Dietro al violento scontro sul Mes c’è (anche) il timore delle banche di perdere potere verso la politica
di BUSINESS INSIDER (Mauro Bottarelli)
- Matteo Salvini a ‘Porta a porta’. Sullo sfondo il premier Giuseppe Conte. Imagoeconomica
“Moscovici dice che il Mes salverebbe le banche? Sì, quelle francesi e tedesche… Il Mes metterebbe infatti in crisi le nostre banche e farebbe pagare a noi la crisi delle banche tedesche e francesi“. E ancora, in un crescendo rossiniano: “Non vorrei che Conte avesse venduto la nostra sovranità per tenersi la poltrona. Se così fosse, sarebbe alto tradimento e, in pace o in guerra, è un reato punibile con la galera”. Parole e musica del senatore Matteo Salvini, deciso a utilizzare la questione del Fondo salva-Stati (Meccanismo europeo di Stabilità – Mes) come ariete per scardinare del tutto il governo giallo-rosso, stante anche l’incombenza dell’appuntamento elettorale in Emilia-Romagna, lo stato confusionale del Movimento 5 Stelle e la pavida posizione del Pd sulla vicenda europea.
Insomma, nel mirino c’è Giuseppe Conte. Quasi una vendetta personale in piena regola.
Ma al netto dei toni e delle argomentazioni sopra le righe del leader leghista, le parole che maggiormente hanno mostrato il grado di febbre che pervade il sistema Italia di fronte all’ipotesi di riforma del meccanismo europeo di salvataggio sono quelle pronunciate dal presidente dell’Abi, Antonio Patuelli:
“Noi siamo liberi di comprare quel che vogliamo. Le banche hanno 400 miliardi di debito pubblico italiano. Il mio problema è capire cosa fa la Repubblica italiana per tutelarlo, questo debito pubblico. Se davvero le condizioni relative al debito pubblico si alterano – o per maggiori assorbimenti o per elementi che favoriscano sinistri -, allora le banche italiane sottoscriveranno meno debito pubblico, non lo compreremo più“.
Al centro della questione, l’introduzione delle cosiddette “clausole di azione collettiva”, riguardo le quali Patuelli lamenta di “non saperne nulla… Non hanno fatto un tavolo con i loro stakeholder, con i soggetti interessati? Le conseguenze adesso se le gestiscano i politici, da soli”.
Nervosismo palpabile. E, ancora peggio, platealmente e volutamente ostentato in una sede non solo istituzionale ma anche internazionale e simbolica come Bruxelles. Insomma,un inedito asse Lega-banche contro Palazzo Chigi.Oltretutto, pare con la tacita benedizione di Bankitalia, il cui numero uno non ha lesinato critiche, quantomeno alla gestione poco lineare dell’intero iter in atto. Torna, quindi, la retorica delle banche tedesche e francesi come uniche beneficiarie delle politiche europee.
- Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, con
Antonio Patuelli, presidente Abi. Imagoeconomica
Ma, soprattutto, quella del concetto risk-free del debito pubblico, di fatto l’architrave dell’intemerata di Patuelli. Il quale, ovviamente, ha utilizzato concetti “alti” per sottolineare il vero timore. Cioé che in caso di ristrutturazione del debito italiano a seguito dell’esborso di un aiuto europeo, se mai ce ne fosse necessità, subentrino haircuts sui detentori privati come accaduto per la Grecia. Di fatto, una sforbiciata sul valore di iscrizione che andrebbe a colpire direttamente i bilanci della banche che detengono Btp in massa.
Lo stesso ex ministro delle Finanze, Giulio Tremonti, ha scomodato il precedente greco, lasciando intendere che la riforma del Mes sarebbe di fatto la conditio sine qua nonper salvare Deutsche Bank.
E, in effetti, il timing dell’intervista del ministro delle Finanze tedesco al Financial Times, riguardo la necessità di accelerare il processo di unione bancaria europea, qualche dubbio lo lascia sul terreno. Amplificato dalla voci che continuano a volere la stessa Fed, attraverso il suo diluvio di liquidità repo e term iniziato il 17 settembre scorso, impegnata nell’evitare un epilogo da Lehman Brothers a Deutsche Bank, troppo sistemica nel rischio di controparte su swaps e derivati per poter finire a zampe all’aria, come mostra il grafico.
