Passare tra Scilla e Cariddi, il nostro compito.
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
“Navigavamo gemendo attraverso lo stretto: da una parte era Scilla, dall’altra la chiara Cariddi cominciò orridamente a succhiare l’acqua salsa del mare. Quando la vomitava, gorgogliava tutta fremente, come su un gran fuoco un lebete: dall’alto la schiuma cadeva sulla cima di entrambi gli scogli. Ma quando succhiava l’acqua salsa del mare, tutta fremente appariva sul fondo, la roccia intorno mugghiava orridamente, di sotto appariva la terra nera di sabbia. Li prese una pallida angoscia. Noi volgemmo ad essa lo sguardo, temendo la fine, ed ecco Scilla mi prese dalla nave ben cava i sei compagni migliori per le braccia e la forza”.
Odissea, canto XII
Per passare indenni tra Scilla e Cariddi servono alcune cose: una nave, quindi un collettivo che abbia in sé il senso del viaggio, e una rotta. Ma bisogna anche capire bene cosa sia Scilla, il mostro con dodici zampe e sei teste che ci può prendere uno per uno, e nello stesso modo cosa sia Cariddi, il gorgo nel quale possiamo esser inghiottiti tutti. Dobbiamo sapere da dove veniamo, come siamo giunti qui, cosa abbiamo perso e cosa guadagnato.
La crisi
Tutto è partito con la crisi del modello fordista e, in modo indissolubile, della prima fase del dominio geopolitico statunitense. Una fase che si chiude con la sconfitta in Vietnam e con la crisi del dollaro-oro[1]. È in queste circostanze che tramonta il keynesismo, per quanto ‘bastardo’, e sorge l’egemonia neoliberale. Si tratta di processi lunghi e largamente interconnessi, e che si sviluppano sul piano geopolitico, economico e socio-culturale con sovrapposizioni e slittamenti[2]. La crisi egemonica si compie come intreccio di più ragioni:
– il capitalismo passa alla fase finanziaria per proteggersi dalle difficoltà crescenti di realizzazione del plusvalore[3];
– viene domesticata la lotta di classe come effetto di più meccanismi convergenti, l’espansione del benessere indebolisce già nella fase finale del trentennio e poi crescentemente nei due decenni successivi la combattività dei lavoratori[4] progressivamente si ha una riduzione degli investimenti dal lato privato e poi, durante gli anni dell’austerità anche da quello pubblico[5];
– cambia la piattaforma tecnologica.[6]
La trasformazione, i cui prodromi sono visibili già con Kennedy e Johnson, si avvia con Carter e si conclude con Clinton; in Inghilterra con Callaghan e si completa con Blair, o in Francia con Mitterrand e Delors, in Germania con Schmidt e Schroder, in Italia con Berlinguer e Craxi e poi si attua compiutamente nella “seconda Repubblica”.
Sinistre e destre si sono passate il testimone.
Ma non è solo questione delle sinistre istituzionali. A questa transizione anche la “nuova sinistra” dei movimenti ha portato un contributo decisivo. Ha proposto infatti una politica di riconoscimento progressista apparentemente egualitaria ed emancipativa che però, nello spirito del tempo, è passata come esaltazione dell’individuo meritevole, antiautoritario, lungimirante, liberatorio, cosmopolita e moralmente avanzato[7]. Ha contribuito quindi a fare sembrare bello, progressivo, liberante l’abbandono dell’individuo alle forze del mercato capitalista. Usi è trattato di un ideale per pochi spacciato come soluzione per tutti.
Diverse idee si sono affermate in questa lunga stagione; tra queste l’idea che la cetomedizzazione, proprio mentre si stavano ponendo le condizioni economiche della sua revoca, imponesse la competizione politica “al centro”, e la secolarizzazione dei partiti, tutti ormai interclassisti. Quindi che il destino fosse la centralità dell’individualismo ‘postmaterialista’ e di un modello organizzativo coerente con esso: un modello centrato sulla comunicazione di massa, disintermediato e snello, sganciato da una vera ‘base di massa’ e con una ‘base sociale’ progressivamente sempre più esile.
