Cina, le terre rare sono la chiave dell’egemonia?
da TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Francesco Dalmazio Casini)
All’interno dell’anarchia internazionale, in cui ciascuno tutela i propri interessi a danno degli altri, esistono dei conflitti definiti dal Gilpin “egemonici, che esulano dalla normale logica delle guerre interstatuali.
Sono questi gli scontri che decidono l’assetto del sistema internazionale di domani. Due sono le caratteristiche fondamentali di questo genere di conflitti: che ogni attore del sistema è obbligato a prenderne parte e che trascendono la dimensione militare per investire tutti i campi in cui i contendenti possono ottenere vantaggio sull’altro. Nel primo ventennio del 2000 a cadere nella “trappola di Tucidide” sono Stati Uniti e Cina, l’egemone e lo sfidante, nemici per natura che corrono verso lo scontro inevitabile. Il teatro dello scontro è l’intero pianeta e il campo di battaglia corre senza soluzione di continuità dal Mare cinese meridionale al centrafrica, la dimensione della guerra dalla deterrenza nucleare al softpower economico. Se Pechino ha ancora molta strada da fare per colmare il gap militare, si trova in notevole vantaggio per quel che riguarda la produzione e il controllo dei materiali “rari” fondamentali per buona parte dell’industria moderna.
Cosa sono le terre rare?
Scoperte alla fine dell’800, le “terre rare” sono un gruppo di 17 elementi della tavola periodica, i primi cinque compresi nella famiglia dei “lantanoidi”, mentre gli ultimi due sono lo Scandio (Sc) e l’Ittrio (Y). L’appellativo “raro” non deriva dalla difficoltà di reperirle – sono tutti elementi più comuni dei metalli preziosi come oro e argento – ma dal fatto di non essere semplicemente trai materiali più comuni. Il Cerio ad esempio, una delle terre rare più utilizzate, è presente nella crosta terrestre in quantità simili al rame. La difficoltà principale è quella degli altissimi costi di estrazione, in quanto i depositi geologici in cui si trovano sono in genere molto piccoli e presentano condizioni estremamente differenziate da zona a zona. Uno sfruttamento intensivo è possibile solo in paesi dove sono presenti giacimenti ingenti – quelli sì, rari – , dove il lavoro costi poco e dove la legislazione ambientale abbia maglie molto larghe. Entrambe condizioni rispecchiate dal celeste impero.
Le terre rare sono fondamentali per la costruzione della quasi totalità deli oggetti “tecnologici” che siamo abituati ad utilizzare. Dai magneti (composti al 25% da neodimio) ai componenti della missilistica, dai cavi della fibra ottica agli elementi dei computer, l’utilizzo di terre rare non può essere sostituito. Le barre di controllo del plutonio ad esempio non possono essere prodotte senza l’Olmio, le lenti ottiche sfruttano ampiamente il Lantanio, il Cerio è un componente insostituibile di diverse leghe; il Terbio viene utilizzato per la produzione di memorie ottiche e componenti hard dei dispositivi elettronici. All’interno di un’automobile sono utilizzate quasi tutte le terre rare: Neodimio per i magneti, Zirconia/ittrio per i sensori elettrici, Cerio per i catalizzatori, Europio e Trebio per gli schemi ottici, Lantanio per le batterie delle macchine ibride (L’Espresso).
La Cina e le terre rare
Le riserve di terre rare mondiali sono stimate tra 120 e 150 milioni di tonnellate. Di queste il 37% si trova in Cina, seguita da Brasile (18%) e Russia (15%), altri importanti giacimenti sono presenti negli Stati Uniti, in Australia, nel sud est asiatico e un enorme giacimento è stato recentemente scoperto al largo dell’isola Minami Torishima in Giappone (circa 16 milioni di tonnellate). Nella prima metà del ‘900 la maggior parte delle terre rare provenivano da siti di estrazione indiani e brasiliani. Negli anni ’50 il primo produttore mondiale divenne il Sudafrica, per poi cedere la palma agli Stati Uniti quando furono scoperti gli immensi giacimenti californiani di Mountain Pass, che fino al 1985 restarono i più produttivi del pianeta. Negli anni ’80 tuttavia, la situazione cambiò rapidamente, con l’ingresso nella competizione del gigante cinese, sulla scia della famosa dichiarazione (attribuita) di Deng per cui “il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare”.
