Nagorno-Karabakh: i droni e la solita guerra
di Report Difesa (Vincenzo Dal Santo – Generale di Corpo d’Armata Esercito – Ris)
Erevan. La guerra nel Nagorno Karabakh ha trovato un nuovo momento di sosta lo scorso 10 novembre. Solo una sosta, infatti, mentre il capitolo finale di questo conflitto deve ancora essere scritto.
Da allora, una moltitudine di commentatori hanno ritenuto opportuno fare a gara per dire al mondo i cambiamenti significativi che questa guerra avrebbe portato sui campi di battaglia.Alcuni persino immaginando che ci si trovi dinanzi a una nuova rivoluzione negli affari militari (RMA). Tutto ciò soltanto in riferimento al massiccio uso di droni fatto dagli azeri. Fuggiamo dagli entusiasmi sensazionalistici dei giornali.
È pur vero che Baku abbia impiegato un numero rilevante di questi velivoli, di provenienza israeliana come l’Harop o l’Harpy, o turca come il TB2 Bayraktar. Ma da qui a ipotizzare una rivoluzione negli affari militari ce ne passa. E, tuttavia, è molto vero che stiamo vivendo una fase rivoluzionaria legata all’Information Technology (IT), ma non siamo ancora giunti a un livello tale da spingere i militari verso un nuovo modello per la condotta delle operazioni. Sviluppi importanti, certamente, per cui le nuove tecnologie, per lo più legate all’informazione e alla comunicazione, garantiscono oggi maggiore dispersione e letalità, aumento del volume e della precisione del fuoco, maggiore capacità delle piccole unità nel perseguire risultati decisivi e migliori possibilità nell’individuazione.
Ma viviamo ancora una terza ondata(1) nell’evoluzione tecnico-militare, quella basata sullo sviluppo di nuove capacità per l’osservazione e il targeting a lunga distanza. Una realtà che, per dirla all’anglosassone, è caratterizzata da un coherent and comprehensive reconnaisance-strike system, che comprende munizionamento di precisione, sensori e radar a lungo raggio e un sistema digitale di comando e controllo. Il risultato? Una capacità distruttiva convenzionale generale che può surrogare e rendere inutile o inaccettabile un intervento nucleare.
Ma niente che non fosse già in atto prima che Baku prendesse l’iniziativa. Infatti, in riferimento a una possibile definizione di RMA, che si identificherebbe in un maggior mutamento nel carattere della guerra, ottenuto grazie al simultaneo verificarsi dell’applicazione innovativa di nuove tecnologie, dell’utilizzo differente della dimensione spaziale, di cambiamenti significativi nella dottrina militare e nei concetti operativi e organizzativi, ciò che è avvenuto nel Caucaso ha persino qualcosa riconducibile al passato. Tanto sotto l’aspetto tattico, non ultimo per la presenza di trincee, quanto dottrinale.
Ora, pur accettando che occorra oggi minor tempo “from sensor to shooter”, soprattutto a danno di obiettivi mobili, sarebbe enormemente sbagliato pensare che la sola innovazione tecnologica possa di per sé costituire un’intera rivoluzione. Non c’è una guerra moderna, c’è oggi un modo moderno di condurre la guerra, in tutte le sue salse. Come del resto è quasi sempre accaduto nella storia militare, salvo “salti” significativi, come la motorizzazione o il nucleare. Soprattutto, una nuova RMA avrà luogo per opera delle grandi potenze, nella loro competizione per conquistarsi il dominio nello, dello e dallo Spazio, requisito indispensabile per avere la leadership su questo pianeta. Non riguarderà “gli altri”. Né, tantomeno, azeri e armeni.