Durante gli anni ottanta e novanta, che sono la matrice del presente, la flessibilizzazione e l’organizzazione a rete delle aziende (con unità produttive sempre più piccole, interconnesse, dipendenti dal network), determinò una profonda modifica nell’intellegibilità del posto di ciascuno nel modo di produzione complessivo e quindi creò le condizioni per un decisivo spostamento dalla produzione al consumo del senso di sé. Da allora la figura sociale centrale non è stata più il “produttore”, ma è diventata il “consumatore”. Questa trasformazione ha condotta all’affermazione dell’individualismo ed al tramonto di tutti quei corpi intermedi che riempivano di senso la vita, senza costringere ciascuno a surrogarne il senso con i consumi, sempre più compulsivi.
Questi stessi anni hanno visto il lento tramonto dell’azione collettiva (sindacale, politica, associativa) e l’emergere quasi improvviso, ed in via sostitutiva a partire dagli anni ottanta e novanta, di movimenti ‘singola scelta’, reattivi e privi di visione di insieme che non si sono più fatti carico del collettivo (si tratta dei ‘movimenti’ nei quali la sinistra si è per lo più rifugiata, in particolare quella radicale: il femminismo, l’ambientalismo, le lotte antidiscriminazione, la stagione dei “diritti”). Sotto molti profili si è trattato di una reazione edonista ed individualista o micro-comunitaria alla sfida della flessibilizzazione ed alla ritirata dello Stato del Benessere.
Infine, questi anni, che sono anche quelli del crollo sovietico e della nascita dell’Unione Europea, sono stati caratterizzati dal depotenziamento della democrazia attraverso un modello di governance multilivello e il cosiddetto “stato regolatore”[8] (anziché erogatore), rigorosamente inattingibile come arena delle rivendicazioni distributive.
Si è trattato di un assetto giunto a compimento negli anni duemila che ha attraversato un ‘decennio corto’ di espansione entusiasta della globalizzazione (come il decennio corto degli anni venti del secolo scorso). Dopo l’ammissione, voluta da Clinton, della Cina nel WTO e l’abbattimento delle barriere tariffarie e regolatorie si è prodotta una netta estensione dei processi di densificazione e diradamento (ovvero polarizzazione) propri del capitalismo monopolista e internazionalizzato nella fase finanziaria[9]. Una riarticolazione territoriale ha visto aree dinamiche e dominanti contrapporsi ad aree svuotate e depresse, spesso le une vicino alle altre. In questo periodo ha raggiunto il suo limite ‘l’acquisto di tempo’[10] avviato sul finire degli anni settanta con sempre nuove espansioni finanziarie e bolle sempre più pericolose. Ma ha raggiunto la maturità anche l’interconnessione acefala ed incontrollabile delle informazioni, che di fatto ha svuotato di autorevolezza e credibilità i ceti tecnici ed intellettuali, oltre i media generalisti. Quindi l’accelerazione brutale dei processi di flessibilizzazione del lavoro e di degrado crescente delle protezioni novecentesche ha prodotto una perversa meccanica che ha visto la perdita dei ‘buoni lavori’, la precarizzazione difensiva già avviata negli anni novanta, la deflazione importata e la crisi degli investimenti produttivi in occidente, la carenza di domanda aggregata. In conseguenza abbiamo visto l’inasprimento ulteriore del clima antipolitico e la crescita simmetrica della domanda di protezione ancora poco consapevole di sé e dominata dal risentimento.
Ne conseguirono due fenomeni gemelli ed intrecciati, spaziali e funzionali:
– Anche se non è stato subito avvertito pienamente, la gerarchia sociale si è riorganizzata sul duplice asse tra le aree “centrali”, in cui si sono addensate, rafforzando e valorizzando reciprocamente le risorse, e le aree “periferiche” nelle quali, di converso, i fattori si sono diradati e indeboliti reciprocamente, precipitando in forme distruttive di concorrenza a gioco a somma zero, quando non negativa[11];
– Si è aperta una frattura tra chi è in grado, disponendo delle necessarie fonti di potere e capitale, di determinare il proprio valore e chi è costretto a subirne l’attribuzione altrui; tra chi “fa” e “subisce” il prezzo.
