Se anche gli intellettuali progressisti si schierano contro il politicamente corretto
Il cortocircuito a sinistra contro la deriva totalitaria del Pensiero Unico
La politically correctness, la mentalità secondo cui si deve modificare il linguaggio (e il pensiero) per non offendere nessuno, specie le minoranze di ogni genere e tipo, è nata nelle università americane, con in prima fila quella del Michigan, alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e poco a poco imposta, sul piano culturale, dalle élites intellettuali progressiste (quelle che finanziano le medesime università, peraltro, e il cui potere condizionante è quindi evidente) sino a diventare una vera e propria ideologia pervadente che aveva come principale bersaglio tutti coloro che venivano definiti “di destra” o “conservatori”, se non “reazionari” e “fascisti”, cioè coloro che non intendevano adeguarsi a questo tipo di autocensura che stava diventando una censura oggettiva tout court fortemente oppressiva.
L’intellighenzia mondiale radical chic per quasi quarant’anni l’ha utilizzata a proprio vantaggio imponendo una vera e propria dittatura, da cui l’espressione Pensiero Unico per identificarla. Una specie di arma contro coloro che non vi si conformavano, un’arma che però alle lunghe, si è rivelata a doppio taglio.
Infatti, come sempre accade nel pensiero giacobino alla fine spunta chi è più “puro” degli altri e comincia a usare quest’arma contro chi se ne riteneva immune per motivi politico-ideologici. Abituati per anni e anni al fatto che il politicamente corretto fosse la “normalità”, i nuovi Tribunali dell’Inquisizione ne hanno spinto sempre più in là i confini scovando i reprobi anche tra loro stessi, un po’ come Robespierre e Danton mandati alla ghigliottina da chi si era scoperto più giacobino di loro. Che così inopinatamente, si trova dall’altra parte, fra i brutti e cattivi, non più tra i buoni. Sino a giungere alla data del 7 luglio 2020 quando è stato pubblicato sulla rivista culturale statunitense Harper’s Magazine e diffuso un documento, o lettera aperte, meglio una specie di “manifesto”, scritto in precedenza trattandosi di un mensile, di ben 150 intellettuali, docenti, scrittori e giornalisti che hanno condannato la furia iconoclasta che negli USA e in altri Paesi del mondo ha abbattuto statue e busti e scritte di ogni genere con la scusa dell’essere simboli del “colonialismo” e del “razzismo” dopo la morte il 24 maggio di George Floyd americano di colore per mano di un poliziotto bianco. “Manifesto” che in realtà è soprattutto una denuncia della “dittatura del politicamente corretto” che censura apertamente tutte le idee e le opinioni contrarie limitando di fato la libertà di pensiero ed espressione come mai si era visto in precedenza nelle democrazie che in Occidente si autodefiniscono “liberali” e nella nazione che la dovrebbe rappresentare per eccellenza.
I firmatari sono personalità notissime e tutte definibili “progressiste” o ascrivibili alla “sinistra” come, tanto per fare qualche nome, Noam Chomsky, Salman Rushdie, Margaret Atwooed, Ian Buruma, J.K.Rowling, Anne Applebaum, Garry Kasparov, Francis Fukuyama, Michael Walzer, che affermano cose condivisibilissime, anche perché denunciate da altri non progressisti e non di sinistra molto prima di loro, ma inascoltati proprio perché estranei alla casta.
Il fatto è che, come detto e come si dimentica di ricordare Pigi Battista nel suo indignato pezzo di appoggio sul Corriere della Sera del 9 luglio del tutto sottoscrivibile, i 150 si sono accorti di questa orwelliana “dittatura del pensiero” solo ora, cioè solo quando sono entrati anch’essi nel mirino delle critiche dei nuovi giacobini. Quando il “politicamente corretto” aveva come bersaglio soltanto i “reazionari”, i “conservatori” e i “tradizionalisti”, per non parlare dei “fascisti”, andava tutto bene, non c’era il minimo problema a censurarli, a toglier loro la parola, a licenziarli in tronco. Ora non più perché ora la musica è cambiata.
