Francesca Recchia è mia amica e concittadina e quando sono venuto a sapere che si trovava in Iraq, per insegnare in una università irachena, l’ho contattata sperando che potesse collaborare con il nostro sito e ho scoperto che da tempo scrive alcuni bollettini che pubblica sul sito "Bollettini" all’indirizzo http://www.veleno.tv/bollettini/. Mi sono apprestato a leggerli. I bollettini non contengono informazioni e osservazioni direttamente ed esplicitamente politiche, come molto ingenuamente avevo sperato, bensì narrano episodi di vita e incontri con la cultura di un popolo che i criminali eserciti occidentali hanno bombardato invadendone il territorio. Le ragioni per le quali la mia aspettativa era ingenua sono evidenti e non vi è motivo di esplicitarle.
Spero che quando Francesca sarà tornata potremo sapere di più; farci narrare fatti di rilevanza politica e leggere le riflessioni di chi si è trovata ad insegnare in una università irachena durante gli anni della guerra.
Per ora cominciamo a pubblicare i bollettini settimanali, perché li reputiamo interessanti e profondi e siamo onorati del coraggio, della intelligenza e della profondità d’animo di questa concittadina. Si tratta di pagine di un diario; appunti di viaggio scritti velocemente al computer nelle ore rubate al lavoro e al sonno. Perciò li pubblichiamo così come sono, lasciando anche eventuali errori di battitura.
Dall’indirizzo http://www.veleno.tv/bollettini/ copio quattro bollettini, tra i più belli e interessanti, secondo il mio parere. Dalla prossima settimana pubblicheremo tutti i bollettini che Francesca ci invierà. Chi fosse interessato a leggere tutti quelli già scritti e pubblicati, li troverà all’indirizzo testé segnalato (SD’A).
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di Francesca Recchia
Buongiorno
C’è un villaggio al confine fra Iraq e Iran che si chiama Holshou; è il punto di arrivo di una strada stretta che si arrampica piano piano attraverso una pianura che le montagne interrompono improvvisamente. Sono montagne che sembrano essere lì da prima dell’inizio del tempo, rocce brulle e crude, dall’aspetto severo affascinante eterno. La prima montagna che si incontra alla fine della pianura si chiama Montagna Nera – la chiamano così perchè è nuda e sterile, pura roccia su cui non cresce niente.
Se stessi scrivendo un libro di avventure probabilmente cominerei la mia storia dicendo: Per ragginungere Holshou i nostri padri raccontano: “ una volta arrivati alla Montagna Nera segui il sentiero che piega verso destra, costeggia le pareti di roccia e dopo un saliscendi fra precipizi e colline nebbiose arrivi a Holshou…”
Non sto scrivendo un libro di avventure, ma il viaggio verso Holshou è stato un salto nel tempo, il compimento del sogno orientalista di un viaggiatore ottocentesco: ecco il Kurdistan come ho sempre immaginato che fosse.
Un villaggio di fango e pietre con tetti di legno isolati da uno strato compatto di terra. Un villaggio scavato nella roccia e arrampicato sulla parete di una montagna antica – di quelle montagne che ti espongono alla potenza della natura, di quelle montagne che non ti fanno più distinguere la fascinazione dalla paura.
Un villaggio fatto di poco e di molto, con visi segnati dal freddo e dal tempo così profondamente da renderti incapace di contare il trascorrere degli anni.
Un villaggio dove le parabole per la televisione sono aggrappate ai tetti di fango, dove i vecchi portano il turbante e camminano appoggiati a bastoni così alti che arrivano alle costole, dove le donne hanno i capelli tinti di un rosso abbagliante e vestiti di ciniglia che sono macchie di colore contro lo sfondo grigio del paesaggio.