La rivolta populista
La ristrutturazione avviata nel 2007-8 e proseguita per gli ultimi dodici anni è stata quindi solo il naturale esito, per estenuazione, di queste dinamiche. Da allora sono giunte a maturazione quelle particolari forme di rivolte popolari, strettamente connesse con lo spirito del tempo, che abbiamo chiamato a suo tempo “momento populista”. Si è trattato di movimenti essenzialmente egemonizzati dai “lavoratori della conoscenza” che si sentono al contempo sovraistruiti e sottoutilizzati e che esprimono, nel vuoto dei quadri di senso novecenteschi (persi da tempo, insieme ai corpi intermedi) una particolare miscela di individualismo edonista frustrato, rancore cieco, e spinta alla socializzazione destrutturata.
Chiamerò questa fase di formazione “neopopulismo”.
Hanno fatto seguito movimenti effimeri di protesta (“Occupy Wall Street”, “Indignados”) che hanno generato una forma politica capace di innestarsi direttamente sulle esperienze del “primo populismo” anni novanta, una forma politica resa necessaria dalla fine dei grandi schemi di massa novecenteschi, generandone una nuova versione direttamente mutuata dai modelli del “partito della sorveglianza”[12], del partito “agile”, “leaderistico”, aggregativo di istanze eterogenee. È stato il momento di successo di “non partiti” (M5S, Podemos, Insoumise) progettati per raccogliere un consenso elettorale senza porsi veramente il problema di tradurlo in scelte operative concrete. Una contraddizione direttamente inscritta nel modo in cui sono stati costruiti e nelle forze che hanno aggregato, che ha provocato nel breve arco di due o tre anni la ritirata dentro la solita politica della sinistra e la perdita della spinta propulsiva per Podemos, per Insoumise e, alla duplice prova del governo, anche per il M5S.
La traduzione politica di questa formula di successo è arrivata nel 2016. In rapidissima successione abbiamo avuto la ‘rivolta degli elettori’[13], il discredito e la rabbia trasformarsi in una nuova ‘base di massa’ per chiunque avesse la credibilità di interpretare un moto dal basso contro l’alto. La linea vincente non è stata più al centro, ma dalle periferie e dal basso contro il centro e l’alto. La polarizzazione si è manifestata chiaramente nella rivolta della Brexit, nella vittoria di Trump (ma anche di Sanders), nella fragorosa sconfitta di Renzi e del suo modello “primopopulista”, nell’erosione della Grosse Koalition e nel terremoto francese (con la scomparsa subitanea dei partiti storici).
In Italia il ciclo si è chiuso con la vittoria bi-populista del 2018. Un voto radicalmente anti-establishment che ha manifestato per la prima volta nel paese una diversa maggioranza, orientata emotivamente dal basso e contro, che rendeva possibile un compromesso politico e territoriale tra i ceti produttivi intermedi, semi-periferici, che soffrivano al nord ed al centro in particolar modo la proiezione del paese alle esportazioni nel quadro europeo (e la necessariamente conseguente contrazione della domanda interna, via austerità), e i ceti marginali e periferici, spesso prodotti proprio dalla ‘modernizzazione’ produttiva del settore dei servizi (flessibilizzazione e precarizzazione estrema), o dai lavoratori che assistevano al degrado del tessuto sociale e produttivo, al centro e sud.
Vinsero due offerte politiche molto diverse, ma con elementi in comune e adeguate ai tempi:
1- Il Movimento Cinque Stelle, che unisce l’eredità della grande crescita, in tutti gli anni novanta, dei movimenti “singola scelta”, portandone l’energia ed i difetti (reattività, mancanza di visione di insieme sociale, rifiuto del collettivo politico), con un’innovativa piattaforma politica che estremizza la disintermediazione e il “direttismo”. Un paradossale movimento politico puramente anti-politico. E per questo una straordinaria “spugna”, capace di una forma di populismo potentissima e che chiamerei “mimetica”.
