Dazi Usa, perché l’Italia deve prepararsi al peggio
Di LETTERA 43 (Mario Margiocco)
Trump, riesumando lo storico protezionismo repubblicano, finora ha solo abbaiato. Ma tra 13 mesi si vota e vorrà dimostrare di essere l’unico in grado di difendere il Paese dai “profittatori”. E con il nostro attivo commerciale siamo, con i tedeschi, i primi della lista.
Con Parmigiano e Grana, e vari altri prodotti, alla fine è capitato anche a noi. Toccando con una tariffa protettiva del 25% i famosi formaggi padani, divino Gorgonzola compreso, più altre eccellenze della penisola, gli Usa ci hanno proprio colpito al cuore, così come nell’orgoglio hanno colpito il whisky scozzese, i cardigan e pullover inglesi, Bordeaux e tutti i vini fermi francesi (salvo lo champagne, insieme a Prosecco e spumanti), salsicce di maiale tedesche, e altro, in attesa si teme di aprire il capitolo auto. Tutto parte dagli aerei Airbus, un prodotto all’origine franco-tedesco e poi anche anglo-spagnolo, visto che si tratta di ritorsioni contro gli aiuti pubblici ottenuti dal grande rivale dell’americana Boeing.
ORA SI ATTENDE LA SENTENZA DEL WTO SU BOEING
La cosa curiosa poi è che i dazi di Washington scattano perché dopo più di un decennio il Wto, l’organizzazione mondiale del commercio fermamente voluta dagli Stati Uniti nella loro grande stagione liberoscambista postbellica (allora, era il 1947, si chiamava Gatt) ha sentenziato che gli aiuti europei a Airbus sono stati eccessivi. Donald Trump, è noto, disprezza il Wto e dice di volerlo abolire. Si è in attesa di un’altra analoga sentenza su Boeing, che di aiuti ne ha ricevuti almeno altrettanti sia direttamente sia soprattutto attraverso le commesse militari del Pentagono.
Il deficit commerciale Usa oscilla ora tra i 50 e i 55 miliardi di dollari al mese. Negli ultimi 15 anni si è andati da un minimo di 383 miliardi nel 2009 a un massimo di 761 nel 2006
I DAZI NELLA GUERRA CIVILE USA
Il deficit commerciale americano oscilla ora tra i 50 e i 55 miliardi di dollari al mese. Negli ultimi 15 anni si è andati da un minimo di 383 miliardi nel 2009 (c’era la grande crisi finanziaria innescata dai mutui subprime e da altro) a un massimo di 761 nel 2006. Erano 502 l’ultimo anno prima di Trump, nel 2016, per salire a 552 nel 2017 e a 621 nel 2018, e quest’anno si sfioreranno i 650 miliardi. Non siamo comunque molto lontani, per esempio, dalla norma storica di tutto l’800, quando gli Stati Uniti ebbero in media un saldo negativo pari al 2,2% del Pil, così come calcolato più tardi sui dati economici storici.
Esportatori di prodotti agricoli e forestali e importatori netti di manufatti, i neonati Stati Uniti ebbero nel primo ministro del Tesoro, Alexander Hamilton, un teorico della difesa doganale delle manifatture, surclassate allora da quelle britanniche soprattutto. Combatterono una terribile guerra civile assai più sui dazi e sul ruolo di Nord e Sud nella conquista dell’Ovest che per l’emancipazione degli schiavi del Sud. Alla fine vinsero il Nord industriale e i repubblicani alfieri del protezionismo ed eredi del partito Federalista di Hamilton sul Sud democratico agrario e liberoscambista. Tariffs, si dice oltre Atlantico, are Americans as apple pie, i dazi sono americani come la torta di mele.
TRUMP E LA TRADIZIONE DEL PROTEZIONISMO REPUBBLICANO
Gli Stati Uniti sono cresciuti a prateria, mandrie, cotone e protezionismo, e poi grandi industrie tessili nel New England e siderurgiche intorno all’area dei Grandi Laghi. Alla vigilia della Prima Guerra mondiale Washington aveva in assoluto il corpus tariffario più alto dopo quello della Russia zarista, per proteggersi dai prodotti inglesi e tedeschi spesso allora più efficienti, migliori come qualità e realizzati a costi inferiori. Solo dopo la Seconda Guerra mondiale, in anni di totale supremazia agricola e industriale, gli Stati Uniti hanno abbracciato totalmente il libero scambio, al quale anche Franklin D. Roosevelt ma soprattutto il suo Segretario di Stato Cordell Hull prepararono il terreno sfidando la tenace tradizione nazionale, repubblicana e nordista soprattutto. Hull era del Tennessee. Ed era convinto che le due Guerre mondiali e in particolare la Prima fossero figlie delle rivalità commerciali. Trump, che è un uomo del passato con il suo nazionalismo alla America First, è quindi nella tradizione del suo partito, che ha contagiato ormai anche i democratici.
