte gentili” capaci di orientare i comportamenti politici e sociali dell’umanità Dio solo sa verso quali direzioni. Con felice opzione linguistica, Richard Thaler e Cass Sunstein – due noti “architetti delle scelte”, campioni del neoliberismo – hanno chiamato nudge queste morbide costrizioni. Del resto, se le aziende navigano a vele spiegate verso l’industria 4.0, intensamente robotizzata e gestita dall’intelligenza artificiale, perché mai un’Università pensata come un’azienda non dovrebbe seguire lo stesso itinerario di modernizzazione? Già oggi molti esami, ivi compresi i famigerati test d’ingresso all’Università, sono congegnati in modo tale da poter essere valutati da computer e algoritmi.
Cosa ha portato a questo naufragio? C’è una potente ideologia sottostante a questo processo di aziendalizzazione e telematizzazione del mondo, un’ideologia che oggi risulta vincente su scala planetaria proprio perché, dopo la sbornia ideologica che ci ha accompagnato nel secolo scorso, riesce a rendersi impalpabile e invisibile, a presentarsi come approccio deideologizzato, come orientamento puramente pragmatico, pratico ed empirico, come concreta “cultura del fare” che non costringe, ma spinge gentilmente: è l’ideologia neoliberista, un’ideologia invasiva che mette al centro della sua visione del mondo l’efficienza, la crescita economica e il profitto, ed eleva dunque l’impresa a modello organizzativo esemplare sul quale plasmare l’intero ordine sociopolitico, senza escludere dal suo raggio d’azione le istituzioni culturali. Il neoliberismo è una forma di biopolitica il cui obiettivo primario, in larga parte già coronato da successo, consiste nel generare una mutazione antropologica orientata a riplasmare ogni valore umano e ogni categoria culturale al fine di renderle leggibili solo all’interno di un quadro di riferimento strettamente economico.
Ovunque nel mondo le Università sono state risucchiate in questo vortice e l’istruzione, sia scolastica che universitaria, è stata piegata alle logiche del mercato e modellata su categorie quantitative, accantonando la qualità. Nell’Unione Europea sono stati introdotti gli ECTS, European Credit Transfer and Accumulation System, vale a dire il sistema di crediti, meglio noti in Italia come CFU (crediti formativi universitari), sicché la prima cosa che gli studenti imparano è che anche la formazione, la cultura e il sapere si contano e ricadono nelle categorie dell’economico: producono “crediti” e “debiti”.
In stretta analogia con la logica dello scambio mercantile, ciascun corso di laurea (fra triennali e magistrali oggi in Italia sono ben 4454) per rispondere alla “domanda” di istruzione deve dotarsi di una specifica “offerta formativa”, i cui insegnamenti vengono “erogati”, come se i docenti universitari fossero, appunto, erogatori, analoghi alle pompe di benzina o ai distributori automatici di bevande e merendine. E non c’è da stupirsene: i professori universitari non sono più persone che rispondono alla vocazione del docere; sono “punti organico”. Non si tratta di mera sciatteria linguistica, ma di una sofisticata strategia studiata ad arte per colonizzare la mente. In un’ottica di questo tipo, va da sé che si chiamino “prodotti” i risultati dello studio e delle ricerche dei docenti – di quei pochi docenti che, malgrado il peso insostenibile di innumerevoli pratiche burocratiche on line cui devono attendere quotidianamente, trovano ancora il tempo e la voglia di studiare. Sono “prodotti” – e prodotti particolarmente apprezzati sul mercato universitario – persino le lauree, perché la produttività delle aziende universitarie viene misurata, tra l’altro, in ragione del rapporto fra numero di iscritti e numero di laureati, ossia fra la materia prima che entra nel sistema produttivo, l’input, e i titoli sfornati, l’outputo, appunto, il prodotto, che in questo caso viene chiamato “capitale umano” perché costituisce – assieme ai più tradizionali “terra”, “capitale” e “lavoro” – uno dei fattori di produzione.
