Sulla Via della seta “l’Italia è arrivata prima”, diceva a marzo di un anno fa l’allora ministro allo Sviluppo economico Luigi Di Maio. Otto mesi più tardi, durante una visita a Shangai in qualità di ministro degli Esteri, prometteva che il 2020 sarebbe stato “l’anno in cui raccoglieremo i frutti”. Di “intesa limpida”, “benefici”, “collaborazione equilibrata” e “preziose opportunità per le nostre imprese” parlava invece il premier Giuseppe Conte. Sulla stessa lunghezza d’onda il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano che soltanto a dicembre promuoveva, intervistato dall’Agenzia Nova, l’infrastruttura cinese.
È filato tutto liscio? Non proprio. E non soltanto perché i dati Istat raccontano di una diminuzione dell’export italiano verso la Cina del 15,4% a novembre su base annua. Ma anche perché la Via della seta pare non essere l’eldorado. È quanto emerge da un report pubblicato oggi dalla Camera di Commercio dell’Unione europea in Cina intitolato The Road Less Travelled, che potremmo tradurre come “La strada meno battuta”. Sono due i risultati fondamentali di questa indagine condotta su 132 imprese. Primo: le aziende europee hanno un ruolo marginale nella Via della seta. Secondo: la concorrenza europea è schiacciata dalle imprese cinesi di proprietà statale.
Raccontando il rapporto, il South China Morning Post, scrive: “Le aziende europee fanno fatica a superare le barriere di ingresso all’infrastruttura globale cinese nonostante le promesse di inclusione di Pechino”. L’approccio è stato “profondamente sconcertante” per le imprese europee perché ha impedito una concorrenza significativa e ha sollevato dubbi su trasparenza, qualità e costi. Tra le difficoltà evidenziate dal rapporto, perfino “l’impossibilità di accedere alle informazioni sulle gare di appalto”.
Le società europee hanno preso soltanto le “briciole dal tavolo, anche se piuttosto grandi”, ha dichiarato un dirigente di una delle aziende intervistate. Si parla di aziende di servizi di sicurezza, ispezione e certificazione, ma anche spedizione e logistica.
Tuttavia, chi è riuscito a entrare nei progetti lo ha fatto come subappaltatore o interpretando “ruoli di nicchia” con tecnologie specifiche o know-how che non potevano essere soddisfatti dalle società cinesi. A tal proposito la nota stampa della Camera di commercio è molto diretta: “Questo riflette la realtà che la Via della seta è in gran parte business as usual per le aziende europee che operano in Cina, ormai abituate a perseguire opportunità che sono limitate e selettive”.
“I colossi nazionali cinesi – forti di aiuti di Stato e del denaro a basso costo – si stanno assicurando una fetta sproporzionata di contratti rispetto ai piani di sviluppo multilaterale”, ha commentato Joerg Wuttke, presidente della Camera di commercio dell’Unione europea in Cina. Per questo, “l’Europa deve decidere come rispondere a questa esportazione del modello cinese per proteggersi dalle distorsioni del mercato e rimanere competitiva nei mercati dei Paesi terzi”.
Unione europea e Cina, si legge nella nota, dovrebbero trovare modi per riformare la Via della seta in senso multilaterale, aperto e trasparente in quanto essa “promette sviluppo globale, maggiore connettività e buoni affari”. Il report sembra avere un destinatario specifico, la nuova Commissione europea guidata dalla tedesca Ursula von der Leyen. Infatti si legge: “Tuttavia, l’Ue non può permettersi di continuare ad aspettare che la Cina migliori unilateralmente la Via della seta e dovrebbe esaminare attentamente la creazione di meccanismi in grado di controllare le distorsioni che provengono dall’iniziativa proteggendo le normali attività commerciali”.
Il report racconta la frustrazione delle imprese europee davanti a una Cina restia ad aprirsi, “forse a causa delle crescenti richieste di trasparenza delle gare d’appalto” ma sottolinea anche come Pechino si muova a suon di accordi bilaterali con i 17 Paesi europei del formato 17+1. Come risolvere questo problema? “Dato che ciò rispetta la politica One-China, nei numerosi settori in cui l’Unione europea ha competenza sugli Stati membri, la Cina dovrebbe ricambiare e adottare una politica One-Eu, piuttosto che cercare di dividere l’Ue attraverso accordi bilaterali”.
Su questa frase conclusiva del report, però, vanno fatte due osservazioni. La prima: la Cina non può adottare una politica One-Eu, visto che manca all’Unione europea. La seconda: essendo il rapporto molto economico ma anche piuttosto politico, il riferimento a One-China sembra invitare la nuova Commissione a seguire le scelte dei predecessori riconoscendo questa politica (non avendo quindi, per esempio, rapporti diplomatici e politici con Taiwan), a differenza di quanto fatto dagli Stati Uniti di Donald Trump.
Fonte :https://formiche.net/2020/01/imprese-europee-cina-report/
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