Quando la rivoluzione viene dal sud America
di L’INDRO
È stato l’Ecuador il Paese a dare il là alle proteste che che da ormai più di due mesi stanno sconvolgendo il panorama geopolitico del continente. Il 3 ottobre, infatti, l’Ecuador, e soprattutto la sua capitale, Quito, sono stati messi a ferro e fuoco da parte di manifestanti e organizzazioni indigene che si sono ribellate, con veemenza, alle politiche del Governo.
Al centro delle contestazioni, un decreto economico che di fatto eliminava i sussidi statali ai prezzi della benzina e del diesel. Il Paese e la democrazia sono stati messi a dura prova dalle manifestazioni e dai cortei organizzati da indigeni e cittadini comuni che hanno minacciato la permanenza al potere del Presidente della Repubblica Lenin Moreno, che è tutt’oggi convinto di essere stato vittima di un tentato golpe.
Nel giro di pochi giorni l’Ecuador era precipitato in una spirale di violenza e caos che nemmeno l’Esercito era riuscito a tenere sotto controllo, costringendo il Governo a cedere alle richieste dei movimenti sociali e ritirando il decreto della discordia.
Ma ormai gli osservatori più attenti avevano capito che nel continente sudamericano si era innescato un ‘movimento rivoluzionario’ che non avrebbe risparmiato nessun Paese e mentre in Argentina la sinistra riusciva ad imporsi alle elezioni presidenziali, con la vittoria di Alberto Fernández e Cristina Fernández de Kirchner, altri Paesi si apprestavano a seguire l’esempio ecuadoriano, portando in piazza il malcontento popolare, che affonda le sue radici nelle ingiustizie sociali e nella povertà che colpisce, atavicamente e sistematicamente, la popolazione latinomaericana.
Il primo Paese ad essere contagiato dallo spirito ‘sovversivo’ ecuadoriano è stato il Cile, dove è bastato l’aumento di pochi centesimi del costo del biglietto della metropolitana per far scatenare l’ira di studenti prima, e cittadini in generale poi, contro il Governo di Sebastian Piñeira.
In Cile le differenze e le disuguaglianze sociali sono riemerse con tutta la loro forza, riportando a galla persino fantasmi del passato che si credevano ormai lontani e dimenticati. Una situazione gravissima, e forse ingestibile, in un Paese ora stremato e costretto contare centinaia di feriti e 22 morti, secondo dati che non possiamo ritenere consolidati e riferiti da alcune organizzazioni umanitarie, oltre a saccheggi, incendi, violenza, e tanto caos e incertezza.
Il volto del Cile oggi è quello di un Paese martoriato con tante, troppe cicatrici da risanare e tante troppe ingiustizie ancora da colmare. Claudio Curelli, Presidente del COM.IT.ES in Cile, e membro molto rispettato della comunità italiana in quel Paese, è convinto che queste proteste, violentissime , siano la conseguenza di tanti anni di politiche sbagliate, attribuibili tanto a Piñeira quanto alla sinistra, che in Cile ha governato per almeno 20 anni. “Credo che questa rivolta oggi non appartenga più agli studenti, bensì a gruppi violenti che stanno mettendo in serie difficoltà persino i nostri carabineros, che devono far fronte a una situazione che rischia di sopraffarli. La rivolta è dovuta sicuramente alle disuguaglianze sociali. Il Cile vanta un’ economia solida ed anche una crescita economica invidiabile, tuttavia la distribuzione della ricchezza non è adeguata, e queste sono le conseguenze”, ci dice Curelli. Non bastasse, prosegue il Presidente COM.IT.ES, “il Governo non ha saputo far fronte alla situazione, ed è per questo che Piñeira si trova in una situazione veramente difficile, e la caduta del Governo solo aggraverebbe ancor di più il già difficile panorama”.
Curelli ci dice che dopo 6 settimane di proteste, ormai le cose dovrebbero migliorare dovrebbe diminuire l’intensita delle proteste. Tuttavia si dice sicuro che il Cile difficilmente tornerà ad essere il Paese che era prima che iniziasse la crisi. “La grande sfida adesso è quella di riportare al più presto la calma e valutare la possibilità di convocare una costituente”.
Sempre secondo il Presidente Curelli sebbene sia azzardato dire che dietro le manifestazioni ci sia il Presidente venezuelano Nicolàs Maduro, spesso attaccato pubblicamente dal Presidente Piñeira, non si può neanche scartare totalmente l’ ipotesi di una sua intromissione nelle vicende cilene.
L’esplosione del malcontento popolare non ha risparmiato la Colombia. Le proteste popolari stanno mettendo, da qualche settimana, a dura prova il regime del PresidenteIvan Duque. Abbiamo chiesto a Jean Paul Bardellini, giornalista e profondo conoscitore della vita politica e sociale della Colombia, cosa pensa di quanto sta accadendo nel Paese. Bardellini ha lavorato per moltissimo tempo presso la ‘NTN 24’, prestigiosissimo e autorevolissimo media colombiano, è considerato uno degli analisti più attenti di quanto succede nella Nazione sudamericana.
“Fondamentalmente le cause delle proteste”, afferma Bardellini, sono “gli omicidi selettivi ai danni di leader indigeni e sociali; il processo di pace fra il governo e i gruppi irregolari che ha causato molto malcontento a causa delle contraddizioni e della poca trasparenza di tutto il processo, criticato sin dal suo inizio. Poi, certo, ci sono anche le cause economiche che riguardando ingenti tagli alle pensioni, all’educazione, e anche la volontà di voler favorire le imprese del Paese, che con le nuove norme economiche che si pretende adottare permetterebbero alle aziende di assumere nuovi dipendenti pagandoli fino al 75% in meno rispetto ai vecchi stipendi”.