È tuttavia vero che l’ampio utilizzo, in questa guerra, di droni, mini e micro, ha aperto la porta del targeting di precisione ben oltre il predominio delle grandi potenze. Per cui è pacifico che interventi in situazioni asimmetriche dovranno fare i conti con questa nuova realtà. Giusta è infatti la preoccupazione del Generale McKenzie Jr (CENTCOM), che considera quello dei droni come lo sviluppo tattico più preoccupante, perché rappresenta la più grande minaccia dall’ascesa dell’ordigno esplosivo improvvisato (IED). Lui si riferisce al Medio Oriente, ma non c’è dubbio che questa minaccia non abbia confini. Man mano che i droni diventeranno più economici, più facili da modificare e più accessibili al pubblico in generale, finiranno senza dubbio nelle mani di gruppi militanti e altri attori ostili, ponendo più alti rischi per la sicurezza di forze, istituzioni governative, infrastrutture, civili e così via. È già accaduto con strumenti più rudimentali nelle mani dell’ISIS. Con la necessaria e indilazionabile corsa a investire di più nella tecnologia contro-droni. E, devo dire, che in questo l’Italia, grazie al nostro Comando di Artiglieria Controaerei è all’avanguardia in ambito europeo.
Ma, attenzione! Gli azeri non hanno vinto questa “puntata” della guerra solo grazie ai droni. Di certo, questa tecnologia ha costituito un fattore incrementale verso il successo. Ma ci sono altri elementi che, a distanza di qualche mese dai fatti, ora possiamo considerare per inquadrare correttamente gli eventi. Innanzitutto, la disattenzione armena. Gli azeri avevano testato gli attacchi già a partire dal 2016 e lo avevano fatto ripetutamente. Una brigata di élite azera, la paracadutista, era stata persino trasferita sulla linea del fronte, dove, insieme ad altre unità, Baku era riuscito a schierare ben 2 “strike corps”. Avevano costruito inoltre magazzini e depositi molto vicini alla linea di contatto e persino una condotta per il rifornimento del carburante. Insomma, tutte cose che potevano tranquillamente essere notate con un solo binocolo. L’intelligence armena non si era nemmeno preoccupata di annotare che tipo di armamenti gli azeri stessero acquisendo e in che quantità, incluso il sistema israeliano LORA (missile balistico), il cui CEP (errore circolare probabile) è dell’ordine di 10 metri soltanto. Un niente in confronto a quelli dei loro SCUD-B e SS-21 Scarab.
Non basta. Il nuovo governo armeno, guidato dal filoccidentale Nikol Pashinyan, aveva fatto di tutto per recidere i contatti tra il suo apparato militare e quello russo. A detrimento dell’attività informativa militare. Anzi aveva decapitato l’organizzazione dell’intelligence ponendone al vertice personaggi russofobi e provveduto a far congedare in massa ufficiali la cui preparazione professionale fosse stata compiuta presso istituti di formazione russa. Un disastro annunciato, insomma.
Ed è appena ora il caso di accennarlo qui. Non ho dubbio alcuno che in questa sconfitta ci sia lo zampino di Putin, il quale io ritengo abbia avuto voglia di mollare uno schiaffo all’attuale élite politica armena. Già quando era solo membro del parlamento, infatti, Pashinyan aveva sottolineato la necessità che il Paese uscisse dall’Euroasian Economic Union, a guida russa, per abbracciare un approccio più occidentale. Un qualcosa che Putin non poteva dimenticare facilmente. E non l’ha fatto. Giudico, infatti, impossibile che Mosca non conoscesse non solo di cosa Baku si stesse dotando, sia sul canale israeliano, il predominante con il 60% delle importazioni belliche azere (per inciso, Israele riceve da Baku il 40% del petrolio attraverso l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan), sia su quello turco, ma anche di cosa avesse in mente. Insomma, strategicamente, la potremmo definire una sconfitta pilotata da Mosca.
E possiamo anche dire che l’accordo sul cessate il fuoco del 10 novembre sia stato, in qualche senso, il “bacio della vita” di Putin, prima che gli armeni collassassero completamente. Un atteggiamento, quello russo, che conferma Mosca, al di là degli apparenti imbarazzi iniziali, come il principale trionfatore strategico nel cortile di casa sua. Sul piano tattico? Quando, lo scorso 27 settembre, le ostilità iniziarono da parte azera, gli armeni, in trincea, resistettero dignitosamente. Come da aspettarsi, gli azeri ebbero forti perdite in uomini e materiali, anche carri armati. Ma gli armeni pensavano che avrebbero combattuto come negli anni ’90, con metodi e mezzi dell’ex impero sovietico, alcuni acquistati a peso d’oro persino dalla Giordania. La presunzione gioca cattivi scherzi. E infatti, le perdite armene erano distribuite non solo sulla fronte, ma anche in profondità. Tutto sommato, nel combattimento ravvicinato gli armeni si erano fatti valere, ma gli azeri, con il fuoco in profondità, preciso e letale, condotto grazie ai loro nuovi sistemi, riuscivano ad interdire di fatto le retrovie, colpendo posti comando, la logistica ed elementi di manovra, man mano che questi si avvicinavano per rinforzare la prima linea.