Un viallaggio dove la maggior parte degli adulti non sa leggere e scrivere e firma con l’impronta del pollice. Un villaggio dove da generazioni gli uomini scavalcano le montagne per contrabbandare ora alcol e cellulari (pare importati da Dubai) e prima chissà verso un Iran avido di prodotti proibiti…
Un villaggio dove probabilmente capita una volta ogni cinquant’anni di vedere una donna occidentale in giro per la strade; un villaggio dove ti accorgi che nonostante le battaglie quotidiane la fascinazione dello sguardo orientalista è difficile da tenere sotto controllo…
Torno a raccontare all’inizio di marzo
A presto
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Buongiorno
Le stagioni fanno fatica a trovare una definizione e giorni di sole estivo si succedono a giorni di tempeste di sabbia, in cui l’aria è così densa che diventa difficile a respirare.
Scrivere oggi è particolarmente complicato. La tragedia del terremoto, la distanza dalla mia famiglia, la difficoltà di elaborare da soli un lutto collettivo che percepisco attraverso le parole dei miei e le manipolazioni dei media rende quasi impossibile formulare un pensiero lineare, concentrarsi sul quotidiano, sul qui e ora senza lasciarsi trasportare dalla confusione emotiva che caratterizza questi giorni. Così da lontano non posso fare nulla, il mio cuore è altrove ma non posso che fare uno sforzo di “realtà” e cercare di ancorarmi al mio presente. Il pensiero del progetto mai realizzato del Museo del Terremoto ad Avezzano in questi ultimi giorni non mi lascia… non possiamo permetterci di dimenticare.
Oggi in Iraq è una giornata importante e controversa. Per alcuni è il giorno della fine del regime di Saddam, per altri è l’inizio dell’occupazione americana. Provo a sospendere il giudizio, ma non è semplice. Mi ricordo le immagini del soldato arrampicato sulla statua di Saddam e mi ricordo il gelo che ho provato quando ho visto sventolare sulla statua la bandiera americana. Niente è mai solo quello che sembra – mi ricordo di aver pensato. Niente in quel momento mi avrebbe potuto far pensare che anni dopo sarei andata a vivere in Iraq…
Qui ad Erbil la festa nazionale non è poi così nazionale: i ministeri sono chiusi, ma all’università è un giorno di lavoro normale. Si parla poco in/di giorni come questi, le opinioni sono sempre caute e certi discorsi politici sono possibili solo in contesti privati e di confidenza, per il resto si annuisce e si sorride per cortesia.
Giovedì scorso c’è stato un “grande evento”: il Dipartimento di Stato americano ha organizzato un concerto jazz con un gruppo di musicisti americani in turnè in giro per il mondo. Qui non succede mai niente di “culturale” e quindi una serata di musica dal vivo diventa la cosa di cui si parla e su cui si commenta per giorni. Una delle mie studentesse mi ha detto alla fine del concerto che per lei è stata un’esperienza incredibile: era, infatti, la prima volta che ascoltava musica occidentale dal vivo ed era sorpresissima dal fatto che potesse essere così piacevole.
Il concerto in effetti non è stato male, ma di nuovo niente è mai solo quello che sembra e qui tutto in un modo o nell’altro diventa politica. Forse le mie orecchie sono troppo sensibili e dovrei imaprare a tralasciare i dettagli, ma la retorica che ha avvolto l’intero concerto ha fatto sì che per me il concerto fosse più antropoligicamente interessante che esteticamente piacevole.