2- La Lega di Salvini, non più “Nord”, che ricerca una via di uscita dal dilemma strategico che aveva bloccato permanentemente il più antico Partito Politico italiano: l’essere solo espressione dell’egoismo del Nord, e quindi rivolto contro il resto del paese. Per mera questione di numeri condannato da questa condizione ad essere lo junior partner del Centro Destra. L’idea semplice era di accentuare gli elementi populisti, incorporati nel dna del movimento (anche se è probabilmente il più “pesante” partito italiano), designando un altro “nemico” che consentisse di fare un discorso “nazionale”. Il più plausibile, dato il contesto di crisi, era l’Unione Europea, che consentiva una traslitterazione quasi puntuale della retorica secessionista tradizionale, e quindi identitaria, su un diverso oggetto. Tuttavia ciò, ad un maggiore livello di profondità, apriva ed apre una contraddizione con il radicamento sociale del partito in ceti ed attori profondamente interconnessi con il “centro” europeo. Questa contraddizione esploderà a suo tempo.
Per una brevissima fase, alla fine durata forse un mese, è sembrato che l’alleanza tra questi due “populismi”, potesse finalmente far finire il dominio del ‘partito dell’estero’ in Italia, ricentrando la politica sugli interessi nazionali e popolari. È stato un tentativo che è fallito molto prima del “Papete”, anche prima della finanziaria. Questo fallimento deriva da una doppia attrazione esercitata dalle vecchie élite: i poteri industriali del Nord Italia nei confronti della Lega, richiamata ad una funzione di cane da guardia delle esigenze del capitale; la compatibilità di sistema, in particolare europea, che ha determinato la svolta neo-centrista per il M5S a guida Di Maio/Conte.
La fine del governo Conte I, ha prodotto, però, un’agenda rovesciata. Ritornava al centro della scena il Partito garante, più di tutti, della fedeltà e compatibilità con il quadro europeo e quindi della desovranizzazione italiana, il Pd. Garante di quegli equilibri di sistema che hanno spinto in questi anni milioni di persone vicino alla soglia di povertà (25% in povertà assoluta e relativa, 35% al mezzogiorno) e prodotto la crisi senza uscita nella quale siamo. Il guardiano di ogni riduzione dell’offerta ospedaliera, di ogni taglio alla scuola, di ogni flessibilità del lavoro, di ogni smottamento dell’offerta di servizi, di treni, di case, di spazi pubblici che abbiamo subito in questi anni interminabili. Che parla sempre, è vero, di diritti, di crescita, di sostenibilità, di libertà, … Ma non ha nulla da dire di effettivo sul progressivo indebolimento del tessuto produttivo nazionale, in particolare nelle aree meno connesse ai distretti ed alle catene logistiche e produttive orientate all’esportazione. Non ha nulla di vero da obiettare al declassamento del paese a semi-periferia nell’ambito di una nuova divisione internazionale del lavoro nella quale ritorna il sogno dell’Impero Carolingio di cui non possiamo che essere “marche” di confine. Non ha da dire all’arruolamento del nostro paese nella nuova terza guerra mondiale che si sta da tempo combattendo.
Una posizione nella quale contemporaneamente perdiamo come classe lavoratrice e come paese, e nel quale, in altre parole, una sorta di lotta anticoloniale[14] va ad unire la questione di classe e la questione dell’autodeterminazione nazionale[15]. Si tratta di riconquistare quella capacità che i paesi a dominazione imperiale (o i centri dell’impero) negano accuratamente a tutti gli altri, per disporne in esclusiva[16]. Nel nuovo “impero” europeo, di cui il centrosinistra è primo guardiano, vince chi ha aziende fortemente capitalizzate, uno stato forte che le protegge, e mercati aperti in cui possono dominare. Perde chi non è in grado di sostenere le proprie aziende, proteggere i propri cittadini, e garantire la tenuta del proprio mercato interno, ovvero redditi e consumi. Vince chi è in grado di inibire i meccanismi difensivi altrui, imponendo forme organizzative e apertura dei mercati conformi alle proprie esigenze. Perde chi crede nella retorica del più forte, introietta le critiche altrui in forma di autorazzismo, e si convince anche di meritare la propria debolezza, vista come tara morale, dissimulando con ciò il dominio delle catene del valore.
