di TERMOMETRO GEOPOLITICO
(Sergio Flore)
Dopo sei secoli, il vecchio detto rinascimentale andrebbe aggiornato: “Francia o Spagna, purché non sia Italia”. Non è un caso che il gran tifo, la sviolinata per Mario Draghi arrivi in buona parte da quegli stessi spalti che un decennio fa orgasmarono per il Governo Monti. Il grigio bocconiano e il drago del QE, due personaggi teoricamente diversissimi, vengono accolti allo stesso modo. Persino gli slogan hanno un che di già sentito, con gli “appelli all’unità” in un “momento di emergenza senza precedenti”. Sono due facce di una stessa moneta – inutile specificare di quale conio si tratti – e, al di là dei programmi di governo, l’unionista medio sbrodola proprio per questo motivo.
‘Tecnici’ super partes di questa caratura sono percepiti come personaggi europei, non italiani. Chi sta ad arrovellarsi su promesse, pronostici, programmi di spesa semplicemente non coglie l’essenza della situazione. È infatti necessario accettare di non trovarsi più nel reame della politica, ma dell’ideologia, forse persino della psicologia. Non si tratta più di metter d’accordo due parti per trovare una soluzione mediana e risolvere un problema di natura pubblica. L’europeista odia il politico italiano per principio, e per lo stesso principio adula il tecnico dai modi pacati, morigerati, incapace di inciampare in una gaffe – roba da italiani, troppo italiani –, il vero leader europeo. Forse ci si identifica. Forse è una proiezione delle sue fantasie, che si infrangono sul volto ingenuo della casalinga in fila al supermercato, o sul grugno di quello zotico del vicino di casa, o dell’impiegato pubblico che sbadiglia tra una pratica e l’altra. Fortuna che c’è l’efficiente vicerè, espressione del volere di Berlino e vassallo di Bruxelles, calato dalle Alpi a rimettere ordine, a portare la torcia del rigore. E dunque la difesa è meglio affidarla a Washington, l’economia a Bruxelles. Per le grandi tematiche sociali e morali ci sono l’ONU e le lobby internazionali. Le ‘misure anticovid’ ce le detti l’OMS, Berlino, la Cina. Insomma, dell’Italia decidano tutti tranne che l’Italia. Per il bene degli italiani, si capisce.
L’aspetto forse più divertente è il carattere supponente, saccente dell’europeista. Si crede cittadino cosmopolita, moderno e globalizzato, ma il retroterra sociale è quello del classico provincialotto che all’estero, tra lo stupore divertito e un po’ imbarazzato di inglesi e tedeschi, parla dell’Italia come fosse l’ultimo dei Paesi del terzo mondo. Patetico e servile, egli è convinto di farsi degli alleati, di leccare chiappe internazionali. Non sa che sta ripetendo dinamiche vecchie di secoli –queste sì, purtroppo, italianissime –, le stesse per le quali davvero “siam derisi, perchè non siam popolo, perchè siam divisi”. La cosa è palese a tutti i livelli, un cancro che non ha risparmiato nemmeno la coscienza storica nazionale. L’Italia condanna il colonialismo europeo, ma si fustiga e si deride per esser stata una potenza coloniale sostanzialmente fallimentare, fuori tempo massimo. L’Italia vinse la prima guerra mondiale, ma gli italiani continuano a piangere per Caporetto (trovate un’inglese che si vergogna di Dunkirk, o un russo che rinnega il valore dell’Armata Rossa perchè costretta a battere in ritirata fino a Stalingrado).
L’Europeista sguazza in questo complesso di inferiorità, e lo risolve con un paradosso che diventa regola: egli si è convinto che il Paese persegua il suo interesse nazionale solo negando il suo interesse nazionale. L’eterno mantra del “ce lo chiede l’Europa” significa semplicemente questo. L’Italia, al tavolo europeo, deve comportarsi come il classico scemo che va volontario all’interrogazione, senza sapere un tubo, semplicemente per salvare i suoi compagni di classe. Crede che il professore ne riconosca il valore, che gli altri alunni apprezzino lo spirito di abnegazione per la causa. Una sorta di logica evangelica pervertita, per la quale gli ultimi saranno i primi, un complesso di inferiorità geopolitico unito a manie di martirio per una (in tutti i sensi) supposta battaglia europeista.
Le origini del fenomeno sono antiche ma, con il concretizzarsi del progetto europeo, l’europeista ha finalmente trovato un suo vessillo, azzurro e stellato: il suo odio può diventare ‘positivo’, travestendosi da fanatismo nazionalista per una nuova, farsesca, patria europea. Che si parli di immigrazione, che si cerchi di proteggere l’industria italiana, o che si lotti per una migliore politica monetaria, lui remerà contro, difendendo gli interessi di tutti i Paesi tranne che del suo. Non c’è da stupirsi che la Penisola sia da decenni inesorabilmente avviata verso un costante declino, palese da qualsiasi lato lo si guardi. Il geniale G.K. Chesterton scrisse che “i romani non amarono Roma perchè fu grande, ma Roma fu grande poichè i romani la amarono”. Il paradosso è perfetto perchè funziona persino al contrario: gli italiani non odiano l’Italia perché è misera, ma forse l’Italia è misera perché gli italiani la odiano.
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