Deng Xiaoping, leader della RPC dal 1978 al 1992 e autore del miracolo economico cinese, promosse lo sfruttamento del giacimento di Bayan Obo nella regione cinese della Mongolia Interna, all’interno del massiccio piano denominato Programma 863. Nel 1985, appena 6 anni dopo l’inizio dello sfruttamento intensivo, dalla miniera mongola provenivano 8500 tonnellate di materiali (21% della produzione mondiale). Sul finire degli anni ’90 la Cina produceva il 90% delle terre rare, mentre le miniere nel resto del mondo – anche la stessa Mountain Pass – venivano chiuse perché non in grado di reggere la competizione con le minerarie siniche. Contestualmente, tutti i paesi del mondo diventano importatori netti dal Celeste Impero. Prima del taglio alla produzione del 2010, la Cina arriva a detenere il 97% della produzione di terre rare. Attualmente il mercato è ancora detenuto per l’80% circa dalla Repubblica Popolare, che produce 105.000 tonnellate di terre rare all’anno, basti pensare che il secondo produttore – l’Australia – non arriva alle 20.000 tonnellate. Nonostante gli sforzi occidentali, specie americani, per trovare nuove fonti estrattive e la riapertura di vecchie miniere, quello della Cina sulle terre rare è ancora un regime di semi-monopolio.
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Rischi connessi alle terre rare
Il rischio ambientale connesso all’estrazione di terre rare è altissimo. Un’indagine federale sulla miniera del Mountain Pass condotta dopo la sua chiusura, rivela che nei 30 anni di utilizzo erano stati dispersi nell’ambiente circa 2.300 litri di acque radioattive, insieme a molti altri rifiuti pericolosi. Durante l’estrazione dei preziosi metalli viene rilasciato il Torio, che contamina radioattivamente il terreno e ha tempi di assorbimento lunghissimi. I metodi di estrazione hanno un’efficienza scarsissima e più del 50% dei materiali estratti viene perduto nel processo; per ogni tonnellata di metallo estratta con successo, vengono dispersi nell’ambiente circa 10.000 metri cubi di gas tossici, una tonnellata di rifiuti radioattivi e 75 metri cubi di acque reflue acide. Le zone con alta densità di miniere – come la regione del Baotou in Mongolia – sono estremamente insalubri e la diffusione nell’aria delle sostanze tossiche è pericolosa per le comunità stanziate. I lavori pesanti di estrazione e trasporto sono parimenti pericolosi e spesso connessi a fenomeni di sfruttamento semi-schiavile. Da qui la grande difficoltà di sfruttare i giacimenti nei pasi del nord del mondo, che hanno stringenti legislazioni sia in termini di ambiente che diritto del lavoro e tutela sindacale – Per fare un esempio, il paesino spagnolo di Campo de Montiel (25.000 abitanti) ha costretto il governo spagnolo a dismettere i processi per sfruttare un vicino giacimento di monazite (uno dei materiali grezzi da cui si ricavano le RE).
