Un dialogo sull’imperialismo: David Harvey e Utsa e Prabhat Patnik.
Di TEMPO FERTILE (Alessandro Visalli)
Nel libro che Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, scrivono nel 2017 sull’imperialismo[1] c’è un’ultima parte nella quale è riportato un dialogo a distanza con David Harvey. Il notissimo geografo marxista americano svolge diverse critiche molto serrate ai due economisti indiani e questi replicano in modo altrettanto deciso. Si tratta di un confronto tra discipline e tra culture, ma anche tra posizioni interiorizzate. Sembra di leggere tra le righe il fantasma dell’oggetto stesso della contesa, la dualità centro-periferia e quella occidente-oriente e la memoria del colonialismo. L’uno scrive da britannico e da New York, gli altri da indiani e da Nuova Delhi. Ma soprattutto, pur essendo tutti critici del capitalismo e quasi coetanei, a separarli ci sono le tracce della storia. In fondo, e la lettura del libro lo mostra molto bene, i due marxisti indiani si sentono parte di una storia di oppressione e hanno qualcosa da chiedere come risarcimento.
È vero, l’India è una potenza regionale con grande proiezione di potenza economica, commerciale, tecnologica e persino militare, e Harvey di passaggio lo ricorderà. È un paese di oltre un miliardo e trecento milioni di persone e la dodicesima potenza economica mondiale. Ma è anche un paese nel quale permangono enormi differenze tra i diversi gruppi sociali, le regioni, le aree rurali ed urbane. Un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà, secondo i canoni indiani, mentre secondo quelli internazionali è oltre la metà.
In india il governo Modi è sfidato dalla mobilitazione dei contadini che impegna a fondo il Partito Comunista Indiano chiedendo la cancellazione dei debiti, la possibilità di accedere alla proprietà delle terre e l’aumento del prezzo dei prodotti agricoli. Del resto era una promessa elettorale disattesa dello stesso Bharatiya Janata Party al potere: raddoppiare il reddito degli agricoltori entro il 2022. Oggi il settore copre il 17 per cento del Pil a causa della crescita del settore dei servizi, ma tra il 50 ed il 70 per cento della popolazione dipende dal settore agricolo. E questa situazione pone, appunto, oltre la metà della popolazione in condizioni di povertà, in quanto i prezzi al consumo dei prodotti agricoli continuano a scendere e in venticinque anni si sono suicidati oltre trecentomila contadini a causa dell’endemica condizione di estrema povertà.
La All India Kisan Sangharsh Coordination Committee (AIKSCC)[2], organizzazione che unisce duecento organizzazioni contadine in tutto il paese lamenta il mancato rispetto delle indicazioni della Swaminathan Commission (aumentare della remunerazione agricola oltre il costo di produzione) ma soprattutto denuncia il degrado delle condizioni degli agricoltori da quando, negli anni novanta, furono introdotte le riforme neoliberali. Dal 2014, infatti, una tenaglia strangola le famiglie contadine, da una parte gli aumenti del prezzo del carburante e dei fertilizzanti, dall’altro la riduzione dei prezzi agricoli. Inoltre sta calando la terra adibita all’agricoltura, a causa della competizione delle sempre maggiori infrastrutture e ormai il 40 per cento dei contadini sono senza terra; si parla di circa sessanta milioni di persone che sono state espropriate, spesso senza nessun risarcimento, da società internazionali concessionarie dello stato.
Tutto questo mostra la rilevanza della sovrappopolazione relativa (ovvero dell’esercito di riserva) nel settore: circa duecentocinquanta milioni direttamente impiegati nei lavori della terra e, appunto, altri cinquecento milioni comunque connessi e dipendenti dal settore.
David Harvey è una notissima e rispettabile personalità, uno studioso di grande valore e sensibilità, una guida per molta parte del pensiero critico occidentale. Ma è britannico, laureato a Cambridge in geografia, sin dagli anni settanta si converte al materialismo dialettico ed al marxismo, se pur letto in chiave autonoma ed originale.
Utsa Patnaki e suo marito, Prabhat Patnaki, sono due economisti che hanno studiato in India, e che hanno lavorato per lo più al Center of Economic Studies and Planning nella School of Social Sciences dell’Università Jawaharlal Nehru di Nuova Delhi, dall’inizio degli anni settanta. Il loro perfezionamento è tuttavia avvenuto in Inghilterra, entrambi ad Oxford ma Utsa in economia e Prabhat in filosofia, da cui ha passato un periodo a Cambridge.
Per quando David Harvey abbia dieci anni più di loro si tratta di studiosi esperti e stimati, con decine di libri e centinaia di articoli alle spalle. Ma questo confronto, riportato in calce al libro dei Patnaik, è insolitamente aspro. L’uno parla di leggerezza, imprecisione e infondatezza e di “ossessione”, gli altri di subalternità ad una cultura che oscura la verità perché scomoda, quasi di complicità.
La durezza dello scontro dice qualcosa. Parla del portato degli scontri di classe e di radicamento che attraversano i secoli per riproporsi. Sono di fronte, in effetti, colonizzatori e colonizzati. I secondi non lo hanno dimenticato.
Veniamo prima alle obiezioni del britannico.