Il tutto è cominciato con il batterista e leader del gruppo che dichiarava di essere molto emozionato all’idea della sua prima performance in Iraq. Fino qui ci siamo, non è una cosa da poco e non è una cosa che capita a tutti. Il prurito comincia quando la consapevolezza geopolitica del musicista vacilla e continua a parlare di Iraq e di quanto ama l’Iraq sucitando, immagino con sua sorpresa, la risposta freddina del pubblico. La serata si scalda e in uno slancio di entusiasmo il batterista dichiara che fra tutti i concerti tenuti in Iraq, questo è decisamente il migliore…. oh yes, vi amiamo tutti! Il bello arriva con un momento di lucidità in cui il batterista capisce che c’è qualcosa che non va e quindi a pieni polmoni grida “I love you Kurkistan” (non è un errore di battitura, ma una citazione testuale!) L’irritazione a questo punto lascia il posto al sorriso sarcastico considerando l’insistenza sul fatto che questo sia il miglior concerto fra quelli che la band ha tenuto in Iraq (non era il primo?). L’apoteosi arriva alla conclusione ovviamente, il gruppo ci regala una canzone composta dal batterista (che suona stranamente simile a Coltrane) – il pezzo è stato scitto durante questo tour del Medio Oriente, forse scritto nello Yemen o forse negli Emirati (sulla spiaggia di Dubai?) non mi ricordo. Il pezzo comincia continua e finisce così: America, Dio ti protegge!
Sospendo il giudizio, ma faccio fatica a trattenere un ghigno.
Niente è mai solo quello che sembra…
A giovedì prossimo!
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Buongiorno
Qui l’estate sta facendo le prove generali: ieri e l’altro ieri c’erano trenta gradi e il cielo limpido, oggi è tornata la sabbia… è un tempo schizzofrenico che mi sta dando la debolezza combinata del primo caldo con quella del cambio di stagione. Il risultato è che vado un po’ a rilento ed ho sempre sonno.
Nel giardino dell università sono fiorite le rose, ce ne sono di tutti i colori e nei giorni di cielo sereno il profumo riesce a prendere il sopravvento su quello della polvere. Queste macchie di colore rendono il paesaggio un po’ più leggero ed ospitale.
Nel 1986 Julio Cortazar ha raccolto appunti, note, storie non concluse in un libro che si intitola “Il giro del giorno in ottanta mondi”. È un viaggio nei pensieri, negli stimoli e nelle suggestioni che il mondo dà allo scrittore anche quando è seduto alla sua scrivania. Questo libro mi è tornato in mente qualche giorno fa, quando cercavo di trovare un filo per la mia fascinazione nei confronti di questo paese. E la risposta credo stia nel fatto che ogni giorno per me è un viaggio di scoperta delle migliaia di contraddizioni che animano questo posto, delle decine di storie incredibili che ogni giorno mi sento raccontare, delle sfaccettature improbabili che costituiscono le esperienze delle persone che ho intorno o che per caso mi capita di incontrare.
Le stratificazioni della società, l’accesso a circoli diiversi, la mescolanza di lingue, religioni e tradizioni fanno si che che ogni giorno si manifesti come un’improbabile combinazione di mondi diversi. E io mi sento un po’ come il signor Fogg del “Giro del mondo in ottanta giorni” in cerca dei mezzi di trasoprto più disparati per orientarsi e muoversi intorno al mondo e un po’ come Cortazar che gode delle (mancate) connessioni fra gli eventi le cose e le persone del piacere che può dare la sospensione della logica e l’accettazione del lato surreale della vita.
Sono gli incontri con le persone che mi lasciano di frequente con la sensazione di spaesamento che si ha durante un lungo viaggio e le chiacchierate diventano avventure e i mondi si moltiplicano nella consapevolezza del fatto che ciò che sembra inconciliabile può trovare equilibri funambolici all’interno della stessa persona.
La settimana scorsa ho bevuto un te con un personaggio incredibile, un giovane professore di critica letteria, con dei profondissimi occhi neri, un inglese perfetto e i modi di un gentiluomo di altri tempi. Qui con un paio di domande con cui domandi senza chiedere si riesce a scoprire molto più di quello che si vuol sapere – di questa persona mi è stato detto che viene da una famiglia religiosa e potente e che lui e suo fratello sono seriamente militanti (cosa che lo stile del taglio della barba in qualche modo lascia intuire). Abbiamo chiacchierato di strutturalismo, di Foucault e Derrida, della possibilità o meno di un’interpretazione postcoloniale del Kurdistan, delle potenzialità evocative della poesia immaginista – che cita a memoria con una metrica impeccabile. Non sono così frequenti da queste parti le possibilità di questo tipo di conversazioni e il piacere dello scambio è stato reciproco e sincero. Dopo un’ora e mezza è andato via – ha portato la mano sul cuore ed è andato via… nessuna stretta di mano, non si può, chissà perchè me l’ero dimenticato. Due mondi che per me sembrano agli antipodi convivono in questa persona con quella grazia stupefacente che continua inesorabilmente a prendermi di sorpresa.