Siamo dunque qui.
Podemos è tornato al governo in Spagna, ma avendo perso per strada buona parte della spinta valoriale ed elettorale antagonista, ormai prigioniero e subalterno al partito dell’establishment e dell’europeismo. Ancora peggio, Insoumise, che ha scelto la “linea Autain”[17] rifugiandosi nell’Ile-de-France nell’insediamento storico della sinistra, è tornato a livelli elettorali da sinistra radicale. Corbyn ha perso in Gran Bretagna per non aver avuto la forza di scegliere tra Scilla e Cariddi, restando con l’impressione di irresolutezza e confusione, unendo un programma economico fortissimo ma nessun mezzo per attuarlo. Il M5S, la forma ‘neopopulista’ più pura, naviga alla metà dei consensi raggiunti nel 2018 ed è stato stritolato dalla doppia esperienza del governo “gialloverde” e “biancogiallo”.
Sembra quindi che dopo la tempesta 2016-18 sia in corso un ritorno alla politica ordinaria in Spagna, con il nuovo governo Sanchez, in Italia, con il Pd nuovamente in sella, in Francia, con un Macron sfidato dalle piazze ma saldo al potere, in Germania, dove ancora regge l’arco dei partiti sistemici, con il soccorso dei Grunen.
Quella che siamo abituati a chiamare “bipolarismo”.
Nella quale, precisamente, si sfidano due versioni diverse del neoliberismo:
– da una parte il “neoliberismo progressista”, che unisce politiche economiche austeriane e regressive a politiche identitarie volte a valorizzare mobilità, modernizzazione, multiculturalismo e merito individuale;
– dall’altra un “neoliberismo difensivo e nazionalista” di nuovo conio, che unisce le identiche politiche, spostando in parte i beneficiari, a politiche identitarie che vivono di identificazione dell’altro come nemico, deviazione della rabbia, drastica semplificazione dei meccanismi.
C’è bisogno di altro.
Bisogna rompere la gabbia del bipolarismo e tornare a chiedere un autentico cambiamento. E’ necessario aggregare un “terzo polo”, che sia alternativo a quel che si formerà tra Pd e frazioni del M5S, e quel che si è formato come nuovo centrodestra tra Lega, FI e FdI. Bisogna lavorare all’unificazione di un blocco sociale capace di reale cambiamento nel paese. Un blocco che sia fondato sull’autentica maggioranza del paese, che sia capace di aggregare una larga coalizione sociale da Nord a Sud, rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche. Capace di parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di “uberizzazione”, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del proletariato e sottoproletariato urbano. Al contempo capace di attrarre a sé i segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle esportazioni. Solo se riusciremo a determinare questa larga alleanza avremo la forza per modificare la traiettoria che sta portando il paese e l’intero mondo occidentale verso l’esaurimento del suo modello di produzione e sviluppo. Una traiettoria che ci designa come vittime e nuova periferia interna, al fine di consentire al centro metropolitano ulteriore crescita e stabilizzazione. Ci designa come classe e come paese.
Il ‘soggetto’ di questa trasformazione non può più essere unilateralmente una frazione qualificata della società. Non può esserlo la vecchia classe operaia ormai frammentata e dispersa; né possono esserlo le “classi riflessive” della nuova economia della conoscenza, spesso in prima fila per la conservazione dei loro declinanti, piccoli, privilegi; né non meglio precisate “moltitudini”, con il loro rifiuto di porre la questione del potere; né le “donne”, quasi fossero una classe a sé stante.
Il blocco sociale capace di riaprire il futuro può solo essere una rete contingente di soggetti sociali, sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri. Quest’aggregazione contingente deve prendere le mosse dai danni creati dallo sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica, dai luoghi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di posizioni privilegiate. È qui che nasce la resistenza da cui partire.