Sul Corriere della Sera sempre del 9 luglio sono stati segnalati alcuni episodi significativi, e oggettivamente incredibili da pensare e accettare, che stanno dietro questa levata di scudi della casta intellettuale progressista inglese e americana evidentemente preoccupata dei prossimi sviluppi della situazione: J.K. Rowling, la “madre” di Harry Potter, è stata attaccata violentemente dalle femministe intransigenti per aver affermato che le transessuali non sono vere donne e tali non si possono definire e autodefinirsi semplicemente perché non hanno le mestruazioni, posizione che si collega alla difesa fatta in precedenza dalla scrittrice di una ricercatrice britannica che era stata licenziata per aver affermato che “il sesso è un dato oggettivo” (episodio clamoroso da regime dittatoriale: perdere il lavoro per una opinione! Ma a quanto pare la “teoria gender” per cui il sesso te lo scegli tu in base a quel che ritieni di essere, è una Verità Assoluta e negarla ti costa la carriera); James Bennett, responsabile della rubrica di opinioni del New York Times, il quotidiano liberal per eccellenza, è stato costretto a dimettersi dopo le polemiche suscitate dall’aver ospitato appunto l’opinione di un senatore repubblicano che chiedeva l’intervento dell’esercito contro l’abbattimento dei monumenti di personaggi considerati razzisti; Ian Buruma, notissimo accademico anglo-olandese, si è dovuto dimettere dalla cura della New York Review of Books (sempre loro), per aver pubblicato e difeso un articolo in cui si criticavano i metodi del movimento femminista MeToo. Gary Garrels, direttore del Museo di arte moderna di San Francisco, rende noto Il Giornale del 18 luglio, si è dovuto dimettere in seguito alla richiesta di 180 suoi dipendenti, per aver detto in una conferenza stampa in cui annunciava l’acquisto di opere di artisti donne, di colore e autodefinitisi Lgbt, che questo non voleva dire che non avrebbe più collezionato opere di artisti bianchi perché altrimenti si sarebbe trattato di “una discriminazione all’incontrario”… Tutti casi di limitazione della libertà di opinione e della democrazia, al di là di ogni logica.
In poche parole, come si vede la casta degli intellettuali progressisti è stata attaccata da quelli che si ritengono più progressisti di lei. Non fosse avvenuto questo, non si sarebbero decisi a stilare e firmare questo “manifesto”. E infatti in esso si denuncia che la nuova intolleranza causa “un costante restringimento di quello che si può dire senza timore di incorrere in ritorsioni”, come “capiredattori licenziati per la pubblicazione di articoli controversi; libri ritirati per presunta falsità; giornalisti diffidati dallo scrivere su determinati argomenti; professori indagati per avere citato certe opere letterarie in classe; capi di organizzazioni espulsi per quelli che sono a volte solo goffi errori”. Siamo nell’URSS staliniana? No, siamo negli USA del 2020. E poi: “La libera circolazione di idee e informazioni, linfa da di una società liberale, è sempre più limitata. Mentre ce lo possiamo aspettare dalla destra radicale, oggi la censura si diffonde soprattutto all’interno della nostra cultura”.
Ma va là! E chissà perché? Forse perché la “nostra cultura” progressista contiene in sé i germi, mai ammessi, di questa voglia inconfessata di censura delle idee altrui? Infatti, i 150 usano come riferimento contrario quello alla “destra radicale” quale forma illiberale per antonomasia e non al “comunismo” che è ancora il regime di molte nazioni del mondo a cominciare dalla Cina…
Un morbo
La correttezza politica è come un morbo che si diffonde sempre più e con sempre maggiore virulenza e sono decenni che lo si denuncia inutilmente dato che la sua censura si rivolgeva sempre contro coloro che davano fastidio all’establishment culturale dominante, cioè quello progressista Ora è questo ad essere preso di mira da frange sempre più estremiste, ed è stato così obbligato ad accorgersene. Ma ormai le cose sono andate troppo oltre, è impossibile frenarlo dato che ha contagiato pure i centri decisionali più importanti, e alla fine questa pandemia travolgerà anche simili personaggi mettendo a loro posto una nuova élite sempre più conformista ed intransigente sino che non si solleverà una nuova ondata ancor più estremista e conforme all’andazzo dei tempi. La storia come al solito non ha insegnato proprio nulla.
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