Lucio Caracciolo: la Germania in un mondo in totale trasformazione
di DEUTSCH ITALIA (Luca Steinmann)
Lucio Caracciolo © L. Caracciolo
Lucio Caracciolo, classe 1954, è il direttore di “Limes – rivista italiana di geopolitica”, che ha fondato nel 1993. Laureato in filosofia all’Università La Sapienza di Roma è stato cronista politico e capo della redazione politica di “Repubblica”. Ha insegnato geografia politica ed economica all’Università degli Studi Roma Tre, e insegna tutt’ora all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Inoltre insegna “Studi strategici” nell’ambito del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università LUISS Guido Carli di Roma, dove partecipa anche all’insegnamento della prima laurea magistrale in “International Relations” in lingua inglese. Scrive regolarmente editoriali e commenti di politica estera per il Gruppo Editoriale Gedi ed è considerato uno dei massimi esperti italiani di geopolitica.
Noi de “il Deutsch-Italia” lo abbiamo intervistato.
Il primo numero di “Limes” del 2019 è intitolato “Essere Germania” e si focalizza in buona parte su quella che nel libro viene definita la “crisi d’identità della Bundesrepublik”. Un’idea, quest’ultima, che non combacia con la narrazione maggioritaria della classe dirigente, secondo cui il 1989 segnerebbe la fine della Storia e della particolarità tedesca. Esiste invece secondo lei ancora un’identità tedesca?
Il problema è che la Storia non è finita e dichiararla finita non significa finirla. La tesi di questo numero di “Limes”, che pure ospita una varietà di approcci differenti, è che la Storia batta di nuovo alle porte della Germania, e la chiami a delle scelte a cui questa classe dirigente non è abituata. D’altronde una parte del gruppo dirigente politico tedesco – tra cui l’attuale Presidente della Repubblica e già ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier, il ministro della Difesa Ursula von der Leyen e la stessa Angela Merkel – hanno più volte detto che la Germania deve riprendere in mano il proprio destino, non potendosi più affidare totalmente agli americani. È una sfida a cui la Germania non mi pare pronta, ma di cui mi pare sempre più consapevole.
Tra le sfide che la Repubblica federale è chiamata ad affrontare vi è certamente il suo ruolo all’interno dell’Occidente. Ma la Germania è veramente parte dell’Occidente?
Storicamente la Germania non è mai stata un Paese occidentale. Nel secondo dopoguerra gli alleati, soprattutto gli americani nella Germania occidentale, in misura minore i sovietici, e in misura forte i francesi ed inglesi hanno compiuto un’operazione antropologica cercando di codificare un nuovo tipo di tedesco che fosse accettabile e filo occidentale. È stata un’operazione che ora mostra la corda e che prevede un taglio netto con il passato, non solo con il nazismo, ma con tutto il passato nazionale, imperiale e in parte nazionalista tedesco che precedeva di parecchio il nazismo e contro il quale in nazismo si è dato da fare. Una delle caratteristiche dell’hitlerismo è stata proprio quella di combattere le vecchie élite come gli Junker e una parte delle forze armate prussiane. È stato creato una specie di homus bundesrepublicanus, una nuova specie che ha funzionato molto bene durante il periodo della Guerra Fredda, ma che una volta unificata la Germania mostra la corda. In questa fase di grande nostalgia per il passato in cui sono finite le ideologie universaliste riguardo al futuro si recupera tutto quello che si può. Dai classici come Goethe, Schiller, Fichte fino a Stauffenberg che è l’icona di Alternative für Deutschland e in generale di chi non vuole completamente rompere con la tradizione tedesca.
Questa consapevolezza di rendersi più autonomi dagli americani può portare ad una rivalutazione della Ostpolitik?
Dal punto di vista commerciale la Ostpolitik non è mai finita. È difficile immaginare che i governi possano dire all’industria tedesca ciò che va fatto; esistono delle decisioni politiche di massima e poi l’azione delle grandi aziende che hanno qualcosa da dire a livello politico, pensiamo per esempio alla Siemens. La vocazione tedesca ad espandere verso Est i propri mercati e a cercare una connessione con la Russia è nei fatti, ed è un dato storico. La classe dirigente zarista era tedesca, Bismarck sappiamo cosa pensasse della Russia, chi ha ricostruito l’esercito tedesco dopo la prima guerra mondiale sono stati i russi. Oggi esiste una forte interdipendenza energetica che non può essere spezzata da una semplice volontà politica. Quando hai fatto un tubo, il tubo resta.
Sempre guardando ed Est: Una grossa frattura interna alla Germania è segnata da dove un tempo c’era il Muro che, come si dice spesso, è rimasto nelle teste delle persone. Pensa che questa frattura genererà effetti politici di lungo periodo? Oppure il fenomeno di Alternative für Deutschland è quello di una mera Npd alla potenza, destinata ad essere sconfitta dalla storia?
