Berto Sour. Il Recovery e la redistribuzione (possibile) degli utili dell’Italia agro-turistica
di Giacomo Petrella – 15 dicembre 2020
Il cambio di paradigma? Se lo Stato si intesta la battaglia di governare l’economia di Strapaese in chiave rivoluzionaria
Vi ricordate quando Massimo Morsello cantava “non sta all’Europa determinare quest’anno quanto il grano vale”? La canzoncina era assai orecchiabile e il testo di facile comprensione. Se la risposta è si, allora si potrebbe partire da quegli “occhi di contadino” per tracciare il punto nautico dopo la tempesta e cercare di capire la rotta di navigazione.
A 28 anni di distanza dalla ratifica del Trattato di Maastricht, il Recovery Plan oggi in arrivo sembra rappresentare un punto di svolta e la fine del dramma integrazionista: fiumi di denaro finalmente in grado di riavvicinare la gente alle istituzioni europee, in una sorta di grande remake in salsa europeista del mitico Piano Marshall.
Da qui la corsa, per certi aspetti sacrosanta, al governissimo, all’esecutivo di unità nazionale, nel disperato tentativo di poter incidere, ognuno per il proprio bacino elettorale, sull’allocazione d’insperate risorse. Tutto ciò rappresenta davvero la rivincita del funzionalismo europeista? Siamo alla vigilia di un grande ridimensionamento delle pulsioni sovraniste che hanno sconvolto la politica degli ultimi anni? Forse.
Eppure la visione tecnocratica della Ue, quel misto di burocratismo sovietico e liberismo monopolistico, non è affatto cambiata. Se nel progetto di ingegneria sociale dei vari Trichet, Merkel, Sarkozy, e loro eredi, l’Italia sarebbe dovuta divenire una sorta di grande parco-giochi eno-gastronomico a vocazione turistica, numeri alla mano, il giovane agricoltore italiano deve ancora fare i conti con gabelle feudali quali le “quote latte” e i “diritti di impianto vitivinicolo”; le guide turistiche hanno visto bloccato l’accesso all’albo per altri diciotto mesi; i laureati in Beni culturali continuano a non capire quale sia l’effettivo sbocco privato del proprio settore.
Morale? L’Italia strapaesana immaginata dai bravi dumpisti fiscali del nord europa ancora non esiste, presa in trappola fra le esigenze di austerity degli ultimi trent’anni e la struttura fondamentalmente latifondista dell’agricoltura nazionale, l’inesistenza di un mercato culturale privato, l’assenza di pianificazione statale.
Il rischio è evidente a tutti: diventare la Florida o la California del mediterraneo prevede un costo sociale enorme, da far scontare solo ed esclusivamente a tutte quelle nuove generazioni (le coorti nate dagli anni ’80 in poi) che non detengono alcun potere contrattuale. Il piano di decrescita per avere un modello Eataly funzionale non può che passare per una forzosa denatalità (60 milioni di Italiani sono troppi per un paese non industriale) ed una concentrazione sempre più massiva nelle mani (straniere?) di pochi del brand “Made in Italy”.
Qui sta il cortocircuito del modello imposto da Bruxelles al nostro paese: il sacrificio deflativo imposto alle generazioni più giovani non varrà la candela se l’Italia non avrà uno Stato forte in grado di ridistribuire le possibilità e le ricchezze di un sistema agricolo-turistico ormai irreversibile. In questo senso l’idea di Strapaese, dell’Italia profonda, della Provincia, può ancora essere un’idea politicamente vincente e ribellista: ma non deve essere più utilizzata come mero bacino elettorale da sfruttare come merce di scambio a garanzia di tutto ciò che di vecchio, grasso e venduto conserva l’apparente funzione di “borghesia nazionale”. Al contrario essa deve finire concretamente sui tavoli di scontro politico.
Commenti recenti