- Financial Times
Insomma, too big to fail.
E il conto, a detta di molti esponenti politici e istituzionali italiani, lo si vorrebbe far pagare proprio al nostro Paese. Vero? Falso?
Questo grafico in parte conferma certi sospetti ma sposta, di fatto, l’epicentro dell’equilibrio precario del sistema bancario dell’eurozona verso un altro squilibrio.
- Bce/Jefferies
Lontano dai guai di Deutsche Bank e Commerzbank e dall’indipendenza delle Landesbank e Sparkasse tedesche dalla vigilanza di Bce ed Eba: è il sistema creditizio francese a essere sproporzionatamente esposto rispetto al Pil del Paese. E non da oggi.
La differenza, attualmente, sta però in un certo atteggiamento politico di Parigi, la quale – fiutata la debolezza da fine ciclo di Angela Merkel – sta tentando la scalata alla primazia europea, intenzione che in ambito finanziario si è sostanziata in luglio nell’acquisizione da parte di Bnp Paribas del desk derivati proprio di Deustche Bank, quello operativo negli Usa.
Insomma, paradossalmente sarebbe più la Francia ad aver tutto da guadagnare da un ombrello di tutela europeo a livello di fondo di garanzia bancario – non fosse altro per l’esposizione eccessiva alle cartolarizzazioni sui leveraged loans dei suoi istituti – rispetto alla Germania: la quale, giova ripeterlo, ha dalla sua una catena di controparte sul collaterale che non permette a nessuno di lasciare Deutsche Bank al proprio destino. Quantomeno, non prima di aver disinnescato la mina derivati, molto dipendente anche dal destino del Brexit, visto che la camera di compensazione della maggior parte di quei trading oggi ha ancora sede legale a Londra, intesa come territorio Ue.
C’è però dell’altro, un qualcosa che sia la politica che il mondo bancario italiano dovrebbero inserire nel novero delle proprie argomentazioni sulla questione Mes, se il dibattito fosse inteso come davvero serio e qualificante.
Lo mostrano questi due grafici, i quali mettono in prospettiva la situazione dal punto di vista del cosiddetto “fronte del Nord”, quello che premerebbe per una riforma del Mes vista come punitiva per l’Italia. Concentrandosi sopratutto su quello che nel campo finanziario viene definito doom loop italiano, ovvero il rapporto incestuoso e ormai istituzionalizzato fra banche e politica basato sul do ut des relativo proprio alle detenzioni di debito pubblico in mano al sistema creditizio.Di fatto, una garanzia implicita su cui i Palazzi del potere fanno conto da sempre, ovviamente ricordandosi di operare con un occhio di riguardo verso le banche in sede legislativa. Nessuno, in piena coscienza, può negarlo. Atti parlamentari alla mano. E qualsiasi sia il colore di chi governa. Perché quando si ha a che fare con uno stock di debito come quello del Belpaese e si pagano interessi annui di servizio come i nostri, avere qualcuno che detiene a bilancio 400 miliardi abbondanti di BTP in maniera aprioristica, quasi fideistica, rappresenta una bella àncora di salvezza. Non fosse altro, verso le agenzie di rating.
- Bce/Jefferies
I grafici parlano chiaro: non solo, come mostra quello sopra, l‘Italia insieme al Portogallo e alla Spagna è leader nel doom loop a livello europeo (mettendo poi in proporzione il nostro stock di debito con quelli lusitano e iberico) ma le banche, così come le assicurazioni e i fondi cui Patuelli faceva riferimento nella sua intemerata minacciosa, ora vedono un altro soggetto operare in maniera più che attiva sul fronte della ponderazione sistemica del rischio spread sul debito pubblico, come si vede qui sotto.
- Bce/Jefferies
Ovvero, Bankitalia nel suo nuovo ruolo di acquirente marginale pro quota su mandato BCE in seno ai vari programmi di stimolo o Qe.
I quali, la cronaca recente ce lo ha dimostrato, da entrambi i lati dell’Oceano, paiono destinati a restare attivi pressoché in maniera fissa e temporalmente dilatata: gli orizzonti di intervento sono sempre più lunghi e indeterminati, forse perché in cuor loro i banchieri centrali sanno che senza stimolo monetario, il sistema è destinato a collassare.