In definitiva, il concetto operativo delle forze azere non è stato niente di rivoluzionario, replicando in scala la dottrina USA dell’AirLand Battle, con forte pressione sul terreno e su tutta la fronte e intensi attacchi aerei in profondità, nelle retrovie, grazie a uno stretto coordinamento tra forze di terra ed aeree. Quanto necessario per battere un avversario ben trincerato, quindi in una posizione di apparente vantaggio, privandolo dell’alimentazione tattica e logistica. In poche parole, una quasi “Blitzkrieg”. Qualcosa di già avvenuto nel Golfo contro gli iracheni.
Niente di più. Siamo nel campo tattico. Come detto, con un modo moderno di fare la guerra grazie a ritrovati tecnologici che, peraltro, non sono affatto nuovi. I droni israeliani hanno debuttato negli anni ’90, per esempio con l’Harpy venduto alla Cina nel 1994. Ma l’Harop era già stato utilizzato dagli azeri nel 2016, tanto per rimarcare la disattenzione armena. Va da sé che, come accennato, noi “occidentali”, che presumiamo di possedere indiscussa superiorità militare, non potremo più considerare sicure le nostre retrovie o le nostre basi, anche quando ci confrontiamo in situazioni asimmetriche. L’attacco di precisione, che sia condotto e guidato dal “loitering munitions” ovvero da missili balistici, non è più monopolio dei “grandi”. Tra l’altro, questi armamenti sfuggono potenzialmente alle attuali contromisure sfruttando i confini tra la difesa aerea e quella missilistica. Troppo in basso perché vengano intercettati dai vettori della difesa missilistica e troppo in alto per essere ingaggiati da quelli della difesa aerea. E le loro dimensioni li rendono difficili da intercettare data la bassa radar cross section (RCS).
Quindi, nella realtà, niente di concettualmente nuovo ma, di certo, come lezione da mettere in pratica, la necessità di provvedere, anche in situazioni di bassa conflittualità, nel dotare i contingenti di strumenti per potenziarne le conseguenti capacità di difesa, soprattutto contro i droni.
In conclusione, abbiamo un altro conflitto “sospeso”, questo del Caucaso, con l’ultimo round a favore di Baku, dopo la sua rovinosa sconfitta degli anni ‘90, all’indomani del collasso dell’Unione Sovietica. Ma, come detto, il capitolo finale deve essere ancora scritto, benché dovrebbe essere chiaro a tutti chi sia a tirare le fila in quel quadrante. Non è Ankara, non si prendano abbagli, è sempre Mosca. Una guerra, come descritto, condotta da una sola parte in modo moderno, contro un avversario che non si era rinnovato, adagiato sui ricordi del passato, innalzando così, in modo esponenziale, le probabilità di una sua dolorosa sconfitta.
Ma non una rivoluzione. Solo un’evoluzione tattica, pur sempre in trincea, di cui tenere buona memoria.
(1) La prima era caratterizzata dalla “motorizzazione della guerra”, con l’uso dell’aviazione e di armi chimiche. Esordita durante la 1^ GM e poi maturata nelle 2^, perché incorporata nella Blitzkrieg tedesca, nel concetto britannico del bombardamento strategico e, infine, nella introduzione delle portaerei, come attuato da USA e Giappone. La seconda avvenne con lo sviluppo dei missili balistici e delle armi atomiche. Maturata poi negli anni’70 con il conseguimento della parità strategica nucleare tra USA e URSS.
Fonte: https://www.reportdifesa.it/nagorno-karabakh-i-droni-e-la-solita-guerra/
Una risposta
[…] Nagorno-Karabakh: i droni e la solita guerra (Appello al popolo) […]