Il punto diventa quindi costruire linee oppositive al capitalismo che passino innanzitutto per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. È la divaricazione tra i ‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e si muovono nei centri geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il prezzo lo subiscono e stazionano in area periferica – a definire il campo della lotta di classe per un socialismo del XXI secolo[18]. L’unica forza che può avviare una transizione.
Ma per riuscirvi abbiamo bisogno di un diverso pensiero.
L’idea che il discorso politico sia autosufficiente, e che si tratti di costruire su ‘faglie di antagonismo’ esistenti, aggregando le forze eterogenee tramite discorsi emozionali si è dimostrata potente ma ha i suoi limiti. Quella che si possano rendere equivalenti posizioni sociali e radicamenti differenti facendo di diverse soggettività un “popolo” politico costruito dal discorso è un’idea effimera che è stata vista fallire in questi ultimi anni. Chi cavalca la “tigre della sorveglianza” corre i suoi rischi perché procede velocemente, aggregando emozioni e manovrando tatticamente, ma non è capace di creare una linea politica coerente. Di resistere in essa alle inevitabili pressioni e defezioni.
In altre parole, creare strutture verticistiche senza strategia, tenute unite da obiettivi disparati e soggettività spesso narcisistiche è sempre a rischio di immediata revoca di fiducia per il sospetto di inautenticità. La strategia tutta “testa e comunicazione” va fatalmente in crisi nel momento in cui, crescendo, deve passare alla produzione di potere.
Dunque per superare la crisi bisogna capire una cosa essenziale: che si è chiamati a produrre potere per cambiare il modo di produzione capitalista che ci sta stritolando. Le tensioni politiche che si scaricano nelle forze ‘populiste’, siano esse orientate a destra o a sinistra, non sono effetto dell’abile scelta di alcuni “significanti”. Al contrario: la produzione delle idee, le rappresentazioni che riescono a dominare la scena pubblica, sono intrecciate con le attività materiali nelle quali i soggetti che si attivano politicamente sono impegnati, come scriveva Marx “l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita”.
La biforcazione.
Noi siamo quindi ad un punto di biforcazione. Dobbiamo scegliere tra:
1- l’aspirazione alla riconquista storico-politica dei ceti popolari e subalterni, contendendo l’egemonia alla destra sul campo largo.
2- La rassegnazione alla gestione della sconfitta e alla difesa delle residue aree di consenso marginali (delle zone ZTL) che possono essere mobilitate solo su temi morali.
Se scegliamo la prima abbiamo bisogno di due cose:
1- una lotta spietata al settarismo ed al narcisismo, ovvero alla tentazione di reagire ad una fase di dolorosa confusione con il rinserrarsi nelle vecchie identità sfidate;
2- la ferma decisione che la lunga ritirata, prodotta dalla crisi degli anni settanta e dall’insorgenza dell’uomo narcisista e post-materialista è finita.
Quando la lunga ritirata termina, perché ne terminano le ragioni, allora bisogna dismettere tutti gli strumenti che abbiamo tenuto in campo ed usato per gestirla.
In particola la prima cosa da abbandonare è l’idea che all’impolitico neoliberale non c’è alternativa, ma ci si può solo adattare, perché è la forma definitiva dell’umano.
Il “primopopulismo” è stato questo, un adattamento, e la fase “neopopulista” che ora è entrata in crisi non ha compreso che doveva essere radicalmente discontinua.
Ma l’umano non termina di modificarsi, come la storia, cambia sempre insieme alle condizioni materiali ed alle forme del sociale che vi sono relazionate. Dunque sta nuovamente per cambiare.
Cosa significa dunque passare tra Scilla e Cariddi?
Tre cose:
Oltrepassare l’impolitico neoliberale e recepire il nuovo bisogno di collettivo e di umanità, dandogli forma. Porre con coraggio e coerenza la questione della trasformazione dell’esistente e della creazione di un nuovo mondo. Andare al cuore dei problemi, dimenticare le tattiche ‘intersezionali’ volte a sommare narcisismi inconciliabili, andare oltre la vaghezza, il rifiuto della denominazione di un livello strutturale dello scontro. Accettare la polarizzazione e stare da una parte.