Per valutare “prodotti” e “produttività” del sistema, esiste ovviamente una vasta rete di agenzie di rating, sia nazionali che internazionali, che emettono responsasulla qualità ed affidabilità di Atenei, Dipartimenti e Corsi di laurea ed è sulla scorta di queste quotazioni che i Governi distribuiscono i fondi pubblici, peraltro sempre più esigui. Atenei e Dipartimenti sono perciò spinti sul terreno della concorrenza reciproca, esattamente come qualsiasi azienda. Come per queste ultime, il criterio guida è “scannatevi a vicenda, quanto più intensamente e celermente potete”. I criteri e i parametri mediante i quali le agenzie del rating universitario misurano l’“eccellenza” – parola magica che in realtà fa rabbrividire – sono strettamente aziendalistici. Sia sul terreno della ricerca che su quello della didattica, vi predomina di gran lunga il profilo quantitativo rispetto a quello qualitativo, difficile da misurare, mentre è decisamente più facile – e infinitamente più cretino – affidarsi a criteri bibliometrici, citazionali e di classificazione delle riviste. Due cose accomunano le poco note agenzie del rating universitario alle più note Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch: sia le une che le altre sono viziate da pesanti conflitti d’interesse e in entrambi i casi i responsa che emettono hanno la stessa affidabilità di quella un tempo attribuita all’oracolo di Delfi. Cionondimeno sono attesi e venerati con la stessa fiducia che un tempo nutriva la fede in Apollo. Che la credulità sia diffusa nella confraternita di economisti e operatori finanziari sempre in attesa del verbo di Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch sorprende poco; che un’analoga fiducia nel rating universitario sia diffusa anche presso il ceto intellettuale e i professori universitari stupisce di più.
Lo strumentario per realizzare il controllo e il successivo rating delle Università è molto nutrito ed è, ovviamente, rigorosamente telematico. C’è la VQR (Valutazione della Qualità delle Ricerca); la SUA-RD (Scheda Unica Annuale per la Ricerca Dipartimentale); l’AVA (Autovalutazione e Accreditamento dei corsi di studio); per tacere, infine, della farneticante normativa che disciplina procedure e merito dell’Abilitazione Scientifica Nazionale, l’ASN. Esistono, inoltre, dozzine di altri acronimi altisonanti e indecifrabili (il GOMP, l’IRIS …) e altri infiniti adempimenti burocratici, variabili da Ateneo ad Ateneo e da Dipartimento a Dipartimento, ai quali i docenti devono attendere ogni giorno. Il risultato di questa iperburocratizzazione debordante e ottusa è che i docenti sono costretti a dedicare la maggior parte del proprio tempo e delle proprie energie intellettuali a un profluvio di adempimenti burocratici che, nei rari casi in cui non nuocciono all’Università, sono decisamente inutili: servono solo a sottrarre tempo ed energie allo studio e alla didattica.
Occorre dirlo e dirlo con forza e chiarezza: la digitalizzazione telematica ha spianato un’autostrada alla marcia trionfale della iperburocratizzazione dell’Università. Il web, al cui fascino irresistibile e perverso pochi riescono a sottrarsi, ha spalancato all’ANVUR – l’organismo che governa e controlla l’Università con poteri di gran lunga maggiori di quelli del Ministero dell’Istruzione – sconfinate praterie da conquistare e colonizzare con armi telematiche. Quel che lascia esterrefatti è che Atenei e Dipartimenti ne seguono le orme con entusiasmo, nella convinzione – non so se più stupida o più ingenua – che digitalizzare la burocrazia significhi ridurla, renderla più snella, leggera, agile e impalpabile. Il risultato è stato invece quello di farle assumere dimensioni elefantiache. Negli anni Settanta, quando ero studente presso la Facoltà (come si chiamava allora) di Scienze Politiche, il personale tecnico-amministrativo contava sì e no quattro o cinque addetti che riuscivano ad espletare le loro funzioni in modo esemplare. L’attuale Dipartimento omonimo presso il quale ora insegno, che è all’avanguardia sulla via del “progresso” telematico, annovera non meno di due dozzine di dipendenti i quali, malgrado la loro incondizionata dedizione e l’indiscutibile professionalità, arrancano con fatica per attendere agli infiniti adempimenti telematico-burocratici cui sono quotidianamente sottoposti, analogamente al corpo docente.