Contingenza ironica, le terre rare sono fondamentali anche per lo sviluppo delle fonti di energia alternative. I motori elettrici non possono fare a meno dei magneti al neodimio (almeno per i motori elettrici sincroni, che sono i più performanti). Allo stesso modo, i supporti digitali che potrebbero far risparmiare sulla produzione cartacea sfruttano quasi tutta la gamma delle terre rare. Anche il comparto eolico è fortemente connesso all’estrazione dei famigerati materiali. I grandi progetti di riconversione verde rappresentano un mercato nuovo ed in espansione per le società minerarie che si occupano dell’estrazione delle RE. Come ha sottolineato su Euronews Laurentino Gutiérrez, ingegnere automobilistico: “costruire un’auto elettrica produce la stessa quantità di emissioni di CO2 dell’assemblare due auto alimentate con combustibili fossili” – con un’equazione ecologica che si sbilancia a favore delle auto ecologiche solo dopo 50.000 km.
Terre rare: una clava politica
L’attuale assetto produttivo rappresenta una leva importantissima nelle mani di Pechino. La produzione di RE infatti ha caratteristiche ben diverse da quella dei combustibili fossili. I paesi che vivono di esportazioni di gas e petrolio infatti sono consapevoli che l’offerta è superiore alla domanda, dunque nel momento in cui un fornitore dovesse minacciare realmente di “chiudere i rubinetti”, i compratori troverebbero presto un altro acquirente – ovviamente infrastrutture permettendo. Questo fa in modo di creare un’interdipendenza complessa tra produttori e compratori, oltre a suscitare nel mercato un elevato grado di competitività. Gli Stati Uniti ad esempio premono perché l’Europa riduca al massimo l’acquisto di gas dalla Russia per sostituirlo con il gas liquefatto statunitense – uno sconvolgimento estremamente poco probabile ma comunque potenzialmente realizzabile. La Cina tuttavia è allo Stato attuale l’unico grande produttore e ha gioco libero nel mercato: sa che i materiali sono indispensabili e sa che per molto tempo resterà testa di serie della produzione. Contestualmente, la domanda interna cinese dovrebbe passare da 90k a 150k tonnellate annuali, spingendo Pechino ad attuare misure di facilitazione per l’acquisto in casa, invertendo una delle tradizionali tendenze dell’economia cinese (solo in questo campo sia chiaro)
Un esempio di quanto sia ampia la libertà di manovra cinese in materia è costituito dai fatti del 2010. La RPC decide di tagliare l’export di terre rare del 40% con il conseguente aumento esponenziale dei prezzi. Il taglio arriva in un momento in cui la Cina produce il 97% delle RE, in corrispondenza di un riscaldamento della disputa territoriale per le isole Sengaku con il Giappone. Il prezzo dello Scandio aumenta dai 2500 dollari per kg del 2009 ai 5100 del 2015. La disputa viene risolta definitivamente solo 5 anni dopo dall’intervento del WTO, ma il dragone aveva mostrato i muscoli a sufficienza – considerato che a Pechino non era ancora iniziata l’era assertiva Xi. Durante la guerra dei dazi degli scorsi mesi, con le accuse e le misure restrittive dell’amministrazione Trump nei confronti di Huawei, la Cina è tornata a minacciare un taglio delle esportazioni, in una situazione in cui il fabbisogno mondiale è cresciuto di molto rispetto alla crisi precedente.
Importanti aziende americane come Apple – e tutto il settore difesa – dipendono interamente dall’acquisto dei rari ossidi cinesi (e dal cobalto anche questo gestito in buona parte da minerarie cinesi). Le risposte al monopolio sinico sono estremamente difficili per i paesi occidentali e vanno principalmente in due sensi. In primo luogo, si cerca di promuovere il riciclo da materiale tecnologico (in questo Apple è particolarmente attiva), mentre in secondo si cercano nuovi giacimenti utilizzabili, si tenta di revitalizzare quelli in disuso e di implementare quelli attuali in Malesia, Sudafrica e Brasile. Misure che restano di difficile realizzazione, come dimostra la bancarotta per gli altissimi costi rispetto ai concorrenti cinesi della Molycorp Minerals LLC, che aveva rilevato e riaperto il giacimento di Mountain Pass dopo il taglio del 2010. Resta da vedere se e come saranno sfruttabili i giacimenti della Groenlandia (paese occidentale ma dove la Cina ha importanti investimenti) e il gigantesco deposito da poco scoperto in Giappone; in caso contrario il binomio Cina terre rare continuerà a tormentare l’attuale generazione di decisori americani.