Un abbraccio
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Buongiorno
Il cielo è grigio o color ambra raramente turchese. Lo smalto sulle ughie dei piedi è viola. La ribellione del mio corpo alle continue tempeste di sabbia è una “cosa” rosa che si arrampica (per fortuna non in modo troppo appariscente) sulla parte sinistra della faccia. L’estate è arrivata e non si parla d’altro che di quanto sarà difficile affrontare giorni sempre più caldi.
Nazanim in curdo significa “non so” o “non capisco” – è una delle prime parole che si imparano visto che qui non capire niente di niente sembra essere una condizione esistenziale. È una parola che mi piace molto e che spesso finisce per essere un lasciapassare: se si associa ad un’alzata di spalle per me è la quintessenza dello spaesamento e della continua negoziazione fra comunicazioni e fraintendimenti quotidiani.
In questi giorni per me è diventata anche la parola chiave di una riflessione su me stessa, sulla scrittura e sulla posizione che mi sto costruendo in questo posto. A volte mi sembra di cominciare a sapere più di quello che ho voglia veramente di sapere, a volte ho l’impressione di conoscere cose e situazioni di cui non dovrei sapere nulla. E questa consapevolezza ha un peso che non conoscevo. È un’arma a doppio taglio. Alimenta la mia curiosità già di per se spropositata e allo stesso tempo mi da un senso di responsabilità con cui è difficile fare i conti. A volte vorrei essere uno stuzzo, nascondere la testa sotto la sabbia e pensare che sia un bel modo di scamparsela. Altre volte il desiderio di scoprire i fili nascosti che muovono situazioni e persone genera un eccitato senso di vertigine.
E così nazanim è diventata per me la lente attraverso cui capire l’influenza che la società, le abitudini, la cultura di questo posto cominciano (?!) ad avere su di me. Penso ad una delle prime discussioni con Anna, appena arrivate, sul timore che un tessuto sociale così represso/repressivo e conservatore come questo potesse plasmarci senza che ce ne rendessimo conto. A guardarlo oggi quel timore non era poi così infondato. Mi rendo conto che sto cambiando – che il mio modo di comportarmi subisce le influenze del contesto in cui vivo. E mi rendo conto – immaginate a questo punto il mio miglior ghigno a metà fra cinismo e ingenuità – che tutto questo sta succedendo (è successo) senza che me ne accorgessi, finchè ad un certo punto, a sette mesi dalla linea di partenza, mi si sono aperti gli occhi. E la rivelazione più interessante – ma anche un po’ dolorosa e faticosa – è che il livello di autocensura che esercito sulle mie parole scritte o parlate è sorprendente. Ci sono cose che so di non poter scrivere, ci sono cose che muoio dalla voglia di raccontare, ma so di non potere. Non finchè sono qui. E questa consapevolezza mi da una sensazione ambivalente – di repulsione nei confronti di me stessa per la mia mancanza di coraggio, nei confronti di un sistema sociale che rischia di soffocarti senza dartelo a vedere; ma anche una sensazione di matura accettazione (senza nessuna sfumatura sacrificale) di una condizione da cui sto imparando. Mi sento un po’ come una chioccia che cova il non detto in attesa che sia maturo a sufficienza per poter prendere la forma “inoffensiva” di una storia dei molti dietro le quinte di cui ho il privilegio di conoscere i dettagli.
Un abbraccio
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articoli bellissimi, delicatezza e poesia, femminilita’ e arguzia, veramente una lettura che da respiro all’anima.
sono contento di averli letti, grazie.