Libia, la liberazione dei pescatori e la genuflessione di Conte ad Haftar
Un commento che inquadra la parabola intrapresa dalla politica estera italiana nel Mediterraneo
di Gian Micalessin – 21 dicembre 2020
Ai servizi segreti spetta la soluzione di questioni politicamente irrisolvibili. Ai capi di governo spetta valutarne le conseguenze e il costo per l’autorità dello Stato. In base a queste regole il Direttore dell’Aise (Agenzia Informazioni Sicurezza Esterna) generale Gianni Caravelli e i suoi uomini possono dire di aver sbrogliato un caso apparentemente impossibile. Altrettanto non si può dire per il nostro Presidente del Consiglio e per il nostro ministro degli Esteri. Non a caso ieri il presidente del Copasir Raffaele Volpi si è rivolto ai nostri 007 sottolineando di voler ringraziare “unicamente loro”. Difficile dargli torto.
Per riavere i pescatori sequestrati dal generale Khalifa Haftar Giuseppe Conte e Luigi Di Maio hanno accettato di trasformarsi nel prezzo stesso del riscatto. Volando a Bengasi hanno riconosciuto dignità politica e istituzionale ai sequestratori dei nostri connazionali e si sono inginocchiati ad Haftar. Per intenderci è come se, a suo tempo , fossero volati in Somalia per stringere la mano ai terroristi rapitori della cooperante italiana Silvia Romano. Insomma nella ridicola e tardiva illusione di presentarsi come i risolutori di una vicenda totalmente affidata , invece, alla gestione della nostra intelligence hanno ulteriormente compromesso l’immagine dell’Italia.
Ma la colpa non è certo dei nostri 007. A loro è stato chiesto, una volta di più, di risolvere una grana libica figlia dall’inconsistenza della nostra politica. E loro hanno ancora una volta obbedito. Esattamente come succede fin dall’autunno 2018. Allora un Giuseppe Conte fresco d’incarico e smanioso di chiudere con una foto simbolo la Conferenza di Palermo sulla Libia ordinò ad un generale Caravelli, ancora numero due dell’Aise, di prendere un aereo, volare a Bengasi e portare in Italia a tutti costi Haftar. Quella leggerezza segnò la fine della nostra autorevolezza e consegno all’uomo forte della Cirenaica la certezza di avere in pugno Conte e la sua corte. Così è andata anche stavolta.
Caravelli e i suoi si sono una volta di più uniformati alle indicazioni di una Presidenza del Consiglio inconsapevole di aver trasformato la liberazione dei pescatori in un’umiliante processione a casa dei nostri ricattatori. Una processione resasi indispensabile per sanare gli errori del primo settembre quando Di Maio vola a Tobruk per incontrare il presidente del Parlamento Aguilah Saleh. Il passo, teoricamente corretto per un ministro chiamato ad interfacciarsi con un autorità politica, è uno schiaffo al generale Haftar già costretto ad accettare il cessate il fuoco firmato da Saleh e impostogli dai suoi alleati egiziani russi ed emiratini. Ma con loro non può alzar la voce né, tantomeno, le mani. Può invece farlo con un’Italia protagonista in Libia di un’azione politica confusa e inconcludente costataci il titolo di potenza di riferimento. Un titolo ormai saldamente nelle mani della Turchia da un parte e degli alleati di Haftar dall’altra.
E così nel giro di poche ore lo sgarbo di Di Maio viene punito con il sequestro dei due pescherecci. Un sequestro reso possibile anche dalla latitanza – non sappiamo se “ordinata” da Roma o figlia del caso – di una Marina Militare chiamata – in base alle regole della missione Mare Sicuro – a proteggere i nostri pescatori. E a render il tutto più complesso s’aggiungono le complicazioni del caso Regeni che rendono assai arduo un coinvolgimento a nostro favore delle autorità egiziane.
Così i nostri 007 affrontano una trattativa complicatissima minacciata dall’ufficializzazione del peggiore dei ricatti ovvero la richiesta di uno scambio con i quattro scafisti condannati in Italia per la morte, nel 2015, di 49 migranti chiusi nelle sentine di un barcone partito da Bengasi. L’unico modo per dribblare quella richiesta è sanare lo sgarbo generato dalla visita di Di Maio. Ma ancora una volta Conte e Di Maio propongono la peggiore delle soluzioni ovvero quella di una foto ricordo a Bengasi con cui attribuirsi la paternità della liberazione. Una foto che non ricorderà un successo, ma la sottomissione dell’Italia ad un inaccettabile ricatto.
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