Dimenticare la strategia tutta “testa e comunicazione” del primopopulismo, in ogni sua versione. Creare le condizioni per forme nuovamente solide, imperniate su un nuovo attivismo che faccia leva sulle reti di comunicazione diffuse e sulla vicinanza dei corpi. Sulle mobilitazioni politiche di prossimità, su coesione “simpatia” e mutuo sostegno. Sulla creazione di una cultura comune e condivisa.
Rigettare l’odore di sconfitta della sinistra, radicale e non. Tutta la sinistra è attardata inconsapevolmente in pratiche adattive per una società che già non c’è più. Per paura resta abbarbicata ad una “base sociale” ristretta, che ripiega costantemente, ed ormai ha perso anche molta parte della sua “base di massa”. Ne è immagine la postura della radicalità come voce morale inflessibile che fustiga i potenti e si trincera entro gli indicatori di purezza e superiorità del discorso “politicamente corretto”. Tre bastioni individuano questa cittadella assediata: il cosmopolitismo, la retorica dei diritti e delle minoranze, ed il tono morale con il quale sistematicamente interviene.
Per far crescere questa possibilità bisogna ricominciare a fare Grande Politica, a creare quadri di senso e progetti di liberazione del paese che si confrontino con la dura realtà delle cose. Svolgere analisi concrete delle situazioni concrete e non rifugiarsi nelle “frasi rivoluzionarie”, o nelle tecniche ‘primopopuliste’ che presupponevano un mondo che sta venendo meno.
Quel che sta accadendo è che, revocato il ‘compromesso keynesiano’ ed esplose nuovamente le contraddizioni che teneva a freno, si torna alla durezza.
Bisogna combattere quindi in modo determinato la guerra egemonica, piazzaforte per piazzaforte, ma tornando a capire la politica come lotta tra posizioni strutturali di interessi, resi tali dal modo di produzione e dalla collocazione spaziale.
In questa guerra servono alleati di ogni genere, ma la questione dirimente è quale gruppo sociale esercita la direzione intellettuale e morale. La condizione necessaria per cambiare le cose e accedere alla forza per cambiarle è infatti di esercitare questa direzione; di creare con la necessaria pazienza e lena un blocco sociale del cambiamento che si incunei tra i due poli neoliberali.
Farlo con tutti coloro che vogliono davvero cambiare direzione, e non solo spalla al fucile.
Questo è il nostro compito.
[1] – Mi riferisco, ovviamente, allo sviluppo degli anni sessanta, dagli anni di Kennedy in avanti, quando la guerra nel sud-est asiatico viene combattuta, con crescente dispiego di forze e infine persa sia sul campo sia in patria. Il doppio deficit che determina la crisi al contempo finanziaria e di legittimazione dell’egemone statunitense è l’effetto di un eccesso di spesa compensativa (il cosiddetto “warfare”, ben prevalente sul contemporaneo “welfare”) e di una perdita di competitività relativa dell’industria statunitense, rispetto ai competitori del primo mondo (in primis i paesi sconfitti della seconda guerra, Germania e Giappone e in misura minore Italia e Francia) e di alcuni emergenti precoci (Corea del Sud, ad esempio). La crescita superiore al 5% del Pil all’anno che era stata registrata a metà degli anni sessanta si inceppa nel risiko della svalutazione delle monete (inizia la Sterlina) e nella difficoltà di continuare a crescere a base di stimoli in disavanzo. Le tensioni monetarie crescenti sfocia nel 1971 nella sospensione della convertibilità del dollaro in oro e quindi di fatto nella revoca dell’architrave degli Accordi di Bretton Woods.
