Il culto del capitale di Walter Benjamin
di Kriticaeconomica (Jacopo Sala)
Il frammento 74, realizzato nella seconda metà del 1921 e pubblicato per la prima volta nel 1985 nelle Gesammelte Schriften, rappresenta il fondamento dell’idea benjaminiana di capitalismo. In questo testo di poche pagine dalla densità quasi visionaria, il capitalismo si presenta come una vera e propria religione che tende a potenziare la sua logica di perpetuazione attraverso un sinistro meccanismo di indebitamento e colpevolizzazione da cui non è possibile fuggire.
A differenza di numerosi studiosi che hanno tentato di dare cogenza teologica al fenomeno economico, Benjamin propone un’interpretazione totalmente innovativa del sistema capitalistico. Egli sostiene che il capitalismo non è soltanto una conformazione religiosa, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso sviluppatosi in modo parassitario nelle società. Questa complessa strutturazione religiosa ci consente di mettere a fuoco la mutazione di superficie e la continuità di fondo che caratterizzano il capitalismo moderno: esso si trasforma, ma il suo apparato è permanente.
“Nel capitalismo va scorta una religione, vale a dire, il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento delle stesse ansie, pene e inquietudini alle quali un tempo davano risposta le cosiddette religioni. […] Già nel momento presente possiamo però riconoscere tre aspetti di questa struttura religiosa del capitalismo. In primo luogo il capitalismo è una religione puramente cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. […] Un secondo aspetto del capitalismo è connesso a questa concrezione del culto: la durata permanente del culto. […] Questo culto è, in terzo luogo, colpevolizzante/indebitante”
- Benjamin, “Capitalismo come religione”
Una religione cultuale
Dagli appunti di Benjamin si evince che la struttura del capitalismo come religione si articola lungo tre caratteristiche fondamentali. Il primo carattere operativo è indubbiamente il “culto”, da cui poi discendono gli altri due elementi. Il capitalismo è una religione che si giustifica solamente attraverso la propria realizzazione cultuale, ossia mediante la ripetizione di pratiche e tecniche rituali: il sistema non domanda un’adesione al credo; sono le azioni stesse, la pratica quotidiana, che assumono un carattere religioso.
Il complesso di azioni umane fornisce dunque una validità teologica al sistema economico: siamo noi a generare la spinta propulsiva che dà avvio all’agire frenetico del capitalismo. Le azioni cultuali si configurano come provvedimenti generatori di fiducia da cui risulta estremamente difficile estraniarsi. Tale intuizione trova fondamento nella sacralità della scritta “In God we trust” presente sulle banconote americane che Benjamin definisce mefistofelicamente come “l’ornamentazione della facciata dell’inferno” (“Fassadenarchitektur der Hölle”). In questo scenario diabolico, nessun individuo vuole sentirsi escluso dai rituali del culto capitalistico che vede come pilastri fondamentali la produzione e il consumo di beni e l’indebitamento di chi a fatica sgomita per sopravvivere in questo tempio.
L’imprenditore, il consumatore, il lavoratore, ognuno a suo modo, esercitano il culto del capitale in un processo alienante che non ha mai fine e nel quale tutto si confonde convulsamente:
“L’uomo dell’età capitalistica vive una disperazione priva di passioni, conduce una vita esangue, in cui contano solo gli istinti primordiali del produrre e del consumare, del glamour (seduzione) e del conformismo”.
- Benjamin, “Capitalismo come religione”
L’eterna celebrazione
Il secondo carattere di questa religione rappresenta l’apoteosi del capitalismo: la durata permanente. Non esiste discontinuità nella celebrazione di questa fede: ogni giorno prevede lo svolgimento incessante del rito. Per spiegare il movimento economico di questo culto Benjamin usa un’interessante espressione francese: “sans [t]rêve et sans merci” (“senza sogno e senza pietà” o “senza tregua e senza pietà”). Questa locuzione si riferisce alla perentorietà, alla persistenza e all’inesorabilità del sistema: nessuno è libero di “sognare” un destino diverso da quello predeterminato; gli individui si ritrovano “incatenati a un processo senza fine, insaziabile, totalmente astratto e dissociato dal soddisfacimento dei bisogni di consumo”.
In questo eterno dinamismo non conta il soddisfacimento individuale presente o futuro, quanto piuttosto l’accrescimento di un’estrema forma di godimento e consumo. Il tempo del capitalismo diventa l’equivalente del nostro tempo, come suggerisce il vecchio proverbio inglese: “Time is money”.
Debito come colpa
Il terzo aspetto fondamentale di questa struttura religiosa riguarda il meccanismo indebitante/colpevolizzante che si colloca alla base del culto. Nella religione del capitalismo il debito è lo strumento attraverso cui gli individui cercano ingenuamente di espiare la propria colpa, senza mai riuscirci. La “coscienza dell’essere colpevoli” (Schuldbewußtsein) induce ineluttabilmente all’indebitamento come tentativo di riparare alla colpa, ampliando e accelerando il moto continuo che anima il sistema. La Schuldbewußtsein, non trovando alcuna redenzione, ricorre al credo capitalistico non per sanare il debito, bensì per renderlo universale, per infiggerlo in profondità nelle coscienze.
La colpa, in quanto debito contratto, diventa il presupposto per un potere alimentato da prestazioni impossibili, dove le pulsioni non vengono represse, ma sono amplificate in un movimento senza scopi e senza interruzioni a cui le singole vite partecipano inesorabilmente. L’idea stessa di un continuo indebitamento da parte delle società è il riflesso del comportamento normativo di un popolo che ha il capitale e il potere da esso derivante come culto religioso. La peculiare connessione tra colpa e debito è decifrabile nella parola tedesca “Schuld”, che al singolare significa colpa e al plurale debito: questa demoniaca ambivalenza dà forza all’idea di una colpevolizzazione che è allo stesso tempo un indebitamento (o viceversa).