Come detto un sottile filo polemico li distanzia. La tesi avanzata in “Una teoria dell’imperialismo”, dai due coniugi Patnaki non convince Harvey su diversi piani che si possono ridurre fondamentalmente ad uno: si tratta di una tesi strettamente centrata sull’India e non generalizzabile. Per gli economisti indiani l’imperialismo è definito come la pratica di mantenere artificialmente bassi, con una serie di tecniche e pratiche, i prezzi agricoli e delle altre materie prime a beneficio delle metropoli che, quindi, ricevono un flusso di valore reale che non pagano. Il capitalismo globalizzato contemporaneo dipenderebbe da questi flussi, come è sempre avvenuto. Senza questi continui impulsi deflazionari si innescherebbe infatti una dinamica di inseguimento dei prezzi che di fatto farebbe cessare l’accumulazione capitalista ed in particolare la forma globalizzata di questa. Scheletricamente questa è la tesi per Harvey.
Uno dei punti di divergenza è disciplinare: il geografo nega che gli economisti abbiano ragione nella caratterizzazione del suolo agricolo tropicale come limitato sia fisicamente sia come produttività, e nel far discendere da questa caratteristica “fisica”, conseguenze determinate. L’argomento gli sembra basato essenzialmente su alcune caratteristiche molto specifiche della massa continentale tropicale e solo indebitamente esteso anche alle materie prime minerarie (come il petrolio). Più profondamente, registra una certa incertezza nell’uso dei termini ed un certo affiorante determinismo climatico. Per contrastarlo si impegna a moltiplicare le eccezioni: Cina, Brasile, Argentina, Messico, Stati Uniti, estesi a cavallo di più zone climatiche. Oppure il Mediterraneo, con i suoi monopoli di prodotti agricoli di valore. E, ancora “l’incredibile produttività dell’agricoltura californiana”. O, la disponibilità di terra “aperta”, ovvero espandibile, in Africa e altrove.
Attraverso questi esempi Harvey propone di considerare non significativa, se non appunto in India e nel Sahel, la dipendenza del capitalismo metropolitano dallo sfruttamento di terra tropicale o subtropicale coltivata in modo non capitalistico, e quindi da prodotti di piccoli produttori di materie prime che possono essere abbastanza facilmente tenuti sotto costante pressione. Questa situazione esiste, ma non ha il volume per tenere sotto pressione potenziale il capitalismo. Se i prezzi aumentassero, ad esempio, si potrebbero sostituire molti prodotti, come in passato è avvenuto (ad esempio durante le guerre napoleoniche). In altre parole, è vero che molti prodotti hanno i prezzi tenuti artificialmente bassi dalle sovvenzioni occidentali ai propri agricoltori (in particolare in Usa ed Europa), come accade al cotone, ma l’impatto è complessivo e globale.
Insomma, l’accusa che Harvey produce alla linea argomentativa dei Patnaki è di determinismo ambientale e di “cattivo materialismo”. Ovvero di identificazione del materialismo con la fisicità e quindi con le scienze naturali. Al geografo britannico sembra che i due studiosi indiani seguano una visione economica semplificata delle determinanti geografiche in termini puramente naturali e fisiche, “come se la produzione sociale dello spazio e della lunga storia delle modifiche umane degli ambienti non abbia importanza”. Del resto le scienze economiche sono talvolta impegnate in questo esercizio di scoprire “il colpevole unico” dei fenomeni: per Jeffrey Sachs è l’ambiente fisico e climatico, per Acemoglu le istituzioni. Sembra che per l’economia si debba sempre scegliere, cartesianamente, tra “natura” e “cultura”. Il punto di vista marxista è dialettico è invece che “possiamo cambiare noi stessi solo cambiando il mondo e quando cambiamo il mondo e il nostro ambiente attraverso il lavoro umano, noi cambiamo noi stessi. La relazione metabolica dialettica con la natura è in continua evoluzione e gran parte di tale evoluzione è stata dettata dall’azione dell’essere umano in modo che ora viviamo in un mondo profondamente modificato da quell’azione umana in generale e dal capitalismo in particolare”. Quel che è accaduto in questa relazione dialettica è che si è avuto attraverso il capitalismo “l’annientamento dello spazio attraverso il tempo” e una radicale compressione spazio-temporale che ha assorbito anche la massa tropicale continentale: “guarda una mappa del sistema di trasporto dell’Africa occidentale e vedi un orientamento nord-sud nel sistema ferroviario e stradale progettato per drenare ricchezza dagli interni fino alle città portuali che poi spediscono quella ricchezza alla metropoli”.
L’insieme di queste condizioni produce economie di agglomerazione altamente complesse, che riescono a sopravanzare, e di molto, alcuni svantaggi settoriali climatici o naturali. O, per dirlo con le sue parole: “il capitalismo metropolitano ha accumulato potere monopolistico fondato sulla produzione di conoscenza, capacità di ricerca e sviluppo tecnologico, forme organizzative e infrastrutture sociali (per non parlare di potere militare). Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna potrebbero anche non essere in grado di produrre olio di cacao e di palma, ma gli apparati statali presenti nella la massa terrestre tropicale non possono facilmente produrre qualcosa di equivalente alle infrastrutture fisiche e sociali disponibili al capitale nelle regioni metropolitane temperate”.
La prima eccezione a questa regola l’ha prodotta a Singapore Lee Kuan Yew, poi il Brasile, l’India, la Cina. Se anche le regioni tropicali avessero davvero una supremazia non sanabile nei prodotti agricoli specifici, restano in svantaggio sui prodotti avanzati più decisivi per l’attuale economia.
L’altro argomento dei Patnaik, il migliore, però concerne l’esercito di riserva del lavoro. Come diceva Samir Amin qui ci sono effettivamente enormi riserve (anche se si riferiva all’Africa).
