Draghi contro Draghi
di MARX XXI
Thomas Fazi
La lettera dell’ex Presidente della BCE inviata al “Financial Times” ha provocato un cortocircuito nella narrazione economica europea, pertanto deve farci riflettere sulle sue conseguenze. Quanto Federico Caffè è rimasto in Mario Draghi?
Mario Draghi ha firmato un articolo sul Financial Times in cui dice che i Paesi dell’eurozona devono fare più debito pubblico per far fronte all’emergenza COVID-19, ed è stata subito gara tra i politici e commentatori nostrani – molti dei quali fino a ieri consideravano il debito pubblico l’ottavo peccato capitale – ad annunciare la seconda venuta di Cristo. ”La lettera di Draghi andrebbe letta e imparata a memoria”, dice Matteo Renzi. ”Benvenuto al Presidente Draghi, serve l’aiuto di Draghi”, tuona Matteo Salvini. ”Le parole di Mario Draghi siano monito e guida per l’Europa e per l’Italia, stavolta serve far crescere il debito pubblico”, dice Mariastella Gelmini, capogruppo alla Camera di Forza Italia. ”Succederà che noi aumenteremo di molto i debiti nazionali, ma lo facciamo perché nessuno deve essere lasciato indietro”, chiosa Emanuele Fiano.
Allora? Lo sentite quel profumo di “Governo tecnico di unità nazionale” nell’aria? Ora, prima di entrare nel merito delle parole di Draghi, che oggi viene acclamato da tutti come unico possibile salvatore della Patria, forse è il caso di fare una ripassata sul suo passato. Draghi ha assunto la carica di nuovo Presidente della BCE alla fine del 2011, dopo una “brillante” carriera come Vicepresidente e managing Director di Goldman Sachs (2002-2005), Governatore della Banca d’Italia (2005–2011) e Direttore generale del Tesoro italiano (1991-2001). È proprio nella veste di DG del Tesoro che Draghi, negli anni ’90, si rese protagonista della stagione delle privatizzazioni selvagge di buona parte dell’apparato industriale pubblico italiano, pur essendo perfettamente consapevole, come dichiarò nel suo intervento sullo yachtBritannia nel 1992, che questo avrebbe “indeboli[to] la capacità del Governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale”. Tuttavia – come disse sempre Draghi – quel processo era da considerarsi “inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea”.
Fu sempre Draghi, sempre nella veste di DG del Tesoro, a far sottoscrivere allo Stato italiano una serie di derivati (finalizzati a mascherare la reale entità del debito pubblico italiano) – i cui dettagli non sono noti perché coperti dal segreto di Stato – che negli anni sono costati al nostro paese svariati miliardi. Lo stesso pacco che poi Draghi avrebbe rifilato alla Grecia negli anni ’00 mentre stava alla Goldman Sachs.
Ora, volete che, dopo essersi prodigato in maniera così infaticabile per vent’anni a favore degli interessi del grande capitale internazionale, Draghi non fosse ripagato come minimo con un bel ruolo da banchiere centrale? E infatti così è stato. Con l’arrivo di Draghi alla BCE molti speravano che la banca centrale avrebbe finalmente adottato un approccio più interventista. E così è stato, purtroppo per tutti noi. Nell’agosto del 2011, pochi mesi prima che Draghi assumesse ufficialmente la carica alla BCE, e nel pieno della furia speculativa nei confronti dei titoli italiani, lui e il suo predecessore, Trichet, inviarono al governo italiano quella famosa “letterina”, che poi sarebbe entrata nella storia, in cui intimavano al governo italiano “una profonda revisione della pubblica amministrazione”, compresa “la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali”, “privatizzazioni su larga scala”, “la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari”, “la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale”, “criteri più rigorosi per le pensioni di anzianità” e persino “riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali”. Tutto ciò, si sosteneva, era necessario per “ripristinare la fiducia degli investitori”.
Evidentemente, però, Draghi deve aver ritenuto insufficienti gli sforzi del Governo italiano, e pochi mesi dopo – come ammesso persino da Mario Monti qualche tempo fa – “decise di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della BCE” per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, spianando così la strada all’ascesa del Governo “tecnico” di Monti. È difficile immaginare uno scenario più inquietante di quello di una banca centrale apparentemente “indipendente” e “apolitica” che ricorre al ricatto monetario per estromettere dalla carica un Governo eletto e imporre la propria agenda politica. Tuttavia, questo è quanto ha fatto Draghi nel 2011 nei confronti dell’Italia.
Non contento, appena un mese dopo il suo colpo di Stato silenzioso in Italia, Draghi lanciò l’idea di un “patto fiscale” (“fiscal compact“): “una revisione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da risultare credibili”. Ciò comportò, nel marzo del 2012, la firma da parte di tutti gli Stati membri dell’UE (con le uniche eccezioni di Regno Unito e Repubblica Ceca) di una versione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita istituito dal trattato di Maastricht: il cosiddetto Fiscal Compact. Esatto, quest’ultimo è un’invenzione di Draghi. Cosa la firma di questa trattato significasse per l’Europa lo spiegò lo stesso Draghi in un’intervista al Wall Street Journal pochi mesi dopo: “Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato”.
Fu sempre Draghi a coniare il concetto di “pilota automatico” in riferimento alle politiche economiche dell’eurozona. In seguito alle elezioni italiane del 2013, in cui il Movimento 5 Stelle emerse come il primo partito del Paese, Draghi rassicurò tutti circa i timori che questo potesse portare l’Italia fuori dai binari dell’austerità: “Gran parte dell’adeguamento fiscale che l’Italia ha intrapreso continuerà con il pilota automatico”. E infatti così è stato. Il messaggio di Draghi era chiaro: grazie al nuovo regime di governance economica che egli stesso aveva contribuito a costruire, i risultati delle elezioni non avrebbero contato più nulla. Come avrebbe detto qualche anno più tardi il Ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble: “Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole”.