Io credo che il fenomeno di Alternative für Deutschland abbia molto a che fare con la Germania Est, cioè quella mitteleuropea. Essa ha a che fare con il fatto che il momento della riunificazione non è stato scelto dai tedeschi. In quel momento non c’era una particolare volontà di riunificazione nell’Ovest, né una forte volontà nell’Est di essere occidentalizzati, salvo la passione per il Marco. Spesso ci dimentichiamo che prima del 9 novembre del 1989 ci fu a Berlino una manifestazione oceanica, il 4 novembre, in cui parlò anche Mischa Wolf (Markus Johannes Wolf, il più famoso agente segreto della DDR), in cui si sosteneva che la DDR dovesse riformarsi per costruire un Paese socialista più libertario. Sicuramente erano utopie, restano però i segni di una mentalità che non si è adeguata agli standard occidentali e viceversa. L’approccio tedesco-occidentale verso l’Est è stato di tipo coloniale: arriviamo noi, diventiamo i padroni di questo territorio e vi trattiamo da polacchi che parlano tedesco.
La crescita dei movimenti che non si riconoscono nel modo in cui la reinvenzione dell’identità tedesca è avvenuta fino ad oggi preoccupa una parte del mondo ebraico tedesco, che teme per la crescita di nuove forme di antisemitismo. È possibile?
Storicamente la Germania è un Paese che ha conosciuto una certa dose di antisemitismo, seppur di meno rispetto ad altri Paesi europei come la Polonia, la Russia e la Francia dove esso fu molto maggiore. Nel momento in cui Hitler si impadronì del potere in Germania è passata una visione razzistica e stragista dei semiti promossa dal Terzo Reich, che ha elevato all’ennesima potenza questo problema. Oggi penso che quando si inizia con l’islamofobia si finisce presto nell’antisemitismo o altri tipi di razzismo. Il rischio che l’antisemitismo in Germania cresca è reale, anche se di ebrei tedeschi ormai non ce ne sono più moltissimi.
La reinvenzione dell’identità tedesca prevede, come lei ha spiegato, anche la rimozione del passato che precede il nazismo, tra cui anche le origini romantiche della Germania che affondano le proprie radici nelle manifestazioni italiane della cultura greco-latina: si pensi a Goethe, a Novalis, a Seume o a Heinrich Heine. C’è quindi un rischio di allontanamento culturale tra i due Paesi?
I rapporti italo-tedeschi sono stati molto buoni nel periodo della Guerra Fredda, oggi sono abbastanza inesistenti. Durante la Guerra Fredda erano molto buoni perché eravamo entrambi Paesi sconfitti, anche se a noi italiani non lo raccontavano a scuola, e avevamo una caratteristica fondamentale in comune, cioè essere dei semi-protettorati americani. Inoltre avevamo un approccio all’Est e al mondo sovietico abbastanza parallelo, pensiamo a Willy Brandt e a Berlinguer. Ma soprattutto, cosa che adesso non c’è più, c’era un’analogia politica fra i partiti: i democristiani italiani con i cristiano-democratici, i comunisti con la SPD. Oggi non esistono più delle élite che siano sulla stessa lunghezza d’onda, e quindi il dialogo è abbastanza interrotto. Nelle classe dirigente italiana solo in pochi conoscono la Germania e viceversa; stiamo quindi tornando a maneggiare i vecchi stereotipi: le cicale e le formiche, i mediterranei e le Sturmtruppen.
A cosa ritiene sia principalmente dovuto il ritorno all’utilizzo reciproco di stereotipi?
L’utilizzo degli stereotipi e della Volekerpsychologie è una scorciatoia che evita di fare riflettere troppo sulla sostanza delle cose, offre una ricetta preconfezionata. Tu sarai sempre una formica e io sempre una cicala, o per dirla come un signore che ha negoziato Maastricht per la Germania quando lo intervistai e gli chiesi perché mai avessero voluto mettere l’Italia nell’euro mi rispose testualmente: «perché volevamo nordificarvi». Era l’idea di applicare agli italiani una sorta di chirurgia antropologica e culturale che ci avrebbe trasformato in tedeschi. Questo è un punto debole generale della Germania, che non è capace di entrare nelle teste altrui, a differenza degli americani, e pensa di potere estendere agli altri il proprio modello morale e civile, considerato superiore. Il problema è che se tutti fossimo tedeschi non funzionerebbe. È per esempio impossibile che dal punto di vista economico diventiamo tutti dotati di surplus commerciale grazie alla nostra capacità di produrre merci di qualità da esportare nel mondo, perché laddove c’è un surplus deve altrove esserci un deficit. Anche le cicale possono servire alle formiche.
È pensabile un’Unione Europea forte che possa essere un quinto polo mondiale concorrenziale a Cina, Russia e Stati Uniti, con una Germania forte al suo interno?
No. L’Unione Europea non è un soggetto geopolitico, gli Stati che la compongono non sono disposti a cedere ulteriore sovranità, anzi se mai tendono a recuperarla, soprattutto tendono a recuperare una visione dei propri interessi nazionali conflittuali con quella degli altri. Noi assistiamo oggi a una graduale disintegrazione dello spazio dell’Unione Europea e a non solo il riemergere di vecchi nazionalismi, ma anche alla formazione di raggruppamenti basati su idee di comunanza di interessi, pensiamo ai Paesi di Visegrad, alla Nuova Lega Anseatica e al rapporto franco-tedesco, seppure quest’ultimo sia abbastanza fasullo. Ecco, tutto questo impedisce di immaginare una UE che sia un soggetto geopolitico vero e proprio. Al massimo si può immaginare che alcuni di questi Paesi e di questi gruppi arrivino a formare una sorta di confederazione, tipo quella tedesca che precedette l’unificazione. Ma francamente non mi pare imminente.
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