“I Patnaik notano correttamente che la teoria della produzione di Marx dell’esercito di riserva industriale e di conseguenza l’immiserimento crescente il proletariato nel volume I del Capitale assume uno spazio chiuso economico (non presuppone inoltre problemi di domanda effettiva e non impatti della divisione dell’eccedenza tra affitto, interessi, imposte e profitto del capitale del commerciante). L’esistenza di una vasta riserva di lavoro nelle colonie e nelle formazioni sociali non capitaliste non è considerata nella teoria di Marx in parte perché a quel tempo era troppo difficile da sfruttare quella riserva se non nel lavoro nelle piantagioni. Essi anche sostengo, a mio avviso, correttamente, che la distinzione tra la riserva in questione nel centro metropolitano e nella periferia è stata molto ridotta dalla globalizzazione negli ultimi tempi, per cui possiamo ragionevolmente pensare che il confronto capitale-lavoro è ora più unificato in tutto lo spazio dell’economia globale. Deflazione del reddito (e elaborazione delle zone di esportazioni) nella periferia ora esercitano una notevole resistenza alle condizioni di travaglio nella metropoli. Una delle complicazioni che ne derivano è che mentre la deflazione del reddito si diffonde nelle regioni metropolitane, una tendenza verso il sottoconsumo diventa un problema (in parte mitigato da tensioni nel sistema creditizio). Sfortunatamente, i Patnaik in gran parte ignorano l’industrializzazione che si verifica sulla terraferma tropicale a causa della loro ossessione per la produzione agricola”.
Ma ciò, se pur vero, non esclude la necessità di avere una valutazione dinamica delle caratteristiche geografiche. Myrdal faceva notare la tendenza delle regioni ricche a diventarlo sempre di più a causa delle economie di agglomerazione e delle sinergie cumulative in grado di generare infrastrutture sociali e fisiche decisive[3]. Questo processo, scrive Harvey, “può accadere a livello locale (il contrasto di Detroit con San Francisco o Londra con Newcastle), ma succede anche su scala mondiale e ciò può o meno essere rafforzato da ciò che viene convenzionalmente definito ‘Pratiche imperialiste’.”
Se per i due studiosi indiani l’imperialismo non è mai stato compreso dagli economisti come “un sistema di sfruttamento spaziale”, Harvey ha buon gioco nel ricordare che invece la sua disciplina di formazione non lo ha mai dimenticato[4]. E che i fenomeni di dominazione geografica, di land grabbing, o di ‘estrattivismo’ non sono certo monopolio americano. La Cina in Zambia per il rame, il Brasile con i produttori di soia in Paraguay, sono forme di imperialismo? Harvey preferirebbe non essere costretto a doverlo dichiarare. E che dire dei processi di industrializzazione ampiamente in corso?
“Quelli di noi che pensano che le vecchie categorie dell’imperialismo non funzionino troppo bene in questi tempi non negano affatto i complessi flussi di valore che espandono l’accumulo di ricchezza e potere in una parte del mondo a spese di un altro. Pensiamo semplicemente che i flussi siano più complessi di quelli citati e in costante cambiamento di direzione. Il drenaggio storico della ricchezza da est a ovest per più di due secoli è, per esempio, stato ampiamente invertito negli ultimi trenta anni.
Per tenere traccia delle correnti trasversali di sfruttamento, abbiamo bisogno di vedere dove vengono prodotti i surplus di capitale, come sono geograficamente dispersi e alla ricerca di cosa.”
Si può dire in modo semplice: se tutto ciò è imperialismo non lo è nel senso antico, ma, al più, una forma di “sub-imperialismo”. Quindi è precisamente lo sviluppo geografico irregolare di questi schemi di sfruttamento e super-sfruttamento che, per Harvey, dovrebbero essere il focus degli studi, piuttosto che stipare ogni cosa in una teoria semplicistica dell’imperialismo.
Non è solo che “è più complicato di così”, ma che bisogna, per Harvey, comprendere le “forze di base” che sono “al lavoro” e che spiegano lo schema dei flussi di capitale in movimento vorticoso nel mondo in cerca iperattiva di sempre nuove opportunità di estrazione di plusvalore. Ci sono due intuizioni, rispettivamente di Marx e Lenin, che soccorrono: quella che il capitale ha un movimento espansivo che alla fine lo porta ad estendersi al mondo intero e quella che la pratica imperialista più importante è l’esportazione di capitale. L’ipotesi che le tiene insieme è che il capitale è costantemente e crescentemente alla ricerca di soluzioni alla sua tendenza alla sovraccumulazione (che è come dire al sottoinvestimento) attraverso la “correzione spaziale”. Ovvero della costante espansione geografica o “ricostruzione geografica”[5] (una forma di espansione per intensificazione). Quel che accade è che parte del capitale a rischio di sovraccumulazione (ovvero di svalutazione) si impiega nello spazio attraverso la traduzione in capitale “fisso” (infrastrutture fisiche) “per facilitare il flusso libero e continuo del capitale attraverso lo spazio”[6]. I due impieghi del capitale si rafforzano a vicenda. Tuttavia si tratta di dinamiche molto diverse a seconda si tratti di muovere per valorizzare il capitale sotto la forma di merce, denaro liquido o investendolo in mezzi di produzione fisici. L’intera dinamica spaziale dell’accumulo del capitale è dunque stata radicalmente cambiata dalla decisione assunta dopo gli anni settanta di abbattere tutte le barriere alle due mobilità del denaro e delle merci, questo ha aperto la strada all’impiego di capitali mobili ovunque ci fossero condizioni marginalmente più adatte alla creazione di surplus ed alla sua traduzione in profitto. Dunque è questo che ha prodotto i due fenomeni gemelli della deindustrializzazione nei centri e l’industrializzazione nelle periferie. Come effetto non secondario ha disciplinato l’azione degli stati, impedendogli di attivare politiche compensative.