In un mondo simile occorre ancora strutturalmente l’operatività da “camera di compensazione” delle banche commerciali nazionali per mantenere sotto controllo i costi di servizio del debito, manipolandone di base i valori con detenzioni bancarie garantite e di massa? Oppure a molti istituti bancari fa comodo detenere debito pubblico, piuttosto che prestare denaro a famiglie e imprese, quella sì un’attività percepita come tutt’altro che risk-free?
Oltretutto, potendo contare sul “ritorno” a livello politico che il ruolo di acquirente marginale garantisce nei confronti del Tesoro, qualsiasi sia l’inquilino di via XX Settembre e al netto dei miliardi di liquidità a tassi ultra-agevolati ottenuti dal 2012 in poi dalla Bce attraverso i vari cicli di aste di rifinanziamento a lungo termine, Ltro e Tltro, come mostrano i prossimi grafici.
Il primo dei quali dimostra come furono proprio le banche italiane e spagnole a recitare la parte del leone nel primo atto del supporto Bce al sistema,
- Bce/Morgan Stanley
mentre il secondo dimostra come l’esorbitante comparto creditizio francese abbia però erogato prestiti in maniera superiore alla media europea verso il settore corporate, mentre il dato italiano parla di denaro a costo zero utilizzato in grandissima parte per ripianare i bilanci. E acquistare Btp.
- Bce/Wall Street Journal
Occorrerebbe, vista la serietà della questione, evitare quindi le rappresentazioni macchiettistiche. E anche, ad onor del vero, l’europeismo tout court, declinato acriticamente in arma balistica contro il pericolo elettorale del sovranismo.
Germania e Francia hanno colpe e vizi molto seri, quando si parla di sistema bancario. Ma – i casi Mps e banche venete sono ancora qui a testimoniarlo – anche il nostro sconta criticità enormi, figlie proprio dell’occhio parzialmente socchiuso da parte di regolatori che non possono permettersi di perdere un compratore di prima e ultima istanza del nostro debito monstre.
Serve quindi una riforma del Mes? Servirebbe se accompagnata, al netto del ruolo sempre maggiore e pressoché vitale della Bce nell’operare sugli spread, anche da una del settore bancario che, ad esempio, mettesse in evidenza le anomalie rappresentate in questi ultimi due grafici. Il primo dei quali mostra come in America la diversificazione delle fonti di finanziamento corporate è tale da vedere la dipendenza dal sistema bancario da parte delle aziende al 19% del totale, mentre in Europa quella stessa voce rappresenta l’80%.
- Fmi/Deutsche Bank
In un contesto simile e con la Bce già operante sia sul settore del debito sovrano che su quello corporate (addirittura, nel caso Shell e Daimler, sul mercato primario), un sistema bancario sano offre liquidità all’economia reale o si concentra ancora massivamente, al netto di bilanci non certo sanissimi (basti vedere gli aumenti di capitale compiuti e i tagli occupazionali operati e annunciati dai principali players), nella detenzione sistemica di debito pubblico?
E ancora, l‘Europa può pensare di competere in maniera credibile quando le sue prime dieci banche per capitalizzazione non raggiungono congiuntamente il livello patrimoniale della sola JP Morgan, senza parlare del fatto che i primi quattro istituti di credito al mondo per assets siano oggi cinesi?
- Bloomberg/Die Welt
Sicuramente la vicenda del Mes vive di sfumature e anche le intemerate di Salvini e Patuelli portano con sé una parte di ragione, esposta in maniera più o meno accettabile nei toni.
Ma resta il fatto che nessuno, né a Bruxelles né a Berlino, ha obbligato le nostre banche a operare per anni come cassaforte del debito pubblico, invece di erogare credito e gestire risparmio, come statutariamente richiesto. Né, soprattutto, alcuna Spectre sovranazionale ha imposto prestiti “baciati”, obbligazioni subordinate e titoli azionari non negoziati con valori da schema Ponzi. O, peggio, logiche territoriali spesso legate alle Fondazioni, in base alle quali si dava impulso a veri e propri “distretti del credito” che operavano come rubinetti qualificanti e determinanti degli assetti del potere politico locale.
Dai quali anche la Lega, da Credieuronord in poi, non è stata certamente aliena.
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