Il tema del “debito” è di scottante attualità e si pone al centro di un dibattito di più ampio respiro: nella recente crisi economica non si è esitato a definire “colpevoli” i Paesi europei maggiormente indebitati, come la Grecia, l’Italia e la Spagna, tanto da sottoporli a coercizioni e sacrifici insostenibili. In effetti, le politiche di austerità prevalse negli ultimi anni e guidate dalla Germania risultano propugnatrici di una visione colpevolizzante dei Paesi indebitati. In quest’ottica il debito si presenta come una sorta di strumento di governance capace di garantire l’ordine economico globale.
La frantumazione dell’essere
La religione capitalistica di Benjamin non è una riforma dell’essere, è la sua frantumazione (Zertrümmerung). Questo culto produce la disperazione attraverso molteplici logiche insidiose.
In primo luogo, il capitalismo, definendo se stesso come una forma naturale e necessaria dell’economia moderna, non ammette alcun differente avvenire, alcuna alternativa: la sua forza è irresistibile e si presenta come un destino inevitabile. Secondariamente, questo sistema religioso relega la vasta maggioranza dell’umanità ad una dannazione terrena in cui non può esistere alcuna possibilità di redenzione divina.
Il capitalismo, inoltre, tende a rimpiazzare l’essere con l’avere, le qualità umane con le quantità mercificate, le relazioni personali con quelle economiche, i valori morali e culturali con l’unico valore che conta in questo tempo: il denaro. Secondo il culto del capitale, l’unica soluzione consiste nell’intensificazione del sistema, nell’espansione capitalistica, in una sempre maggiore accumulazione: questo “rimedio” causa solamente l’aggravarsi della disperazione.
Una “vera” speranza
Per Benjamin, però, una via di fuga deve essere trovata. Questa possibilità di espiazione non va ricercata all’interno della religione capitalistica e nemmeno in una sua riforma. Neanche l’abbandono o il rifiuto del sistema si presentano come possibilità di salvezza, in quanto si rimane in una relazione di dipendenza con la logica della struttura capitalistica. L’abbandono individuale, e non collettivo, non riesce poi a frenare il potere del culto.
L’unica possibilità di redenzione si concretizza in ciò che Benjamin definisce Umkehr, cioè “conversione”. Il frammento del 1921 non contiene indicazioni sulla natura di questa Umkehr, ma è possibile effettuare alcune considerazioni prendendo come riferimento il contesto filosofico e politico in cui si sviluppa la critica benjaminiana al capitalismo moderno:
“Liberarsi dalla Schuld non significa pagare il debito né espiare la colpa, ma non sentirsi in debito né in colpa e per far questo bisogna interrompere il meccanismo del capitalismo, il che non può avvenire se non con la Gewalt, anch’essa nel doppio senso di potenza e violenza”.
- Benjamin, “Capitalismo come religione”
Addentrandosi in questa visione, allora si può pensare di identificare la Umkehr con la politica: solamente una “vera” politica (wahre Politik) può essere in grado di interrompere la temporalità della logica debito/colpa e di dare avvio a una vera e propria svolta epocale. Una possibile via di redenzione sarebbe, quindi, auspicabile invertendo il dominio della logica capitalistica con una nuova “potenza” politica in grado di abbattere la realtà esistente e di definire una nuova storia dell’umanità.
Il compito della politica mondiale diventa quello di edificare “l’ordine profano” per contrastare l’ortodossia religiosa del capitalismo e di orientare l’uomo verso una dimensione diversa da quella puramente economica.
L’attualità di Benjamin
In una prospettiva più ampia e attuale, il pensiero di Benjamin si configura come un’accesa critica al neoliberismo di questi anni. Il termine “neoliberismo” comprende numerosi filoni di pensiero accomunati da un’ideologia di fondo: la libertà dei mercati è il mezzo migliore per appagare le aspirazioni dell’uomo. Essa assurge dunque a valore dominante e si oppone al controllo degli Stati e della politica.
La tesi neoliberista discende dall’idea smithiana di liberoscambismo in cui la ricchezza di una nazione è determinata dalla capacità dello Stato (o del tipo di governo vigente) di lasciare l’economia libera di autodeterminarsi e di autoregolamentarsi. Il neoliberismo si regge su un dogma inconfessabile, smascherato ogni giorno di più dalla cruda osservazione dei tristi accadimenti del nostro tempo, secondo cui tutto andrà bene se ci sarà più mercato e meno Stato, se ciascun individuo sarà lasciato libero di contribuire allo sviluppo della società dando sfogo ai propri istinti e sentimenti “morali” e, quindi, economici.
Per Benjamin, l’ottimismo e la fede nel “laissez-faire”, che caratterizzano questa teoria, sono il residuo di una concezione teologica di ordine antico: “la mano invisibile non armonizza un bel nulla, ma incrementa invece all’infinito colpa e debito”. L’eredità di Benjamin ci spinge, quindi, a pensare ad un’”inversione” del meccanismo neoliberista, a concretizzare un’alternativa politica che sia in grado di favorire i nobili tentativi di combattere la disperazione, di infondere coraggio e di impedire l’asservimento al culto del capitale. La “vera” politica deve procedere in senso “inverso” rispetto a questa struttura religiosa, realizzando una “conversione” in comune delle vite dei singoli individui e un’“inversione” dell’interiorità in esteriorità.
Fonte: https://www.kriticaeconomica.com/culto-capitale-benjamin/
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