Questo è il contesto generale nel quale si esercitano le pratiche “quasi-imperialiste” che passano anche per la gestione dei flussi finanziari, l’azione delle banche centrali, il dominio delle politiche del Fmi e Omc, e l’estensione del proprio regime normativo (ad esempio, imponendo i diritti di brevetto).
Una visione che fa propendere David Harvey per la posizione a suo tempo tenuta da Giovanni Arrighi, che ricorda, per “abbandonare l’idea dell’imperialismo (insieme alle rigidità dell’approccio nuclei-periferie come modello del sistema mondiale) a favore di una comprensione più fluida delle egemonie concorrenti e mutevoli all’interno del sistema statale mondiale”[7]. La contraddizione tra la logica territorialista e quella “capitalista” (che chiama “logica molecolare dei flussi di capitale”) però è molto più difficile da ricondurre e molto più pervasiva di quanto risulti dalla rappresentazione dei Patnaik, di uno spazio fisso e morto agricolo che si estende nel territorio tropicale, nel quale contadini non capitalisti sono sfruttati dal capitale metropolitano.
Replica degli indiani
La risposta dei coniugi Patnaik a questa critica che suona radicale e finanche leggermente offensiva (in sostanza è come se un docente di un’università prestigiosa stesse rimproverando dei colleghi un poco provinciali, segnalando la corretta bibliografia), è altrettanto forte. È evidente, dal loro punto, che Harvey non ha capito: “l’imperialismo è legato al capitalismo come sistema sociale; non è un prodotto inevitabile della geografia. Detto in altre parole, il capitalismo come un sistema civile supera la sua privazione di determinate risorse naturali, che sorgono non esclusivamente ma, tra l’altro, per motivi climatici (geograficamente noi diciamo), in un modo specifico che comporta la deflazione del reddito, e questo è il segno dell’imperialismo”[8].
Dire, come provocatoriamente ha fatto Harvey, che il capitalismo crollerebbe se le spezie non fossero importate è quindi una caricatura.
Ma subito di seguito spendono una ventina di pagine per presentare la propria letteratura e visione dei fatti, e per dire che “c’è una significativa mancanza di conoscenza e offuscamento dei fatti materiali”, nella rappresentazione dell’inglese e della letteratura teorica anglosassone. Questo passaggio, come altri, tanto più perché condotto tra studiosi che appartengono allo stesso campo politico e, almeno in parte, alla stessa corrente di questo, mostra una circostanza spesso soggiaciuta ma operante: non è simmetrica, e non è vissuta per tale, la posizione tra gli eredi degli sfruttatori e degli sfruttati. Il colonialismo, nelle aree di maggiore e più violento suo impiego (ovvero India, nella fattispecie, ma varrebbe anche per l’Africa, la Cina e parte del Sud America), lascia memoria di sé. Non si capirebbe nulla della posizione dei Patnaik senza questa considerazione.
Ovviamente non vale per tutti gli indiani, come per gli altri popoli vittimizzati, perché si interseca con la provenienza di classe ed in particolare con l’adesione allo strato sociale “compradoro” che nello sviluppo ineguale ha fatto da tramite e (parziale) beneficiario o con quello che ne ha portato interamente il peso. In altre parole, non tutto gli indiani sono altrettanto ostili allo sfruttamento asimmetrico messo in essere dai centri “imperiali” (ovunque siano).
Si parte dall’orgogliosa rivendicazione della piena autonomia alimentare (almeno potenziale) che è per lo più provocata dalla destinazione di grande parte dei terreni migliori alle colture da esportazione, spesso sotto condizione di “land grabbing” o comunque su concessione ad aziende internazionali. Queste esportazioni non riguardano solo le colture tropicali, ma spesso anche quelle temperate che sono coltivate su terreni tropicali per ovviare all’assenza stagionale (ovvero per avere nei nostri supermercati frutta “fuori stagione” tutto l’anno). Per comprendere la connessione di questa circostanza con la crescita dell’occidente, oltre alla meccanica dell’occupazione coloniale, bisogna ricordare che l’Europa fino al medioevo era catturata in una trappola “malthusiana” essenzialmente prodotta dallo scarso rendimento agricolo. L’accumulazione inglese, in particolare, avvenne quando le importazioni dall’Asia, dalle Indie occidentali e dall’Irlanda furono rese disponibili, spesso in sostanza senza contropartite[9]. Le eccedenze non pagate sono arrivate fino a 6 per cento del Pil britannico e si sono tradotte in tasse, rendite estratte dalle popolazioni soggiogate. Un enorme flusso di prodotti alimentari e materie prime estratti completamente gratis, “un fatto che continua ad essere non solo ignorato ma attivamente offuscato fino ad oggi dagli storici residenti della Gran Bretagna, che cercano di proiettare un aspetto interno dinamico per la prima capitalizzazione dell’industrializzazione”[10].
Questa realtà è nascosta in tre modi: fingendo che la produttività del territorio era più sviluppata; immaginando che lo scambio fosse “a mutuo vantaggio”; e presupponendo che la dipendenza del Nord dal Sud non avesse alla fine una grande rilevanza, né storicamente né al momento.
I Patnaik contrastano tutti e tre gli argomenti.