[2] – In primo luogo, bisogna considerare che quando si parla di economie dominanti, a ispirazione ed assetto imperiale, come quella statunitense nel periodo in esame, le considerazioni e gli obiettivi di conservazione e rafforzamento del dominio geopolitico sono strettamente intrecciati, e prevalenti, su quelli meramente economici. Quando, ad esempio, risulta chiaro che gli schiaccianti rapporti di forza tra le economie industriali, sotto questo profilo, che si erano prodotti alla scadenza della guerra non sono più tali e la rinnovata competitività degli altri paesi industriali determina uno squilibrio commerciale crescente e quindi l’accumulo di riserve di dollari e auree a lungo andare insostenibili, e quindi a rischio di rovesciarsi in una crisi di fiducia, gli Usa comprendono che non è in gioco solo il valore della moneta, ma il dominio sul mondo. La svalutazione che potrebbe conseguirne, significherebbe rinunciare agli investimenti all’estero e per questa via ad un canale di controllo delle economie estere (così, ad esempio, lo vedono i francesi). Eliminare il deficit e “vivere dei propri mezzi” è quindi impossibile. In secondo luogo, le strutture economiche implicano conseguenze sociali e finanche culturali che spesso si manifestano in modo sfalsato, in ritardo.
[3] – Si veda su questa interpretazione, peraltro dominante, lo schema analitico di Giovanni Arrighi.
[4] – Anche perché a partire dall’espansione finanziaria, anni ottanta e novanta, il benessere, come una staffetta, viene garantito sempre più dai redditi da rendita che prendono il posto della centralità di quelli da lavoro.
[5] – Si hanno alcuni fenomeni che prendono avvio lentamente già negli anni finali del “ciclo” e poi accelerano su un percorso ventennale, l’espansione dei trasferimenti all’estero, lo spostamento della base industriale, come effetto l’espansione dell’esercito di riserva.
[6] – Informatizzazione, automazione, organizzazione a rete, interconnessione individuale.
[7] – Un’analisi esemplare di questa trasformazione si trova in Ronald Inglehart “La società postmoderna”, 1996.
[8] – Si può leggere il classico libro del 2000 di Antonio La Spina e Giandomenico Majone “Lo stato regolatore”, nel quale il modello è compiutamente descritto.
[9] – Questo tema è di rilevanza centrale e non può essere compiutamente sviluppato in queste poche note, rinvio all’analisi di David Harvey in “Geografia del dominio”.
[10] – Ovviamente con riferimento alla formula usata da Wolfgang Streeck in “Tempo guadagnato”.
[11] – Christophe Guilluy, “La società non esiste”,
[12] – Secondo la nota formula di Pierre Rosanvallon, “Controdemocrazia”, 2001
[13] – Formula che si deve a Andrew Spannaus, “La rivolta degli elettori”, 2016
[14] – Come correttamente vedeva lo stesso Lenin è possibile perfettamente che si dia dominio coloniale nei confronti di un paese semi-centrale ed industrializzato, che è, appunto, sospinto in basso nella catena del valore e in posizione gerarchicamente subordinata. In prima battuta perdono soprattutto i ceti meno mobili, che hanno minore dotazione di risorse mobili o spendibili su aree dominanti, ma in una fase più avanzata è l’intero ambiente sociale, in quanto i fatti sociali sono formati nello spazio e quindi sono determinati dalla contiguità, a degradare. Con esso degrada l’ambiente economico, i fattori mobili fuggono, il diradamento cresce, le strutture e gli investimenti in capitale fisso non sono più sostenibili e cessano di essere riprodotti, la meccanica del declino e della subalternità accelera.
[15] – Persino un autore, per molti versi legato ad un internazionalismo con tratti molto classici, come Domenico Losurdo, ne “Il marxismo occidentale”, il suo ultimo libro, quando si tratta di liberarsi di un gioco anticoloniale, anche sui generis o principalmente giuridico-economico, la rivoluzione finisce per essere contemporaneamente “anticoloniale e nazionale” (p.21).
[16] – Si veda Lenin “L’imperialismo”, 1916.
[17] – Mi riferisco allo scontro simbolico tra due importanti esponenti della France Insoumise, Djordje Kuzmanovic, poi uscito dal movimento, e Clémentine Autain. Si veda “Scontri in France Insoumise”.
[18] – Si veda anche “Partito e classe. Dopo la fine della sinistra”.
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2020/01/passare-tra-scilla-e-cariddi-il-nostro.html
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