Le nuove vie della seta in America Latina
di LIMES (Giorgio Cuscito)
Dettaglio di una carta di Laura Canali
BOLLETTINO IMPERIALE Un numero crescente di paesi dell’area aderisce all’iniziativa della Cina, ma non mancano i dubbi di governi e popolazioni sulla sua convenienza. L’attendismo di Pechino in Venezuela.
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La Cina sta compiendo passi in avanti per irrobustire la sua già corposa presenza economica e politica in America Latina. L’area non è in cima all’agenda geopolitica di Pechino, ma diversi paesi latinoamericani hanno aderito ufficialmente alla Belt and Road Initiative (Bri, o nuove vie della seta), progetto geopolitico lanciato dalla Repubblica Popolare per proiettare la sua influenza ben oltre i confini nazionali.
Nel lungo periodo, la Cina vuole mettere radici nel “giardino di casa” degli Stati Uniti al fine di scoraggiare i loro sforzi per destabilizzare i suoi interessi in Asia-Pacifico. Washington tenta periodicamente di smentire le pretese di sovranità dell’Impero del Centro nel Mar Cinese Orientale e Meridionale conducendo operazioni di navigazione e sorvolo intorno alle isole artificiali cinesi negli arcipelaghi Paracel e Spratly. Soprattutto, gli Usa appoggiano la causa di Taiwan, che il presidente cinese Xi Jinping vorrebbe riconquistare prima del 2049, anno del centenario della fondazione della Repubblica Popolare. L’espansione delle attività diplomatiche ed economiche cinesi in America Latina non serve solo a scoraggiare gli Usa dal danneggiare i propositi regionali cinesi, ma a ridurre anche lo spazio diplomatico di Taipei. Ad oggi, solo 17 Stati riconoscono la sovranità del governo taiwanese. Nove di questi si trovano in America Latina.
La Repubblica Popolare è fortemente interessata anche alle risorse energetiche e minerarie dell’area. Lo confermano i cospicui investimenti in Venezuela, che dispone delle più grande quantità di petrolio accertata al mondo. La diversificazione del paniere energetico è essenziale per la Cina poiché le risorse nazionali non bastano a soddisfare le necessità della sua economia, in crescente espansione. Lo stesso può dirsi per il settore agricolo. Brasile e Argentina esportano larga parte della loro soia in Cina e nel 2018 hanno beneficiato del quasi azzeramento delle importazioni cinesi di questo prodotto dagli Usa a causa della guerra commerciale.
I cambi di governo in Brasile e Messico non danneggeranno l’andamento complessivo delle attività della Cina nell’area. La crisi politica, economica e umanitaria in corso in Venezuela potrebbe invece far perdere a Pechino un’importante pedina nello scacchiere latinoamericano.
La Cina in America Latina
Nei primi cinquant’anni dopo la sua fondazione, la Repubblica Popolare ha prestato poca attenzione all’America Latina. Del resto, la posizione di forza degli Usa sui paesi vicini era più marcata e la Cina non era ancora la potenza economica che conosciamo. Pechino ha cambiato postura all’inizio degli anni Duemila quando, a caccia di risorse naturali, ha intensificato i rapporti con i paesi latinoamericani.
Dal 2005 a oggi, la Cina ha prestato loro oltre 150 miliardi di dollari. Circa 67 miliardi sono stati ottenuti dal Venezuela, di cui ne ha restituiti solo 30 miliardi sotto forma di petrolio e risorse minerarie. La Cina è diventata anche il secondo partner commerciale di tutta l’America Latina dopo gli Usa. In particolare, le relazioni più fruttifere in questo campo sono quelle con Brasile, Cile, Perù e Cuba. Inoltre, l’America Latina è oggi la seconda destinazione degli investimenti diretti esteri cinesi dopo l’Asia.
Nel 2017, Pechino ha definito l’area “un’estensione naturale” della Bri. Nel giro di tre anni Uruguay, Cile, Trinidad e Tobago, Bolivia, Antigua e Barbuda, Guyana, Costa Rica, Venezuela, Barbados e Panamá hanno appoggiato ufficialmente l’iniziativa. Pochi mesi fa, l’azienda cinese Cosco ha concluso un contratto per prendere il controllo del porto di Chancay in Perù. È la prima volta che il colosso della logistica investe in uno scalo marittimo del Sudamerica. Prima della Cosco, l’omologa China Merchants ha acquisito il 90% del terminal del porto di Paranagua in Brasile. Inoltre, nel 2018 Panama ed El Salvador hanno chiuso ufficialmente le relazioni diplomatiche con Taiwan per aprire quelle con Pechino e aprire la porta ai suoi investimenti.
Gli investimenti cinesi non sono sempre accolti favorevolmente. In questi anni in Brasile e Perù si sono registrate proteste circa lo sfruttamento delle risorse minerarie ed energetiche e l’impatto ambientale delle attività cinesi. Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro e quello argentino Mauricio Macri avevano criticato in passato la collaborazione tra i rispettivi paesi e la Cina, salvo poi attenuare i toni una volta preso in mano il dossier cinese. Nel 2017, Macri ha espresso la volontà di rinegoziare i rapporti con Pechino e tentato – senza successo – di impedire a un’azienda cinese la costruzione di due dighe sul fiume Santa Cruz. Il progetto è infatti vincolato alla realizzazione della rete ferroviaria di Belgrano, cui il presidente non vuole rinunciare. Anche il Messico vorrebbe ridurre il deficit commerciale nei confronti della Cina e potenziare la produzione nel settore tessile, dove ne soffre la competizione. Allo stesso tempo, non è escluso che la Repubblica Popolare contribuisca alla discussa costruzione della linea ferroviaria nello Yucatán.
Per Pechino, il dossier venezuelano è certamente il più delicato. Il caos politico in corso a Caracas evidenzia quale sia ancora il peso degli Usa negli equilibri regionali. Non si può stabilire con certezza quanto Washington abbia influito sul declino della Repubblica Bolivariana. Ad ogni modo, in questo momento la Casa Bianca cerca di approfittare della situazione appoggiando l’autoproclamatosi presidente ad interim Juan Guaidó affinché sostituisca il capo di Stato in carica Nicolás Maduro. Nel corso degli ultimi vent’anni, quest’ultimo insieme al suo predecessore Hugo Chávez sono stati responsabili della collaborazione strategica del Venezuela con la Cina, basata principalmente sull’erogazione di prestiti cinesi in cambio di petrolio. Come se non bastasse, il cambio di governo a Caracas potrebbe dilatare più del previsto i tempi di restituzione dei prestiti o addirittura rinviarli a data da destinarsi.
Per queste ragioni, Pechino rifiuta di riconoscere la presidenza di Guaidó. Allo stesso tempo, il governo cinese non vuole esporsi politicamente per Maduro. Il petrolio venezuelano rappresenta una componente marginale delle importazioni energetiche della Repubblica Popolare e la situazione debitoria di Caracas non è tale da intaccare le finanze cinesi. Inoltre, non è detto che il presidente in carica sia in grado di preservare ancora la stabilità del paese.
Ciò determina l’attendismo della Cina, che dall’esperienza venezuelana può imparare un insegnamento: legare un paese geopoliticamente instabile al proprio sostegno economico può nel lungo periodo danneggiare anche gli interessi cinesi.
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