Il primo è stato chiaramente sottoscritto anche da Harvey, quando ha richiamato la “superefficienza” dell’agricoltura nordica, in particolare californiana. Un errore che fa anche Arthur Lewis dal 1979, manipolando i dati e oscurando il semplice fatto della dominazione militare. Dalla tabella 3 dimostrano che ancora oggi la produttività fisica per ettaro (non in termini di valore di mercato) di tutte le culture alimentari in Cina è secondo loro, due volte e mezzo il livello degli Stati Uniti, ed anche in India è superiore del cinquantadue per cento. Il delta del Mekong produce undici raccolti in quattro anni, e, del resto, basterebbe la considerazione dell’alto livello di sovvenzione che le agricolture temperate (in Usa ed Europa) devono avere necessariamente per essere competitive per riportare l’affermazione di Harvey alla sua realtà. Secondo l’argomento prodotto una coltivazione non può essere contemporaneamente super-efficiente e fortemente sovvenzionata a lungo, perché una delle due non sarebbe necessaria (se fosse naturalmente efficiente e sovvenzionata calerebbero gli investimenti, se fosse super-efficiente cesserebbe di essere sovvenzionata). Il punto sotto attacco è specificamente che la definizione di “efficienza” che si usa in economia è calcolata in termini di costo unitario della produzione rispetto all’unità di valore in uscita. Una parte del problema è che nell’agricoltura occidentale gli alti costi sono legati agli input energetici incorporati.
Inoltre:
“Gli agricoltori cinesi, indiani ed egiziani producono con unità molto di costo molto più basse e potrebbe decimare in modo competitivo gli Stati Uniti a livello dei mercati globali di cereali, cotone e praticamente di qualsiasi altro prodotto (diverso forse dallo sciroppo d’acero), se solo gli agricoltori statunitensi non fossero sostenuti dallo stato con sussidi incredibilmente grandi. Il sussidio per il cotone americano è noto a livello globale ed è pari a oltre $ 110.000 all’anno per agricoltore a tempo pieno durante il periodo 1997–2012, ed è accuratamente calibrato sulle oscillazioni globali delle condizioni di produzione, con la maggior parte dei sussidi che vanno al massimo ad un decimo delle imprese agricole. Nello stesso periodo il risultato di questo prezzo volutamente abbassato e volatile del cotone ha contribuito al media annua di quasi 18.000 suicidi di agricoltori in India e ha messo i redditi degli agricoltori di cotone a sottosquadro nei paesi africani. Harvey può trarre conforto dal fatto che l’agricoltura europea e giapponese richiede sussidi persino più elevati rispetto all’agricoltura statunitense ed è la più ‘super-inefficiente’ di tutte. Da quando la meccanizzazione ha aumentato la produttività del lavoro a tal punto che meno del 5 percento dei loro lavoratori e una quota ancora inferiore del loro PIL è attribuibile all’agricoltura e alle attività alleate, i paesi industriali avanzati possono permettersi di dare come sovvenzione del budget fino a metà o più dell’intero valore della loro produzione agricola, e quindi possono dominare i mercati globali nonostante la loro inefficienza”.
Questo piano di critica è, da entrambe le parti, troppo scheletrico per giungere ad una definizione certa. È ad esempio evidente che l’agricoltura occidentale, se pure è svantaggiata dal clima, si giova di alcuni secoli di maggiori investimenti in miglioramenti agrari e di maggiori input energetici e tecnologici, due fattori che se da una parte pesano sui costi (rispettivamente di investimento e di esercizio) dall’altra incrementano il prodotto, in termini sia quantitativi sia qualitativi. D’altra parte il costo del lavoro è di gran lunga maggiore, per effetto della produttività generale del sistema economico e quindi del tenore di vita (in parte quest’ultimo fattore è compensato dall’importazione di lavoratori del terzo mondo e dal loro selvaggio sfruttamento in condizioni semi-servili). Quel che è certo è che gli incentivi, invero massivi, quale integrazione del reddito agricolo e quindi abbassamento del prezzo di equilibrio sul mercato, svolgono la funzione di comprimere per via dell’alterazione delle relative ragioni di scambio il prezzo praticabile dalle merci da esportazione del terzo mondo, e indirettamente anche di quelle consumate in loco (che si trovano un tetto non superabile, pena essere sostituite dalle importazioni). Dunque, al netto del discorso sulla produttività, difficile da decidere in astratto (perché può essere alterato da ulteriori investimenti diretti o indiretti), la presenza di incentivi estratti da altre parti del budget pubblico obiettivamente comprime il prezzo di equilibrio che l’agricoltura del terzo mondo riesce a spuntare e anche i prezzi interni.
Che questo sia “imperialismo” può essere una disputa nominalistica, che sia concorrenza sleale e quindi estrazione di ricchezza (costringendo di fatto le nazioni subalterne a vendere le proprie materie prime e il loro lavoro a prezzi inferiori) sembra più solido.
Il secondo errore criticato dai Patnaki è invece l’affidamento alla legge dei vantaggi comparati di Ricardo. Un modello che presuppone troppe cose, tra queste che entrambi i paesi possano produrre tutti i beni. Si tratta dell’errore di trarre da una premessa molto limitata una conclusione troppo estesa che non è autorizzata da questa.
