Quel che (non) stavamo cercando
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Alfio Squillaci)
Èper me sempre una esperienza imbarazzante leggere Baricco. Dopo aver dato il mio assenso entusiasta al suo saggismo musicale nell’ormai lontanissimo 1992 (“L’anima di Hegel e le mucche del Wisconsin”), sono andato giù di delusione in delusione sia con la narrativa, “City”, sia con la saggistica, “The Game”. Mi ero ripromesso di ignorarlo dopo la lettura di quest’ultimo volumone, o di considerarlo una mera presenza della realtà culturale del nostro Paese, tipo: “E poi c’è Baricco” senza aggiungere Evviva o Abbasso, considerarlo cioè uno di quei fatti culturali che bisogna accettare senza commenti, come una funzione religiosa, una messa per esempio, a cui si assista da increduli, con partecipazione impartecipe quindi, assistendo al rito e non aderendo al mito, in ultima fila, in piedi, mentre masse di fedeli tra i banchi si inchinano e turibolano.
La messa come è noto è sì un “mito”, ovvero una “narrazione” (la vita e soprattutto il sacrificio di Cristo) ma anche una “rappresentazione” ove gli elementi suggestivi quali i fiori, l’incenso, l’organo, la voce suadente del prete (il libro si può anche ascoltare infatti dalla voce di Baricco), catturano la nostra attenzione e forse ci distraggono. Ora, in questo “libro” al tempo del Game Baricco è proclive proprio alla rappresentazione, alla funzione rituale suggestiva, all’”esperienza” estatica: soffoca pertanto l’elemento logico-discorsivo nella sua “orazione” (ops, “saggio”), infatti pigiando sui cerchi in basso dello schermo dello smartphone il lettore può costruirsi il suo percorso personale tra i 33 “frammenti” (quanti gli anni di Cristo?). E pertanto si può passare dall’”introibo ad altare dei” alla comunione e poi alla “ite missa est” ma anche alla consacrazione dell’Eucarestia, ad libitum, seguendo un ordine random suggerito in alternativa a quello consecutivo dei capitoli.
Ma nel momento in cui ci si fa spazio fra i melismi gregoriani (come quello dolciastro di chiamare gli uomini suggestivamente “gli umani”) e si tenta di acciuffare qualche concetto, solo qualcosa a lacerti emerge. Dopo un inizio ipnotico stile Kyrie eleison (“ciò che un medico decide di chiamare malattia, è una malattia. Ciò che un virologo decide di chiamare virus, è un virus. Ciò che un epidemiologo decide di chiamare “pandemia”, è una pandemia”), ecco subito la Voce narrante di Baricco annunciare che non è proprio così, che invece ci troviamo davanti a una “creatura mitica”, ossia una figura che nasce in uno spazio mentale chiamato mito, e qui la Voce ci dice, forzando lo stile orfico e approdando nel flou, che il mito “è uno dei principali gesti grazie a cui gli umani si assicurano un destino”. Mirabile dictu! Ma che vuol dire il nostro Oracolo esattamente? Certamente con quella parola “gesto”, non vuol intendere un movimento del corpo, ma una movenza verbale e/o mentale, si suppone. Ma è di un solido chic detto cosi, diciamolo.
Noi si era rimasti a Platone per il quale, secondo il suo maggior studioso italiano Giovanni Reale, il mito è «pensare per immagini», mentre il logos è un «pensare per concetti»; e anche per Georges Sorel, il più grande diffusore moderno di miti collettivi, il mito agisce come un “fascio motore di immagini” che tende a muovere le masse all’azione. No, troppo semplice dirlo così. Ed ecco che la Voce, quelle poche volte che abbandona lo stile alto e rarefatto degli oracoli e imbocca il sentiero del logos, della concettualizzazione, la si vede già prendere di mira l’illuminismo (ti pareva) come fonte di ogni nequiizia mentale e infatti eccola approdare alla suggestiva proposizione: “la resa senza condizioni al metodo scientifico ci ha resi incapaci di leggere il mito, di capire la sua produzione e perfino di dare valore alla sua presenza nella vita degli umani”. Possibile? Ma di cosa parla? Si fa fatica immaginare le masse italiane voltairriane, in polpe di seta e scarpine di raso, elegantemente illuministe e scientiste che non riescono a vedere la Pandemia sotto veste di “creatura mitica”. E poi: se la Pandemia è una creatura mitica, chi l’ha creata? L’immaginario collettivo? Non si sa, la Voce, come il Dio di Eraclito, non dice né sì né no: accenna. Suggerisce che sia una creatura del Game, e che sia stata affrontata dalla scienza periclitante come un giocatore di scacchi novecentesco, secondo strategie desuete.
Non è proprio una Voce dal sen fuggita quella che ci parla negli auricolari, ma quasi. Ecco avanzare infatti l’opzione alla Agamben: massì, non ci avevamo pensato, c’è una Autorità Centrale che manovra gli “umani”, ma non come nel film “Metropolis” di Fritz Lang dove sembravano lobotomizzate: no le masse italiane sono ansiose di obbedire. Ed ecco un “frammento” recitare: “L’incredibile disciplinarsi di moltitudini dietro autorità politiche fino al giorno prima disprezzate, dà alla figura mitica della Pandemia l’autorità di dire che un sordo desiderio di disciplina serpeggiava sotto la pelle di una civiltà a cui piaceva immaginarsi libera, aperta, ribelle, perfino caotica”. Ma ricordiamo tutti invece che erano fottute di paura e cantavano sui balconi. E ci mancava poi che non affiorasse l’allusione al perfido potere politico, il quale grazie alla Pandemia è “tornato al centro del campo in una restaurazione fulminea che l’ha recuperato da un’agonia irreversibile”. È meglio che teniamo questo Potere nell’indeterminatezza vaga che ha il “Palazzo” pasoliniano, perché se gli dessimo un volto dovremmo sovrapporgli con incredulità la faccia di Conte, di Di Maio, di Speranza. Loro il Potere? La Spectre?
Infine c’è un “frammento” in cui l’evoluzione del discorso prende movenze da gioco di società, tipo: “se la Pandemia è un urlo, cosa stiamo urlando? Lo vogliamo “veramente” sapere, o preferiamo rinviare l’appuntamento con noi stessi e concentraci a curare i sani e i malati – ovvio dettato quotidiano?”. Si resta stupefatti da questa trovata e si resiste all’impulso di rivoltarsi sul pavimento in preda a scosse epilettiche. E vien voglia semplicemente di controbattere: e se la Pandemia fosse più terra terra un colpo di tosse, una polmonite bilaterale, una macchina dell’ossigeno a cui si viene attaccati? No?
Tutta così la prosa di Baricco. Suggestiva e orfica, pitica, eleusina, elegante e chic. Allusiva ed evanescente. Prendere o lasciare. Io dopo aver letto e ascoltato al contempo la Voce sono rimasto come intronato dalla forte suggestione del mito della Pandemia e dalla mirabile sinestesia Voce/Testo. Ma che voglia di urlare e di spruzzare droplet in giro m’era rimasta in corpo durante tutta la lettura/ascolto…
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