Corsa all’oro d’Africa
La Cina detiene anche altre importanti fette della produzione mineraria. Ad esempio, è testa di serie anche nella produzione di metalli rari che svolgono funzioni per certi versi analoghe a quelli delle RE. E’ il caso di Tungsteno (82% produzione cinese), Gallio (93%), Germanio (65%), magnesio (87%), Antimonio (77%) e Fluorite (77%); questi metalli sono fondamentali nella produzione di leghe, nell’industri automobilistica, mineraria, nucleare, come anche per la realizzazione di circuiti integrati, superconduttori e lampade LED o a incandescenza. Se la Cina è fortemente avvantaggiata dai depositi geologici che si trovano entro i suoi confini, la ricerca e acquisizione di nuovi bacini minerari all’estero svolge un ruolo non secondario nella sua agenda di politica estera. Il colonialismo economico cinese in Africa risponde (anche) a questo tipo di indirizzo.
Attraverso società come la China Molybdenum, la RPC punta al monopolio del cobalto congolese – minerale fondamentale per gli apparati tecnologici che nel 2016 era prodotto per il 53% nello stato centrafricano e che ha triplicato il suo prezzo negli ultimi due anni. La Molybdenum – società parastatale – ha recentemente acquisito la miniera di Tenke per 2,6 miliardi di dollari, assicurandosi uno dei giacimenti più produttivi del globo. Altra quota importante dell’estrazione di cobalto era già da tempo in mano alla Zhejiang Huayou Cobalt – società cinese che recentemente è stata accusata da Amnesty di utilizzare lavoro minorile in condizione semi-schiavile. Da sottolineare che anche importanti aziende occidentali come l’australiana Avz hanno forti investimenti nel campo dell’estrazione di cobalto e litio nei paesi subsahariani. Quella che sta avvenendo nel continente nero è niente di meno che una nuova “corsa all’oro“. Ancora ironico infine come buona parte di questi materiali servano a foraggiare il piano del “Made in China 2025” annunciato da Xi al Boao Forum del 2018; piano per cui la RPC dovrebbe diventare leader nella produzione ad alta tecnologia con un indirizzo particolare verso le nuove tecnologie green, che non possono fare a meno del neodimio cinese e del litio africano per le batterie (i cui primi produttori mondiali sono Catl e Byd, entrambe cinesi); materiali che costano le sofferenze del pianeta e di chi deve mettere a rischio la propria vita nelle miniere. Il prezzo del respirare aria pulita in Occidente.
Tanti interrogativi
Per concludere, la Cina gode di un sensibile vantaggio sul blocco occidentale per quel che riguarda il mercato di terre rare e di alcuni metalli (anche se questo appare già più competitivo). Bisogna tuttavia sottolineare come questo vantaggio sia legato ad un ambito settoriale che è solo uno dei campi in cui si gioca lo scontro del secolo e che una chiusura completa delle esportazioni di questi materiali esporrebbe Pechino alla possibilità di rappresaglie economiche e politiche – e perché no militari – che potrebbero brutalmente interromperne l’ascesa. Le incognite principali restano quelle sugli sforzi americani per colmare il gap minerario con la RPC, che per quanto difficili non sono impossibili. Resta da vedere se i metodi estrattivi elaborati dai ricercatori giapponesi dell’Università di Tokyo si riveleranno efficienti come quelli degli omologhi cinesi e come la legislazione internazionale reagirà al problema dello sfruttamento in Africa – magari in seguito a qualche “innocente” pressione promossa da Washington.
Fonte: https://www.progettoprometeo.it/cina-terre-rare-guerra-tecnologia/
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