Il terzo errore deriva dalla ignoranza profonda e “quasi coltivata” del mondo accademico del nord circa le specifiche condizioni del commercio globale e degli investimenti in base alle quali i paesi si sono sviluppati dall’ultimo quarto del diciannovesimo secolo. La tesi è forte, e rivolta quindi anche all’interlocutore marxista, “scelgono di non avere la minima idea che la loro superiorità sviluppata dipendeva sostanzialmente dallo sfruttamento coloniale anche quando i loro paesi non avevano colonie”. L’Inghilterra ha esportato capitali in America settentrionale e in alcune regioni di recente insediamento come l’Argentina, il SudAfrica e l’Australia (oltre che, naturalmente, nel resto d’Europa), innalzando il loro livello di attività. Questo surplus esportato ha portato in deficit il conto corrente ed in conto capitale con loro. La somma dei due deficit sarebbe stata insostenibile se non avesse strappato un costante deflusso di oro dalle colonie tropicali. Come controprova si può ricordare che dal 1880 al 1928 l’India aveva il secondo maggiore surplus di esportazioni al mondo (gli Usa il primo), e che il picco fu di mezzo miliardo di dollari. Ma il punto è che non fu l’india ad arricchirsi, perché non era autonoma, “tutti i suoi guadagni in valuta estera erano sistematicamente stanziati dalla Gran Bretagna ogni anno per pagare il deficit della bilancia dei pagamenti [della “madrepatria”]”, i contadini ed i produttori artigianali sono stati pagati con moneta che era immediatamente recuperata fiscalmente, quindi non sono stati pagati. In sostanza la valuta estera era trasferita in Inghilterra e il lavoro locale era pagato con moneta locale che, però, era subito recuperata evidentemente salvo il minimo di sussistenza, fiscalmente e non era reinvestito in loco, se non in minima parte (anche i celebrati investimenti in ferrovie ed altre infrastrutture si traducevano sempre in forniture inglesi, lavoro inglese, se pregiato, ed indiano, se servile[11]).
Quindi la rapida estensione del capitalismo in Europa e Nord America indirettamente si fonda su questa estrazione costante di surplus dalle colonie tropicali.
Entrando direttamente nelle obiezioni di Harvey quindi i Patnaik accettano “volentieri” l’accusa di essere “ossessionati dall’agricoltura”, ma ne rivendicano la ragione: “è il passato e l’implacabile ossessione del capitalismo globale per l’accesso alle terre ed alle risorse primarie del sud, a costo di infliggere carestia in passato, fame oggi, e denudando le terre delle loro risorse minerarie”.
Questa osservazione è chiaramente il centro emotivo dell’intero libro.
Seguono alcune questioni di dettaglio, come la dipendenza del nord temperato dalle importazioni del sud per quanto attiene alla varietà dei prodotti disponibili, il fatto che i paesi in questione non siano indipendenti sotto il profilo alimentare (l’Europa non lo è da secoli), la situazione di Usa e Giappone, di dipendenza parziale e l’India, che importa solo oli vegetali e noci (soprattutto olio di palma dal sud-est asiatico), e via dicendo. Prevedibilmente la ricognizione porta alla conclusione che la dipendenza dalle importazioni alimentari dei paesi avanzati è molto più alta che per i paesi in via di sviluppo.
Questo è, insomma, il contesto nel quale è inserita la teoria dell’imperialismo dei Patnaki (che se limitata in questo modo avrebbe una dimensione settoriale). La domanda di sempre maggiori importazioni dalle terre tropicali e subtropicali potrebbe essere soddisfatta senza inflazione dei prezzi solo se la produzione crescesse progressivamente. Ma questa soluzione ragionevole è ostacolata dalla inibizione dell’attivismo dello Stato nell’epoca neoliberista (ad esempio il governo Modi dovrebbe investire in irrigazioni e miglioramenti fondiari, sostegno al credito, infrastrutture di trasporto e sostegno alla meccanizzazione e alla chimica verde).
Se non avviene una deflazione del reddito dei consumatori occidentali (che, però, è in parte in corso), la tendenza all’aumento dei prezzi per effetto della crescita normale dell’economia porterà un aumento dei prezzi (“come accadde una volta nei primi anni settanta”) e questo minaccerà la stabilità del denaro. Allora la soluzione disponibile resta l’imposizione della deflazione all’esterno (ovvero quel che accade in india agli agricoltori).
Questa è quella che chiamano “la soluzione imperialista”, e che Harvey non riesce a considerare tale (pur riconoscendo che la meccanica esiste).
Insomma, come dicono, “la nostra teoria dell’imperialismo riguarda il capitalismo per come si comporta nel contesto di alcuni fatti innegabili, relativi alle possibilità di produzione delle diverse regioni. Riguarda dunque il capitalismo e non la geografia”.
Riguardo all’argomento tutto sommato cruciale avanzato da Harvey, della dinamica di sviluppo e sottosviluppo sulla base della modellistica di Myrdal e della “teoria della dipendenza”, in sostanza i Patnaki sottolineano che per avviare poli di sviluppo industriali, che si contrappongano ad aree di deindustrializzazione (si può pensare alle “tigri asiatiche” o alla Cina, ma anche ad alcune aree della stessa India) è necessaria l’adeguata dotazione di infrastrutture. Infrastrutture “fisiche e sociali”, come sottolinea lo stesso geografo inglese. Ma questa via di “sviluppo” è comunque subalterna, ci sono numerosi esempi di tensione a rendersi indipendenti e industrializzarsi da parte di governi “dirigisti” post-coloniali che sono stati schiacciati.
Comunque l’intero argomento sollevato da Harvey è “accettato pienamente” dai Patnaki. Ed è accettato che questo sia avvenuto (lo “sviluppo-sottosviluppo”) in modo accelerato quando i capitali si sono fatti più mobili, per sfruttare i differenziali salariali. Ma, dicono, “se anche ciò avviene non viene superato l’imperialismo, perché non importa dove si trova il capitale, il problema dell’aumento del prezzo di fornitura resta”. Ed il capitale affronta sempre questo problema imponendo la deflazione del reddito.
