La dittatura del capitale come “libertà del profitto”
Qualche tempo fa scrissi un altro post dove sottolineai che libertà e liberismo non sono sinonimi (qui). L’inganno sta nel fatto che i capitalisti, i rentiers e dunque gli accumulatori di capitale, hanno sfruttato il termine libertà per definire una vera e propria ideologia: quella capitalista. Sicché il liberismo viene automaticamente associato a libertà, anche sul presupposto che esso propugna la libera circolazione di merci, persone e capitali. Il cosiddetto free trade.
Ma chi conosce bene la teoria liberista, sa perfettamente che questa teoria, o meglio questa ideologia, considera intollerabili interventi esogeni nella dinamica dell’allocazione di beni e servizi. Pertanto ritiene abusivi gli interventi statali in economia (magari perché frutto di decisioni democratiche), soprattutto (anzi, a maggior ragione) se utili al perseguimento dell’equità e del benessere diffuso. E sappiamo bene che non può esistere libertà, se questa non è una “libertà dal bisogno”, che, senza particolari accorgimenti costituzionali, è naturalmente contrastante con “la libertà del profitto”.
La nostra carta ha recepito questa verità. L’art. 3 (ma si veda tutta la parte economica), al suo secondo comma, fissa come asse portante delle politiche nazionali la realizzazione dell’uguaglianza sostanziale, che può essere perseguita solo e se lo Stato si adopera attivamente per rimuovere le diseguaglianze economiche e sociali. Pertanto, essa rigetta qualsiasi forma di liberismo. E qui sta la ragione per la quale oggi l’ideologia capitalista tenta di smontare pezzo per pezzo la Costituzione del 1948, usando tutti i mezzi che ha a sua disposizione.
Tornando però al liberismo, pochi riescono davvero a comprendere la portata totalitaria del free trade. Proprio per questa ragione, democrazia e liberismo non possono stare nella stessa frase: uno Stato o è democratico o è liberista. Se è liberista non può accettare che gli interessi del profitto si pieghino ai responsi democratici. Non avrebbe senso, del resto: o segui la legge del mercato (e cioè del più forte) o segui la legge della democrazia (e cioè del più equo). Ecco perché il capitalismo tende a sterilizzare i responsi democratici, subordinandoli al vincolo esterno dei mercati; vincolo che – giocoforza – richiede un ambiente istituzionale particolarmente ricettivo e sensibile al potere del mercato. In altre parole, un ambiente istituzionale dove i processi democratici via via sono sempre meno cruciali nella formazione della volontà di Governo. Dunque la desovranizzazione monetaria, i vincoli di bilancio, lo spread, la banca centrale indipendente e in generale ogni manifestazione del vincolo esterno o di depotenziamento degli istituti democrazia interna, sono gli strumenti attraverso i quali l’ideologia capitalista opera il processo di sterilizzazione della democrazia e instaura il proprio dominio politico-ideologico, che non viene percepito come tale, perché viene dissimulato in concetti tanto fumosi quanto capaci di far presa sull’immaginario collettivo, quali “emancipazione”, “diritti ambientali”, “diritti civili”, “libertà di impresa”, “multiculturalismo”, “meritocrazia”, “pacifismo”, “il debito pubblico che pesa sulle nuove generazioni” ecc. ecc..
Per l’ideologia capitalista, l’unica libertà concepita è solo quella che la definisce: la libertà del profitto. La quale assume il ruolo di paradigma attraverso il quale viene costruita e consolidata una società dove l’unica capacità che conta è la capacità di accumulare capitale (e il conseguente potere). In questo senso i tre pilastri del liberismo sono funzionali all’affermazione di questa libertà. La libera circolazione delle persone, per esempio, risponde agli interessi del profitto, perché favorisce l’immigrazione di massa economica che a sua volta abbatte i salari, creando una feroce concorrenza al ribasso e una involuzione nell’affermazione dei diritti sociali e lavoristici. La libera circolazione dei capitali, invece, è uno strumento di coercizione particolarmente pregnante, perché costringe uno Stato (preferibilmente desovranizzato) a fare politiche in favore del grande capitale, onde trattenere risorse nel circuito economico nazionale (che però vengono redistribuite in modo diseguale: e cioè sempre in favore dei detentori di capitale). Infine, la libera circolazione delle merci, che favorisce quelle politiche mercantilistiche che prosciugano l’economia importatrice della propria domanda interna, creando deindustrializzazione, deflazione e disoccupazione diffusa. Le quali, a loro volta, favoriscono l’abbattimento del costo del lavoro e la concentrazione dei mezzi di produzione in favore del grande capitale transnazionale.
Per farla breve, il ruolo fondamentale in una dittatura capitalista lo gioca il bisogno in ragione dell’artificiale “limitazione delle risorse” che giustifica politiche di welfare assenti o minimali, perché erosive di quelle risorse che devono essere indirizzate all’unico scopo per cui esistono: il “diritto” di accumulazione di ricchezza da parte dei pochi a danno dei tanti. Pertanto, l’ideologia capitalista, per esercitare il proprio potere, cerca il controllo dei mezzi di informazione e richiede politiche di egemonizzazione culturale. L’obiettivo è instillare credenze, convinzioni e colpe per un presunto consumo eccessivo di risorse (“abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità…”), che a loro volta diventano la base culturale e politica per abituare i popoli alla durezza del vivere, che significa rinunziare alla casa di proprietà, rinunziare a risparmiare, rinunziare al diritto di non indebitarsi, di avere stabilità lavorativa, di avere la sanità gratuita, di tutelare la propria identità culturale e la propria indipendenza politica ed economica quali pilastri irrinunciabili della democrazia popolare.
La libertà del profitto non è libertà vera. Non è democrazia. Non è sviluppo e non è ricchezza diffusa. E’ semplicemente libertà di accumulare ricchezze, patrimoni, potere, per i pochi che già li hanno, e che richiede che la libertà altrui, quella dei popoli, e dunque dei più, venga calpestata se non soppressa. Perché ciò possa avverarsi è necessario reprimere le istanze democratiche, la sovranità nazionale come espressione della democrazia realmente partecipata. E’ necessario rimettere in gioco le regole dei diritti sociali e di quelli politici, barattandoli sovente con i cosiddetti “diritti civili”, notoriamente a costo zero ed estremamente utili alla causa capitalista. In altre parole, è necessario rimescolare le carte del mazzo preventivamente truccato, perché le migliori siano sempre appannaggio dei più forti e dei più ricchi.
Fonte: https://www.davidemura.com/la-dittatura-del-capitale-come-liberta-del-profitto-6545/
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