L’intuizione del movimento degli anni ’70
di L’INTERFERENZA (Fabrizio Marchi)
I movimenti sociali degli anni ’70 hanno commesso una enormità di errori e anche di fesserie (alcune tragiche) che sarebbe anche troppo lungo elencare. Volendo fare una sintesi brutale, da una parte la deriva militarista, pensare cioè che fossero applicabili modelli insurrezionalisti o di guerriglia validi, in alcuni casi, in altri contesti ma non certo in un paese capitalista avanzato che si apprestava a vivere una trasformazione sociale e tecnologica radicale (che necessitava e necessita di una critica adeguata).
Dall’altra, l’adesione acritica all’ideologia neoliberale e politicamente corretta (allora non si chiamava in questo modo…), cioè l’attuale ideologia dominante del capitale (il risvolto stupefacente è che gli eredi di quei movimenti ancora non se ne rendono conto e ne sono tuttora imbevuti…) con il risultato – apparentemente paradossale – di diventarne organici.
Fra i molti errori che hanno portato alla sua sconfitta e alla sua dissoluzione (repressione dello stato a parte) quel movimento ebbe però anche una grande intuizione, che non fu capita dalla Sinistra ufficiale dell’epoca (e comunque, dati i tempi, magari esistesse ancora…), preoccupata di contenere, disinnescare e, in alcuni casi, anche di dare il suo contributo alla repressione di quell’esplosione di conflittualità sociale.
Quel movimento pose cioè – forse per la prima volta nella storia – la questione della qualità della vita, del rifiuto del modello sviluppista/industrialista/consumista/produttivista dominante sia nel sistema capitalista occidentale che (in parte) in quello statalista sovietico (che era sicuramente molto meno produttivista e consumista ma altrettanto sviluppista/industrialista). Peraltro, lo stesso modello attualmente dominante con la sola differenza che quello sovietico (che aveva, per il solo fatto di esistere, il potere di condizionare, in meglio, quello occidentale, perché lo obbligava a garantire livelli relativamente alti di stato sociale e di occupazione…) non esiste più.
I giovani del movimento del ’77 rifiutavano l’ideologia del lavoro “purchessia”, come unica prospettiva, scopo e baricentro dell’esistenza, contestavano quella che era definita, appunto, “l’ideologia del lavoro” e posero concretamente sul piatto alcune questioni come la ridistribuzione e la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, non solo dal punto di vita economico, lavorativo (cioè per dare a tutti la possibilità di lavorare) e salariale, ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale ed esistenziale. Non si rivendicava, insomma, solo il pane, per dirla con un’espressione allora in voga, ma anche le “rose” (successivamente, questa espressione è diventata patrimonio dell’ideologia radical politicamente corretta e femminista ma questo è un altro discorso ancora…). La questione della riduzione dell’orario di lavoro era, dunque, parte di una critica complessiva a quel modello sociale industrialista/sviluppista/produttivista/consumista (e capitalista) altamente pervasivo che occupava (e tuttora occupa), in modo totalizzante, l’intera esistenza delle persone. Il merito storico di quel movimento fu proprio quello di porre al centro la qualità della vita, o meglio, la possibilità di deviare da quello schema e di marciare in un’altra direzione dove il tempo libero, la cultura, la creatività, la salute, l’ambiente (e, naturalmente, anche un lavoro non alienante, avvilente e abbrutente) erano posti al centro. E tutto ciò era una novità assoluta, anche dal punto di vista culturale e ideologico, anche per una Sinistra storica che ancora era interna agli schemi “sviluppisti” e ad una sorta di celebrazione ideologica del lavoro in quanto tale.
Dopo di che la repressione, gli errori politici e ideologici, le derive militariste tragiche a cui ho fatto cenno (e non mi riferisco solo al terrorismo ma anche e soprattutto ad una pratica di pseudo guerriglia metropolitana diffusa e priva di sbocchi…) e, naturalmente, la riduzione che di quell’esperienza è stata fatta dalla vulgata mediatica ufficiale, hanno fatto sì che quegli aspetti positivi e fortemente innovativi posti da quel movimento fossero completamente cancellati.
Giorni fa ci si confrontava con alcuni amici circa la natura dei vari sistemi capitalisti asiatici e in particolare su quello cinese, che per me è fondamentalmente capitalista (anche se in forme inedite e peculiari a quel contesto storico e culturale) mentre per alcuni di loro contiene degli elementi di socialismo. Resta però il fatto che, al di là delle differenti strutture politiche e delle nostre rispettive opinioni, soprattutto quei sistemi (ma, ovviamente, anche quelli occidentali) sono tuttora completamente interni allo schema “sviluppista/industrialista/consumista/produttivista di cui sopra.
Ci si chiedeva, con quegli amici, quale potesse essere, in linea teorica, la strada di una possibile alternativa (socialista) a quello schema, per lo meno nel contesto occidentale.
Ecco, io credo che porre al centro la qualità della vita, nel suo complesso (quindi della qualità del lavoro, delle relazioni umane e sociali, del tempo libero, della scuola, della cultura, della sanità pubblica, dell’ambiente, dello stato sociale) possa rappresentare quella possibile alternativa. Naturalmente tutto ciò presuppone il fatto di rimettere in discussione l’attuale modello di sviluppo, di capovolgerlo, di mettere l’economia, la tecnica e la scienza al servizio dell’uomo e del cittadino e non viceversa. Forse quei “maledetti” anni ’70 non sono proprio tutti da buttare via, se solo si avesse la volontà politica di capirlo…
Fonte: http://www.linterferenza.info/attpol/lintuizione-del-movimento-degli-anni-70/
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