Solo dopo la Seconda Guerra mondiale, in anni di totale supremazia agricola e industriale, gli Stati Uniti hanno abbracciato totalmente il libero scambio
LO SMOOT-HAWLEY ACT DEL 1930
L’apogeo del protezionismo fu nel 1930 con l’approvazione, nonostante il no della netta maggioranza dei deputati e senatori democratici, dello Smoot-Hawley Act, firmato da due repubblicani. Era la risposta negativa all’appello lanciato dalla Conferenza economica della Società delle Nazioni di Ginevra nel 1927 che invocava la fine dell’era dei dazi generalizzati. Fermamente trincerato anche oggi al Congresso, dove arrivano tutti i terminali dei settori merceologici interessati e che si incarica di far tenere pronta ogni possibile norma tariffaria, il protezionismo non ha più avuto, da Roosevelt a Barack Obama, un suo uomo alla Casa Bianca. Tariffe temporanee sono state concesse molte volte, caso classico l’acciaio, ma l’autorità presidenziale aiutata da legislazioni che concedevano all’esecutivo ampi spazi discrezionali ha sempre funzionato da arbitro.
Sono più di 30 anni che Trump sostiene come sia facile, con dazi adeguati, punire i Paesi che traggono indebito vantaggio dal grande mercato americano offrendo poco in cambio
LA PRESUNTA UNICITÀ DEGLI STATES
Sono più di 30 anni che Trump sostiene come sia facile, ponendo dazi adeguati, punire i Paesi che traggono indebito vantaggio dal grande mercato americano offrendo poco in cambio. Ma sarebbe un grave errore ridurre tutto a Trump. Da 20, forse 30 anni, la marea protezionista sta rimontando legata, oltre che alla tradizione, a un principio identitario diffusissimo che fa degli Stati Uniti qualcosa di “unico” e di ambito, dove tutti vogliono mettere piede o vendere e a una posizione geografica marcatamente separata che giustifica questa identità e la necessità di tenere a bada i “barbari”.
L’EMORRAGIA DI POSTI LAVORO E LA VITTORIA DEL TYCOON
Globalizzazione e delocalizzazioni hanno imposto un alto prezzo occupazionale e retributivo. Un fatto rilevante è che dalla fine del secolo scorso sono stati i democratici a diventare sempre più protezionisti, sulla spinta di una base tradizionale che perdeva il posto di lavoro, prima nel New England e nello Stato di New York e poi nel Midwest, determinando alla fine la vittoria nel 2016 del protezionista Trump. Il quale ha imposto la sua linea a un partito repubblicano diventato, con Ronald Reagan e anche prima, sostanzialmente favorevole ai mercati aperti.
Non va dimenticato che John Kerry, candidato dem alla Casa Bianca nel 2004, prometteva se eletto l’immediata revisione di tutti i trattati commerciali
COSÌ DEM E REPUBBLICANI SI SONO SCAMBIATI I RUOLI
C’è stata quindi una notevole inversione di ruoli, e non va dimenticato per esempio che il democratico John Kerry, candidato presidenziale nel 2004, prometteva se eletto l’immediata revisione di tutti i trattati commerciali. Era uno strappo alla tradizione avviata nel 1934 da Roosevelt con il Reciprocal Trade Agreements Act che, con un primo calo delle tariffe, rifletteva i principi storici del partito. Alle Midterm del 2006 arrivavano al Congresso 29 deputati democratici fair traders e non più free traders, e sette senatori di uguale sentire, tutti in sostituzione di altrettanti liberoscambisti, a netta maggioranza repubblicani.
TRUMP CAVALCA I DAZI IN VISTA DEL 2020
Il populista miliardario Trump è arrivato al potere per una manciata di voti ottenuta nei distretti giusti e deindustrializzati di tre Stati del Midwest innestando il neoprotezionismo dell’elettorato operaio democratico con la vecchia tradizione protezionista dei repubblicani. Non a caso ha colpito ora l’Europa, fornitrice di prodotti di qualità (i blue collar non italo-americani non usano in genere parmesan) all’inizio della campagna elettorale per il 2020. Trump sembra convinto che i dazi siano un’arma efficace e semplice per mettere tutti in riga, ma certamente sa che lo sono, efficaci, durante una campagna elettorale.
PERCHÉ NOI ITALIANI DOBBIAMO ASPETTARCI IL PEGGIO
Finora Trump aveva più abbaiato che morsicato. Il gesto più netto lo ha fatto all’inizio, rifiutando l’adesione americana al grande accordo commerciale del Pacifico (Tpp), che sta beneficiando chi vi ha aderito. Sul Nafta (libero scambio con Canada e Messico), ha fatto tanti discorsi e tweet ma poi lo ha rinegoziato, e in modo soft, e così con la Corea del Sud. Con la Cina il discorso è più complesso. Pechino non è solo un concorrente ma anche uno sfidante, per ora però i dazi non sono ancora una vera guerra.
Ma fra 13 mesi si vota. Trump vorrà dimostrare che solo lui può difendere The Land of the free dai molti subdoli profittatori. Noi italiani siamo fra i primi, visto l’attivo commerciale di circa 25 miliardi di dollari, in costante aumento di circa il 10% l’anno dal 2010, secondo in Europa solo a quello tedesco, pari a circa 52 miliardi. Aspettiamoci il peggio.
Fonte: https://www.lettera43.it/dazi-trump-italia/
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