La protesta in Colombia appartiene alla sinistra (o almeno a una certa frangia di sinistra) e a questi attori provenienti dalle zone rurali del Paese. Tutti sono capeggiati da Gustavo Petro, uomo forte del progressismo colombiano. Secondo alcuni osservatori, questa parte della sinistra attiva nelle proteste sta cercando di provocare il caos; sta cercando a tutti costi un confronto violento e capace di provocare morti per poter rafforzare sostenere e alimentare la narrativa del socialismo del 21° secolo. In Colombia la Polizia è molto preparata e sta evitando che la situazione precipiti.
La lezione che viene dalla Colombia, secondo alcuni osservatori, è che in tutto il continente si stanno affermando i populismi, in alcuni casi di sinistra, in altri di destra, estremismi che polarizzano in maniera pericolosa la politica.
A questa situazione si assomma il problema del narcotraffico locale “al quale si sono aggiunti i cartelli messicani che si sono insediati in vasti settori della Colombia, ma anche in altri Paesi, come l’Ecuador, il Perù e il Venezuela. Questi cartelli ormai operano in totale tranquillità”, afferma Bardellini per il quale i cartelli messicani siano molto più sanguinari delle alte organizzazioni criminali e siano capaci di contare su forti agganci politici in praticamente tutti i paesi sudamericani. Dal Centro America passando per il Venezuela, la Colombia, l’Ecuador e persino il Perù.
Riguardo la possibilità che anche dietro le proteste in Colombia ci sia lo zampino di Maduro, Bardellini è molto scettico e crede che Maduro ed anche altri leader della sinistra continentale stiano semplicemente approfittando della situazione per vedere che vantaggi trarne.
In Bolivia invece è il governo di Evo Morales, dopo 14 anni al potere, a pagare le conseguenze delle proteste popolari. Secondo Rony Colanzo, italiano residente in Bolivia, la caduta di Morales è l’inevitabile conseguenza dell’insostenibilità di un regime che voleva continuare a mantenersi al potere grazie ad una frode elettorale: “La protesta in Bolivia è stata quella dei giovani e delle città soprattutto della città di Santa Cruz dove è cominciata la ribellione”. Secondo Colanzo, Morales non può tornare in Bolivia e dovrà rispondere alla giustizia delle accuse che gli vengono mosse: “In Bolivia non c è stato un golpe ed è vigente un governo legittimo”. La polizia e l’esercito hanno semplicemente rispettato la volontà popolare e la costituzione e oggi la Bolivia, aggiunge Colanzo, ha molto da fare e prima di tutto sconfiggere la povertà e aprirsi al mondo. E poi anche qui si segnala che il paese debba liberarsi dal narcotraffico.
Altro Paese da tenere d’occhio è il Brasile, che, secondo quanto ci racconta l’avvocato Luis Molossi, primo non eletto alla Camera dei deputati italiana sulla Circoscrizione Estero, starebbe già scaldando i motori per una probabile ondata di proteste. La popolazione quando si è accorta che Jair Bolsonaro non è in grado di fare fare miracoli, ha incominciato a perdere la pazienza “Sono convinto che a breve cominceranno anche qui proteste contro il Governo.
Il Paese, tra l’altro, sta anche soffrendo causa la svalutazione della moneta rispetto al dollaro, e questo causa malcontento”, afferma Molossi. Secondo il legale, anche se è la sinistra suona la carica contro il Governo, alla fine non sarà Inácio Lula da Silvail protagonista politico capace di riprendere le redini della situazione. “Il Paese ha bisogno di un governo di centro, più equilibrato e ortodosso, dato che nè la sinistra nè la destra sono riuscite a risolvere i gravi problemi sociali ed economici che attanagliano il Brasile”.
Ritorniamo da dove siamo partiti: in Ecuador.
L’Ecuador, dopo la fine delle proteste, si ritrova profondamente diviso e sono riapparsi i sintomi di razzismo, intolleranza, violenza e lotta sociale contrapposta ai poteri forti quali quelli bancari e imprenditoriali del Paese, tornati a gestire il ‘potere’ grazie all’accordo con il Presidente Lenin Moreno. Poteri che non sono riusciti a contenere, nè a nascondere, le proprie ambizioni, e stanno cercando di riappropriarsi del Paese a discapito dei settori più vulnerabili della popolazione, i quali “stanno a guardare come le banche si arricchiscano mentre loro hanno perso il lavoro e vivono una profonda crisi economica”, dice la gente.
In conclusione, il continente latinoamericano oggi è più che mai diviso e violento. Sono molto grossi gli interessi sociali, economici e politici in gioco, e in mezzo a tanto caos sembra che il narcotraffico e i populisti possano e vogliano farla da padroni.
Poi, però, ci sono anche i protagonisti che non si vedono, ma che in realtà reggono le sorti di tutto il continente: i grandi burattinai americani,russi e da qualche tempi anche cinesi.
Una trama complicata quella sudamericana, dove il tempo a volte non sembra essere passato, e dove le ideologie sembrano immutabili, radicali.
In Sudamerica l‘unica cosa che continua spirare è il vento della rivoluzione.
Fonte: https://www.lindro.it/quando-la-rivoluzione-viene-dal-sud-america/
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