Per evidenziare questo si concentrano sulle continuità tra il vecchio colonialismo e l’epoca moderna. Anzi, “la mancata percezione degli impatti temporanei dell’imperialismo è, in sostanza, un fallimento nel percepire il colonialismo”. Ovvero l’incapacità di capire che la differenza essenziale tra la situazione odierna (ad esempio le relazioni tra Cina ed Africa) e quella di allora era che i flussi avvenivano senza contropartita, oggi non è più così, almeno nella misura in cui il confronto è tra paesi reciprocamente indipendenti. Il tema, a ben vedere, è allora questo lo scambio non è sempre a “vantaggio reciproco”, non sempre è equilibrato. Spesso nella relazione sonno presenti residui di colonialismo, ad esempio sotto forma di salvaguardia esasperata del “diritto di proprietà”, e altre strutture normative imposte.
Questo è il piano sul quale i Patnaki ed Harvey sarebbero in accordo, il disaccordo dipende da ciò che hanno nel campo visivo: lo sfruttamento concreto, subito e reiterato, qui ed ora, del subcontinente indiano e dei suoi contadini o le dinamiche globali rispetto alle quali, come scrive il secondo, “le vecchie categorie dell’imperialismo non funzionano troppo bene”, perché la situazione dello sfruttamento si è fatta più fluida, pur permanendone la meccanica.
Come scritto nel commento ad un articolo[12] che è la prova generale di questo libro, e quindi di questo dialogo e scontro, oggi la divisione del lavoro a scala mondiale vede la base produttiva sparpagliata in tutte le aree di minore resistenza nelle quali può essere estratto il surplus con il minimo di attrito, fidando su un “esercito di riserva mondiale” che è costantemente coltivato ed accresciuto, con relativo disinteresse al problema del realizzo, in quanto la domanda alla quale fare affidamento si è fatta fluida e mondiale (ma tende comunque ad essere scarsa) e in quanto il meccanismo di creazione delle bolle e gli “schemi ponzi” possono appianare le asperità, almeno temporaneamente, e creare domanda senza base produttiva. Questo è il senso dell’obiezione di Harvey alla “fissazione” dei Patnaki sul problema della deflazione imposta ai prezzi dei prodotti di base e, per essi, ai suoi produttori nella parte debole del mondo.
Entrambi sanno che l’espansione del debito surroga la chiusura stabile del ciclo keynesiano, surrogandola ed appoggiandosi su “cicli Minsky” sempre più ampi e quindi sempre più veloci ed instabili[13]. Sanno che la circolazione del valore muove dalla produzione, decentrata, divisa in catene di approvvigionamento e montaggio sempre più lunghe ed intrecciate, quindi sempre più fragili e costose da proteggere, e dal suo rimontaggio, amplificazione e ricircolo nel sistema mondiale ed interconnesso di intermediazione finanziaria. Individuano un sistema interamente fondato sulla liquidità apparente, altamente vulnerabile alla potenziale perdita di valore del denaro che potrebbe essere trasmessa da un’inflazione dei valori ‘reali’.
La questione della tendenziale sovraccumulazione del capitale in forma liquida (ovvero come denaro, come titoli, crediti e diritti di proprietà scambiabili) è, a ben vedere, al centro dell’attenzione di entrambi. Ma è interessante come la differenza di posizione individuale, e di memoria storica costituente, ovvero di radici del sé, produca il reciproco accusarsi di “ossessioni”.
La stabilità del valore, condizione per l’accumulazione capitalista, nelle condizioni di estrema mobilità proprie della fase finanziaria, è servita dalla meccanica messa in luce dai Patnaki, ed imperniata sulla creazione nelle periferie (e nei centri) di un “esercito di riserva” del lavoro, che contiene i prezzi delle materie prime e di tutti i prodotti intermedi che alimentano le catene logistiche mondiali. Garantendo in tal modo la creazione di surplus e di profitti. Questo “sifonamento” di ricchezza, che viene trasferita dalle periferie e dal lavoro subalterno (nella catena di produzione) attraverso la partecipazione minoritaria alla catena del valore (che quindi è trattenuto, con vari espedienti, nelle mani di chi detiene i titoli di proprietà e controllo) è quel che in fondo questi chiamano “imperialismo”.
Questo genere di “imperialismo” è proprio del modo di produzione capitalista e non è cessato con la globalizzazione, anzi è cresciuto.
Ma questa linea di argomentazione, astrattamente avrebbe ragione Harvey, sarebbe servita meglio da una minore concentrazione sul caso particolare della sottovalorizzazione dei beni alimentari e delle materie prime del sud del mondo.
Tuttavia quel di cui parlano davvero gli autori non è dello sfruttamento intrecciato nella catena del valore della Samsung, ad esempio, ma dello scontro concreto, attuale ed in corso, tra i contadini organizzati dal Partito Comunista Indiano e dalla piattaforma All India Kisan Sangharsh Coordination Committee, contro il governo Modi. È questo che garantisce la conservazione dell’esercito di riserva giunto a sessanta milioni di persone private dei mezzi di sussistenza e quasi cinquecento in condizioni di grave povertà. È il governo neoliberale indiano, esprimendo ed interpretando una logica propria di tutte le élite globaliste mondiali, che per garantire la stabilità del modo di produzione capitalista e l’accumulazione del capitale nelle mani delle borghesie ‘compradore’ indiane, oltre che delle élite imperialiste presenti in India (che ha indubbiamente nella divisione del lavoro mondiale anche una funzione sub-imperialista), impedisce che il surplus di capitale transiti attraverso la funzione pubblica e sia impiegato nel “potenziamento territoriale”. Ovvero in quegli investimenti, richiesti a gran voce, che possano aumentare la produttività, ridurre i costi di esercizio (anche e soprattutto finanziari, stabilizzando i debiti), e liberare i lavoratori dallo stato di deprivazione e soggezione che spinge quindicimila di loro ogni anno a togliersi la vita.