Sulla crisi dei sistemi d’istruzione superiore e universitaria esiste una robusta letteratura, sia italiana che straniera, e a essa non si può che rinviare chiunque abbia voglia di saperne di più. C’è tuttavia un aspetto cruciale sul quale questa letteratura non insite a sufficienza. I maggiori responsabili della catastrofe universitaria non sono né i governi, né la crisi economica che ha costretto a drastici tagli di bilancio; non lo sono nemmeno i burocrati in sé, che si limitano ad applicare norme che non hanno fatto loro e che non hanno interesse a giudicare; ancor meno responsabili sono gli studenti, i quali sono solo le vittime di un sistema perverso. I responsabili maggiori del collasso dell’Università – addolora dirlo – sono i docenti universitari che, salvo sporadiche e deboli proteste, non hanno mosso un dito per impedire la catastrofe aziendalistico-telematica dell’Università. Per qualche ragione difficile da comprendere, hanno passivamente assecondato il sistema, rendendosi complici del tracollo. Ammaliati dal fascino di un presunto “progresso” che fluttua nel cloud su ali telematiche; catturati dall’immagine di una certa efficienza aziendalistica incarnata dalla figura del manager, adempiono con zelo tutte le prescrizioni di una normativa il cui obiettivo ultimo, e neanche troppo nascosto, è lo smantellamento dell’Università.
Come molte altre istituzioni, la vecchia Università era certamente piena di molti e gravi difetti, fra i quali spiccava il nepotismo familistico. Ma era anche piena di pregi e di alte qualità: non ha mai pensato che la cultura fosse merce; non ha mai creduto di essere un surrogato degli uffici di collocamento sul mercato del lavoro e non ha mai imposto agli studenti tirocini gratuiti a beneficio di enti pubblici e aziende private; ha invece provveduto alla formazione piuttosto che all’informazione e, infine, ha tenacemente difeso la sua autonomia contro ogni invadenza burocratica. Certamente l’Università italiana non era peggiore di quelle di altri paesi, così come non era peggiore la scuola che, malgrado tutto, continua ancora a essere una fra le migliori al mondo. Per correggere i difetti di cui soffriva l’Università si sono prescritte cure peggiori del male che si voleva curare, cure che hanno però il fascino del cambiamento, dell’innovazione, del progresso. Disgustato dalla teleburocratizzazione dell’Università trasformata in azienda, un professore dell’Ateneo genovese, Accademico della Crusca, si è dimesso e il suo gesto esemplare dovrebbe essere seguito in massa. Invece i più si adeguano, avallando così le istanze della burocratizzazione telematica. Sono pochi i docenti che non si piegano alla VQR, alla SUA, all’AVA, alle regole dell’ASN e agli altri infiniti adempimenti che stanno schiacciando l’Università; pochi quelli che si rifiutano di far parte di commissioni di valutazione di pari o di altri organi di controllo e accreditamento; pochi, troppo pochi, quelli disposti a imboccare la strada della disobbedienza civile e del boicottaggio del sistema, che è forse l’unica strada che resta per arrestare la deriva.
«Ci troviamo nel bel mezzo di una crisi di proporzioni inedite e di portata globale» – scriveva qualche anno fa Martha Nussbaum; e proseguiva: «Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008. In quel caso, almeno, tutti si sono resi conto della crisi in atto e molti governi nel mondo si sono dati freneticamente da fare per cercare delle soluzioni […]. Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione». La citazione è piuttosto lunga e chiedo venia al lettore; ma quel che segue merita di essere riportato tale e quale. «Sono in corso radicali cambiamenti riguardo a ciò che le società democratiche insegnano ai loro giovani, e su tali cambiamenti non si riflette abbastanza. Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata, quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo».
Sante parole. Ma siamo sicuri che le “docili macchine” incapaci di “pensare da sé e criticare la tradizione” stiano solo dall’altra parte della cattedra? Forse è giunto davvero il tempo d’intonare il Requiem.
Pubblicato sul Numero 2 – Dicembre 2018 di Ordines
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