È precisamente questo processo di spoliticizzazione delle politiche economiche che ha permesso a Draghi di pronunciare il suo famoso discorso che “ha salvato l’euro” nell’estate del 2012. In quell’occasione, Draghi annunciò l’istituzione del programma OMT (Outright Monetary Transactions), con il quale la BCE si impegnava, se necessario, ad effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato sui mercati obbligazionari secondari “per preservare l’euro”. L’implicazione era che, se i mercati avessero richiesto tassi di interesse eccessivamente alti, la BCE sarebbe intervenuta, acquistando i titoli essa stessa. L’annuncio di Draghi fu sufficiente a far scendere immediatamente i tassi di interesse nei paesi interessati dalla crisi, a conferma del fatto che gli interessi sui titoli di Stato sono determinati dalla politica monetaria della banca centrale, non dalla “fiducia dei mercati”, come Draghi aveva ripetutamente affermato fino a quel momento (e avrebbe continuato a ripetere negli anni successivi).
Tuttavia, se da un lato questo ha aiutato i paesi in crisi (come l’Italia) ad evitare l’insolvenza, ha fatto ben poco per sostenerli in termini di rilancio delle loro economie: questo avrebbe richiesto politiche di stimolo fiscale (cioè deficit più elevati), che era esattamente ciò che il nuovo quadro di governance fiscale inaugurato da Draghi proibiva. L’accesso a un programma OMT, infatti, come abbiamo scoperto in questi giorni, comporta l’adesione da parte del Paese in questione a un rigido programma di austerità fiscale e alle famigerate “condizionalità” della troika (liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazione degli asset statali, compressione dei salari ecc.), all’interno della cornice del Meccanismo europeo di stabilità (MES). In breve, le varie innovazioni istituzionali introdotte da Mario Draghi nel corso degli anni, che gli sono valse così tanti elogi, non hanno trasformato la BCE in un prestatore di ultima istanza, su cui i governi nazionali possano fare affidamento sempre e comunque, ma l’hanno resa piuttosto uno “spacciatore di ultima istanza”, con il potere di sfruttare le difficoltà economiche dei paesi per ricattarli e costringerli a implementare politiche di matrice neoliberista.
Questo è diventato evidente nell’estate del 2015, quando, nel bel mezzo del negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE ha deliberatamente destabilizzato l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche, per costringere il Governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità contenute nel nuovo memorandum, un fatto pressoché senza precedenti nella storia. Tutti questi episodi dimostrano che è soprattutto merito di Draghi se oggi possiamo dire che l’eurozona è l’unica area economica al mondo in cui non è la banca centrale ad essere dipendente dai governi, ma sono i governi ad essere dipendenti dalla banca centrale. Più in generale, alla luce del suo “curriculum”, ci sarebbe solo che da tremare alla prospettiva di un eventuale Governo tecnico guidato da Draghi. Il fatto che oggi non ci sia praticamente un solo politico in Italia – da Salvini in giù – che non invochi questa soluzione dà veramente il senso della caratura della nostra classe politica.
Veniamo ora alla lettera di Draghi inviata al Financial Times. Mi dispiace deludervi, ma Draghi non è improvvisamente diventato un novello Keynes da un giorno all’altro. Più banalmente, Draghi sta invocando quella che è la strategia da manuale del buon liberista: privatizzare i profitti in tempo di “pace” (attraverso politiche di austerità a vantaggio del grande capitale ecc.) e socializzare le perdite in tempo di “guerra”, attraverso un’espansione della spesa pubblica – ovviamente a debito – per tenere a galla il grande capitale (istituti finanziari in primis), esattamente come è accaduto nel 2007-2009. Passata la bufera si potrà poi tornare allegramente a privatizzare i profitti con ancora più veemenza di prima, adducendo proprio l’aumento del debito come scusa per implementare politiche di austerità ancora più severe, esattamente come è accaduto del decennio post-2007.
Il senso dell’intervento di Draghi sta tutto qui. Tra l’altro, l’invito di Draghi a “fare tutto il debito di cui c’è bisogno” è ancora più inquietante nella misura in cui l’Italia, come gli altri paesi dell’eurozona, si indebita in quella che di fatto è una valuta estera, il che significa che un domani i cittadini italiani saranno chiamati a compiere sacrifici immani per ripagare ogni singolo centesimo, non potendo contare su una banca centrale pronta a monetizzare una parte del debito all’occorrenza. Tutto ciò è inaccettabile. Come sostenuto persino in un editoriale di qualche giorno fa uscito sempre sul Financial Times, serve un radicale cambio di paradigma: tutte le spese necessarie per fronteggiare l’emergenza COVID-19, invece di essere finanziate a debito, dovrebbero essere monetizzate direttamente dalle banche centrali dei rispettivi Paesi, cioè non dovrebbero prevedere un rimborso futuro da parte degli Stati. Il senso è chiaro: questa guerra i cittadini la stanno già combattendo in prima linea, è inaccettabile che siano chiamati anche a pagarla di tasca propria.
Questa è la soluzione che dovremmo reclamare a gran voce – traendone le dovute conclusioni nel caso in cui la BCE dovesse rifiutarsi di farlo – invece di farci incantare dalle pericolosissime sirene di Draghi.
Fonte:https://www.marx21.it/index.php/italia/economia/30401-draghi-contro-draghi
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