Quando gli autori attaccano la propensione del capitalismo nella fase neoliberale per la “sana finanza” e l’inibizione della strada di crescita per ridurre e controllare la sovraccumulazione e quindi la tendenza all’inflazione e destabilizzazione del valore, stanno attaccando non un generico, astratto, modello[14], ma politiche concrete che producono effetti concreti.
Utsa e Prabhat sono dei militanti, prima di essere dei teorici. Prima di essere degli economisti. Prima di essere dei tecnici.
Per capire qualcosa del mondo bisogna essere entrambi, bisogna volerlo cambiare.
[1] – Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, “Una teoria dell’imperialismo”, Columbia University Press, 2017
[2] – Questa è la sua piattaforma on line: http://aikscc.com/
[3] – Gunnar Myrdal, “Economic Theory and underdeveloped regions”, London, 1957, ed it. Feltrinelli 1959.
[4] – In questo passaggio cita la principale letteratura della dipendenza: Samir Amin, “Accumulation on a World scale”, Monthly Review Press, 1974; Immanuel Wallerstein, “The modern world system”, Academic Press, 1974; Argiriss Emmanuel, “Unequal exchange: a study of the imperialism of trade”, Monthly Review Press, 1972; Andre Frank, “Capitalism and Underdevelopment in Latin America”, Monthly Review Press, 1969.
[5] – Si veda, ad esempio, i fenomeni di ricostruzione urbana per grandi progetti essenzialmente fondati sull’attrazione di flussi di capitali mobili e riconfezionamenti per distribuzione altrimenti che sulla domanda endogena. Un esempio, certo non unico, è la costante ricostruzione di Londra, si veda “Saskia Sassen, ‘Londra si autodistrugge’: del ciclo edilizio al tempo della finanza estrattiva” e “Laurie MacFarlaine, La ricchezza è generata dalla rendita”.
[6] – David Harvey, “The geography of capitalis accumulation: a recostruction of the marxian theory”, Antipode 7, 1975; David Harvey, “Space of capital”, Routledge, 2001; David a Harvey, “The limits of capital”, Blackwell, 1982.
[7] – Harvey cita due opere di Arrighi: Giovanni Arrighi, “The geometry of imperialism”, New left Book, 1978; “Il lungo XX secolo”, Verso 1994, ed it. 1996.
[8] – Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, “Una teoria dell’imperialismo”, cit, p.173
[9][9] – Si veda, per una visione occidentale del tema, coerente con alcune descrizioni storiche, Paul Roberts, “La fine del cibo”, Codice 2009
[10] – Idem, p. 177
[11] – Si veda Hosea Jaffe, “Era necessario il capitalismo?”, Jaca Book, 2008
[12] – Utsa Patnaik, Prabhat Patnaik, “L’imperialismo nell’era della globalizzazione”, Monthly Review, vol. 67, n. 3 luglio 2015
[13] – Si veda Hyman Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975.
[14] – Il modello si presta ad essere generalizzato, ma va descritto e smontato in ogni luogo concreto. Si presta ad essere applicato anche ai margini diradati del capitalismo “centrale”. Dove stazionano frazioni di classe anche esse spazialmente distinte ma contigue ai centri metropolitani. Non solo nel ‘terzo mondo’, quindi, ma nel “semi-primo”. Dove si allargano gli ambienti vasti nei quali prevalgono condizioni di marginalità e i relativi atteggiamenti esistenziali e politici, dove scoppia l’ira delle periferie. Il fenomeno mostrato nel caso indiano, della deflazione provocata per conservare stabilità all’accumulazione capitalistica e le relative gerarchie sociali, limitando al minimo i terreni nei quali si può tollerare l’inflazione dei prezzi e dei salari che provocherebbe un assorbimento di ricchezza e riduzione del potere di acquisto del capitale, si manifesta anche qui pienamente. Questi fenomeni accadono perché la dipendenza non è un gioco tra blocchi omogenei, ma è un rapporto dinamico reso dai differenziali di potere (nelle forme in cui questo si manifesta). Questo differenziale, che è necessario per proteggere il surplus e la sua appropriazione, creando centri dominanti nei quali si concentra e periferie dalle quali si estrae, si manifesta nelle grandi città, nelle aree “dell’osso” delle regioni sviluppate, nella divaricazione macroregionale (ad esempio quella italiana), nella tendenziale stagnazione relativa o perdita di spinta dei sistemi-paese spinti ai margini. Queste dinamiche accadono nel nord inglese, nella regione della ruggine americana, nelle periferie urbane praticamente ovunque, nelle regioni appenniniche (o alpine) italiane, nei sud (in termini relativi). Ovvero nelle “cinture” nelle quali peraltro vince, non per caso, il “populismo”.
Non bisogna prendere questo modello concettuale come una descrizione omogenea od organica, luogo contro luogo. Anche in ogni periferia, in ogni ambiente periferico, ovunque esso sia, permane in posizione d’ordine, un segmento di borghesia che si nutre dell’intermediazione e quindi cresce. Un segmento che è a cavallo ed in contatto con il capitale metropolitano e produce alcuni, se pure limitati, ‘effetti alone’. In conseguenza ci sono zone e paesi che hanno registrato un’elevata “crescita”. Normalmente ottenuta, data la posizione di intermediazione, a spese della trasmissione di surplus e quindi spingendo ancora più in basso i ceti produttivi subalterni. Ovunque bisogna identificare i propri Modi, e coloro che li appoggiano perché ne traggono beneficio.
Fonte: http://tempofertile.blogspot.com/2020/02/un-dialogo-sullimperialismo-david.html
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